10 luglio 2009

Quanto vale la vita di un ragazzo di 18 anni?

Quanto vale la vita di un ragazzo di 18 anni ? Adesso lo sappiamo; tre anni e sei mesi.

Omicidio Aldrovandi poliziotti condannati a tre anni e sei mesi

La madre: ora posso chiamarli assassini

Aveva 18 anni, era incensurato, un ragazzo normale Morì per i colpi durante l’arresto

FERRARA - C’è anche Federico in aula, mentre un giudice condanna i quattro poliziotti che l’hanno aiutato a morire. Ha gli occhi chiusi, il labbro spaccato, il naso insanguinato, la fronte livida. Il suo volto, lanciato a metà mattina dentro un mazzo di volantini da quindici ragazzi anarchici, ora riposa sui tavoli di legno scuro. La sua mamma piange: «Adesso, quei poliziotti possiamo finalmente chiamarli assassini».

Federico aveva diciotto anni, era incensurato, era un ragazzo normale. Il 25 settembre 2005 tornava dalla discoteca, era l’alba, lui agitato per qualche pasticca, la gente che chiama la polizia, quattro agenti che arrivano e lo prendono a manganellate sulle gambe, in testa, dappertutto, e a calci, poi lo sbattono a terra e gli si sdraiano addosso per ammanettarlo. Ma gli scoppia il cuore, soffoca, muore come un cane. Due anni di indagini, tentativi di coperture e omertà perché di mezzo c’è la polizia, infine altri due anni di processo, 32 udienze, 15 periti, 8 avvocati e qualche tonnellata di dolore. Il pubblico ministero Nicola Proto aveva chiesto tre anni e 8 mesi per eccesso colposo, che ha portato all’omicidio colposo, nei confronti degli agenti Luca Pollastri, Enzo Pontani, Paolo Forlani e Monica Segatto; il giudice Francesco Caruso ha deciso per tre e 6 mesi. Il pubblico applaude. L’unico imputato presente (Enzo Pontani, il biondo) rimane impassibile, il padre di Federico - Lino Aldrovandi - dice: «Ora devono togliersi quella divisa e chiedere scusa. Mio figlio non torna, ma giustizia è fatta».

Ci sono dieci metri tra la mamma e il poliziotto che non si guardano mai. Lui cerca il pavimento, lei l’altro figlio Stefano, in aula. Questa donna sa che il blog che ha aperto nel 2006 per cercare la verità c’entra, nella sentenza, e che altrimenti forse sarebbe sceso il silenzio. «Volevo vederli in manette, pazienza, mi hanno spiegato che serve il terzo grado di giudizio. É giusto così, ci abbiamo creduto tanto, abbiamo sofferto. Quei poliziotti hanno agito per pura ferocia, senza spiegarne mai le ragioni. Via quella divisa, la penso come mio marito».

L’ultimo giorno è stato il più lungo. Aspettando la sentenza nei corridoi polverosi, illuminati da globi di luce gialla e gelida, in tanti volevano sapere se è vero che i «servitori dello Stato» a volte diventano picchiatori, belve che colpiscono un ragazzo disarmato, terrorizzato e confuso, in quattro contro uno. I testimoni hanno spiegato che Federico, a terra, implorava aiuto e diceva basta, ma i quattro neppure chiamarono l’ambulanza che arrivò tardi, invano. Si sono viste le fotografie di un cuore spaccato, e il sangue attorno al volto del ragazzo morto. «Lo abbiamo pestato di brutto per mezz’ora» disse uno dei quattro.

Due manganelli si spezzarono, addirittura, e si cercò di farli sparire. Si tentò di far passare Federico Aldrovandi per tossico anche se non lo era, e di condizionare alcune testimonianze dei vicini: il processo di Ferrara ha mostrato cosa può accadere, quando di mezzo ci sono le forze dell’ordine. «In questo processo, alcune istituzioni del nostro paese hanno perso credibilità» dice l’avvocato di parte civile, Riccardo Venturi. Su alcune magliette bianche, tra il pubblico, c’è scritto «verità e giustizia per Aldro». Carrelli di carte vanno e vengono, fino a sera.

«É una degna sepoltura per il povero Federico» sussurra, dopo la sentenza, un suo amico con gli occhi lucidi. In tanti piangono e si abbracciano. «Nulla di tutto questo poteva essere perdonato» ripete la mamma, Patrizia Moretti. «Se avete figli, sapete com’è quel momento al risveglio, quando una casa si riempie di caos e di musica, di vita, di gioia. A noi, questo è stato tolto: da quattro anni ascoltiamo solo il silenzio». Lo dice distrutta e felice, nel pianto e nel sorriso, parlando accanto a un figlio vivo e alla fotografia di un figlio morto.

MAURIZIO CROSETTI Repubblica 7 luglio 2009

CONDANNATI I QUATTRO POLIZIOTTI CHE UCCISERO FEDERICO ALDROVANDI

di Girolamo De Michelealdro2.jpg

Enzo Pontani, Monica Segatto, Paolo Forlani e Luca Pollastri, i quattro poliziotti imputati per la morte di Federico Aldrovandi sono stati condannati.
La sentenza che accoglie di fatto le richieste dell'accusa (3 anni 8 mesi), la condanna a tutti i membri della pattuglia, e non a uno solo, e il tempo relativamente breve che il giudice Caruso ha passato in camera di consiglio (mentre da più parti si ipotizzava una sentenza in tarda notte, o nella mattinata successiva) sottolineano la ricostruzione dell'accusa: Federico non è morto perché "drogato". Federico è morto perché è stato colpito su tutto il corpo con mani, piedi e manganelli. Federico è morto perché è stato ammanettato in una posizione che poteva - ed ha potuto - farlo soffocare. perché alle sue grida di aiuto i quattro poliziotti non hanno palesato un briciolo di umana pietà, ed hanno continuato a colpirlo fino a provocarne il soffocamento.

E dopo la sua morte il cadavere è rimasto per ore senza uno straccio che lo coprisse: ma almeno uno dei poliziotti si sente con la coscienza a posto: «posso anche dire che io la notte dormo sonni tranquilli», ha dichiarato Enzo Pontani all'uscita dal tribunale. L'agente Paolo Forlani, dal canto suo, non c'era: è in missione in Abruzzo, per il G8.
Qualcuno avrà deciso che non c'è rischio di reiterazione del reato.

Lunedì 29, sul blog della famiglia che ha frantumato il muro del silenzio, i genitori hanno postato questo testo:
Devono essere condannati perché sono colpevoli. Sono colpevoli perché Federico è morto. Sono colpevoli perché prima di incontrarli il cuore di mio figlio batteva sano generoso e forte. Sono colpevoli perché l’hanno ucciso procurandoli una sofferenza atroce, nella consapevolezza di farlo.
"Eccesso colposo di legittima difesa", recita la sentenza.
Mentre il giudice la leggeva, un'altra sentenza, senza appello, veniva pronunciata ad alta voce tra chi era presente:
ASSASSINI!

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