01 marzo 2006

Il PORCATE

Il nome descrive in maniera perfetta il gioco.
Un modo di essere già grandi anche da piccoli.
Lo “praticavo”, se mi si passa il termine, in un condominio della Roma bene, quartiere Balduina, dentro ad un bel giardino al centro di una decina di palazzi, poco sopra una piscina dove abbiamo trascorso parecchi scorci della nostra gioventù.
C’erano, in verità, altri due giochi molto gettonati in piscina, che potrebbero essere anch’essi spunti per parecchi racconti.
Uno era quello del calcio a bordo vasca, con una sedia come porta e palla piccola, si segnava solo sotto la sedia, quante vesciche rimediate giocando su quel maledetto asfalto…
Il secondo, entusiasmante, lo avevamo chiamato “Piscinetta”, e veniva ovviamente giocato nella piscina dei bambini, un portiere a difendere un lato della piscina quadrata, la palletta piccola, un centravanti in vasca (a volte due, quando si era in tanti), e ai lati quattro cinque persone a fare i cross per questo sciagurato, che di piede o di testa doveva infilarla nello spazio fra l’acqua e il bordo della piscina.
Gioco straordinario, davvero.
Io quando c’ero ero il portiere, e stazzavo già quasi cento chili tuffandomi a destra e a sinistra come un matto per parare questa palletta a volte impazzita, tanto che un giorno un’inquilina si lamentò dicendo che c’era una specie di rinoceronte che faceva degli schizzi molesti ed insopportabili dentro alla piscina dei bambini, ma quell’anno per fortuna il bagnino era appassionato di calcio e lasciava fare, anzi a fine serata si metteva a giocare anche lui insieme a noi.
Ma questi sono giochi forse più banali e che molti hanno alle loro spalle, qui siamo partiti da ben altro, da un gioco che già rendeva adulti a quindici anni, e forse insegnava ad affrontare la vita stessa.
O, quanto meno, a capire come doveva essere da grandi: dura, molto dura.
Il gioco, dal nome “Porcate”, che era tutto un programma, era più o meno questo: uno spazio rettangolare di un centinaio di metri quadri, con ringhiere su quasi tutti i lati, diviso per terra in lastroni anch’essi rettangolari di circa ottanta centimetri per un metro. Qua e là piante, anch’esse in vasi rettangolari, a creare disturbi, ed a movimentare le sfide.
Si giocava finché c’erano rettangoli disponibili, ho visto sfide anche con venti persone a volte.
Regole banali, ma categoriche: si giocava con una palletta piccola (sempre quella della piscinetta), solo con le mani, volendo anche colpendola al volo ma più facilmente dopo un rimbalzo, quello consentito.
Ognuno doveva semplicemente rimetterla nel campo di un altro, nulla di più. Ogni giocatore aveva tre vite (a volte, quando si cominciava a giocare sul far del tramonto solo due, chè il gioco doveva essere più veloce). Mano mano che i giocatori venivano eliminati, ci si stringeva abbandonando i rettangoli periferici, per stare comunque tutti vicini.
In teoria, detta così, un gioco banale e di interminabile durata, si trattava di palleggiare fino a che qualcuno non avesse sbagliato, o di tirarsi fortissimo l’uno con l’altro, cercando così di far sbagliare qualcuno.
In pratica, era un gioco che aveva in sé tutti i crismi del grande gioco che è da sempre il nostro Parlamento italiano.
La grandezza di Porcate, nome assolutamente calzante rispetto alla filosofia del gioco, era tutta nell’intreccio, nell’inciucio, nel cercare di stringere una rete di alleanze con i vicini di campo per evitare che qualcuno, prima o poi, ti tirasse una botta da un metro durante un banale palleggio, sottraendoti così una delle tue tre vite.
E, spesso, persa la prima vita, il passo era breve per morire definitivamente, gli altri giocatori erano lì come sciacalli che odoravano il tuo sangue, pronti a farti fuori appena ti mostravi loro più debole.
C’era in porcate non meno tattica di quella che possiamo trovare nel Risiko, ma senza alcuna componente di fortuna, che era data solo dalle piante in mezzo al campo, che a volte davano strane traiettorie alla palla, e ti facevano perdere anche quando nessuno aveva cercato di toglierti la vita in quel frangente, tanto che in una versione successiva del gioco, più legata a regole e certezze, si passò a ripetere ogni scambio nel quale la palla comunque toccava una di queste piante, che a quel punto venivano viste come salvifiche.
Quante polemiche mi ricordo per una palla sulla riga o giù di lì, per una pianta sfiorata dall’uno o dall’altro durante uno scambio, per una “palla accompagnata”; quanti musi, quante litigate, anche feroci, fra amici fraterni. Ma quanta voglia di ricominciare il giorno dopo, per vendicarsi dell’amico che ti aveva eliminato, per rimanere in gara il più a lungo possibile, per divertirti anche tu facendo porcate a quello del rettangolo accanto che da uno come te proprio non se l’aspettava.
Il gioco, alla fine, premiava i tattici, quelli che rimanevano nell’ombra, gli attendisti per definizione, mentre puniva inesorabilmente quelli che si volevano solo divertire nel gioco (tapini…) o chi si metteva da subito in guerra con i vicini, che prima o dopo restituivano la pariglia.
I primi a saltare erano sempre gli anelli più deboli della catena: o i più giovani, o i meno simpatici, o quelli che non erano del condominio, e dunque avevano meno possibilità di stringere alleanze importanti.
Poi fra quelli che rimanevano iniziava la partita vera.
Titic, e totoc, e titic, e titoc, fino a che qualcuno sbagliava, per colpa sua o perché qualcuno aveva fatto una porcata, inducendolo all’errore fatale.
Se qualcuno aveva fatto una porcata, siccome chi sbagliava aveva poi diritto alla battuta, come nel tennis, e questa poteva essere letale se ben sfruttata, si assisteva spesso ad una pantomima del “colpevole”, che si trincerava dietro a un “non l’ho fatto apposta, mi è scappata la mano, non vorrai mica metterti lì a cercare di farmi una porcata, eddai”, arrivando perfino a volte ad implorare il tizio (o la tizia, visto che porcate era giocato anche dal gentil sesso, sebbene non si ricordano nella storia del condominio affermazioni di una ragazza) di non mettersi lì a fare la guerra.
Anche perché, e qui era il bello, avendo quell’altro, il tipo in battuta, già una vita in meno in partenza, era chiaro che se si fosse andati al muro contro muro, e ognuno avesse sfruttato il suo turno di battuta, il primo ad uscire sarebbe stato proprio il tizio che si apprestava a battere.
Che, quindi, spesso si faceva convincere a non muovere guerra, e altrettanto spesso veniva immediatamente punito da colui il quale gli aveva inflitto la prima porcata, che spesso nel giro di pochi secondi gliene infliggeva un’altra.
Scatenando così il suo immediato risentimento e la inevitabile guerra, ma partendo da tre vite contro una sola.
A quel punto l’odore del sangue era fortissimo, e i pescecani accanto si moltiplicavano, e non bastava saper nuotare per uscirne vivi, una botta da un metro e via, eri fuori.
Gli ultimi due a rimanere in gara se la giocavano, sempre con la regola delle tre vite, ma ricominciando da capo, sempre a tennis con le mani, utilizzando i due campi centrali. Lì, a quel punto, ma solo a quel punto, sopravvissuti a tutte le porcate possibili e immaginabili, contava solo la bravura. Ma la finale era decisamente il lato meno interessante del gioco, l’importante era arrivarci.
La cosa divertente, a parte il gioco in sé, era anche l’aspetto strettamente sociologico di Porcate, e chi usciva di solito rimaneva per vedere come sarebbe andata a finire, si era curiosi di sapere chi sarebbe stato il vincitore di quella partita, quali strategie avrebbe usato, per poi cercare di metterle a frutto durante la partita dopo.
Quando però già non servivano più, ogni partita –proprio come la vita, e forse anche ogni singola legislatura del nostro Parlamento- faceva storia a sé, era un universo a parte, difficilmente riproducibile a comando, anche perchè i campi ed i giocatori cambiavano, e quindi si dovevano stringere nuove alleanze con persone diverse.
Il gioco non aveva arbitri, regnava la legge del più forte e quella del gruppo, raro esempio di democrazia popolare, autoritarismo e oligarchia, da fondersi tutto insieme in una strana miscela, spesso esplosiva, ma comunque divertente ed istruttiva.
Ho visto gente che aveva ragione da vendere vedersi togliere in maniera spudorata una vita, e gente che aveva torto farsi forte degli amici che aveva vicini per non morire.
Pure, nonostante il libero arbitrio assoluto, nessuno ebbe veramente mai a che ridire del gioco e di chi abitualmente ne dettava le regole: chi entrava, anche solo per una partita, ne accettava immediatamente tutte le regole, nessuna esclusa. E, se era bravo, a volte vinceva anche, non era affatto obbligatorio che vincesse uno del condominio, anche perché non c’erano due squadre contrapposte, e tutto sommato non ci voleva un’abilità particolare per giocare.
Si trattava di essere tattici, un po’ sociologi, e molto politici.
Probabilmente un piccolo Berlusconi sarebbe risultato spesso vincitore, mentre più facilmente un piccolo D’Alema sarebbe più facilmente risultato antipatico, e tirato fuori a furia di porcate dagli altri contendenti.
Ma erano regole che saltavano ad ogni partita, a volte erano proprio quelli più tattici ad essere eliminati per primi, proprio perché più pericolosi, spesso odiati per il loro nascondersi dietro una pianta periferica, rimanendo lì ad osservare gli altri che si battagliavano.
Ricordo che si rimaneva a giocare anche dopo il tramonto, alla luce di un paio di lampioni, che rendevano ancora più discutibili le righe, e rendevano ogni vittoria ancora più polemica, e per questo più bella per chi la otteneva.
Poi, ogni sera, arrivava un richiamo da casa, la cena era pronta.
Tutti sudati spesso si faceva una doccia di sotto, se era estate e la piscina era aperta, si salutava la compagnia e ci si dava appuntamento al giorno seguente, altrimenti si tornava a casa così, come capitava, pronti a sorbirsi qualche lamentela dei genitori, che vedevano in tutto questo niente altro che una inutile perdita di tempo.
Non avevano capito niente.
Ora molti di quei protagonisti sono affermati professionisti, qualcuno anche politico. Gente importante, realizzata, con vestiti da mille euro nell’armadio, che nella vita ha il fido in banca, e fa le vacanze al mare d’estate e in montagna d’inverno.
Forse non lo sanno, ma Porcate loro ce l’hanno nel sangue, è cresciuto insieme a loro, anche se non ci giocano più da dieci e passa anni. E li vedi, quando stanno per farne una nella loro professione, nella vita quotidiana, che si mettono lì proprio come avrebbero fatto su quel rettangolo di gioco, con un sorriso sardonico, che preannuncia la porcata.
Che puntuale arriva, a chi tocca tocca, c’è poco da fare.
Tornano bambini, chissà; forse si sentono vivi, o forse è una cosa che è nel loro Dna, vai a capire, ma il gusto della Porcata è rimasto.
Solo che è cambiato il mondo circostante: non tutti accettano le regole, non tutti sono pronti a calarsi in quel contesto, tutti o quasi se la prendono per una Porcata.
Non hanno capito che non c’è cattiveria dietro, c’è solo un gioco, un bambinone in giacca e cravatta che caccia una botta alla palla con le mani in quel rettangolo d’asfalto solo con il sano divertimento di farlo, in attesa che prima o poi i tuoi ti chiamino per quel piatto di pasta al sugo già a tavola, senza rancori che durino più di tre minuti contati, anche se si erano combinate porcate belle grosse, e degne di essere ricordate nei giorni a seguire da tutti gli amici del condominio.
Lo vedo ora quel bambinone che alla fine della partita lascia il campo tutto sudato, in giacca e cravatta, e si dirige verso casa nella notte buia, meditando sulla bella giornata appena trascorsa.
Ha il viso di uno di noi, forse sono io stesso.
In faccia, chiunque egli sia, ha stampato un sorriso: oggi è stata una bella giornata e la vita, domani, è un libro tutto da scrivere.
L’importante è che si possa giocare anche domani.

Blog de Il Fondo

3 commenti:

Anonimo ha detto...

ale, il gioco è bellino, ma se un levi le sottolineature al pezzo si diventa cechi...

Il Blog del Fondo ha detto...

Il webmaster si muove nell'ombra e le sottolineature spariscono...

Anonimo ha detto...

grazie mille