18 agosto 2008

Marisa

Marisa era nata di 17, il giorno di S. Antonio, negli anni '20, in pieno regime fascista. Marisa è mia madre, e questo già spiegherebbe tante cose, ma se la voglio ricordare qui lo faccio non solo per semplice amore filiale, ma perchè la sua mi sembra nella ordinaria straordinarietà una storia esemplare, una memoria da non perdere, in un momento buio e con prospettive fosche per un paese che invece la generazione di Marisa riuscì a riscattare dalla dittatura e dalla guerra, dalla fame e dalla povertà. Fino a farne un paese migliore, fino a spezzarsi la schiena purchè potessimo studiare ed avere prospettive per loro inconcepibili. E anche dopo che raggiungemmo l'età della ragione, Marisa e tanti altri continuarono a sacrificarsi per i nipoti, per i quali stravedevano, come è giusto, pur capendo che il vento era cambiato, preoccupandosi dell'arrivo di tempi difficili che mettevano in forse tutto il loro lavoro, tutte le loro conquiste, tutta la loro pazienza, tutte le loro e nostre speranze.
Marisa era rimasta orfana di padre a sei anni. Sua madre era riuscita a farla prendere in un collegio femminile gestito da suore a Siena. Suore di cui serbava un pessimo ricordo: botte, preghiere e fame, tanta fame. E qualche scherzetto, del tipo che un donnone in tonaca la faceva avvicinare mentre si riposava in poltrona in cortile per metterle in mano la gamba di legno. D'altra parte suo fratello più piccolo ospite in un altro collegio riusciva a scappare azionando la sirena antiaerea, facendo poi l'autostop fino a Roma.Settanta anni dopo nello stesso edificio uno dei suoi adorati nipoti si è laureato, e la sua gioia si era mischiata alle lacrime del ricordo.Durante la scuola elementare aveva vinto un viaggio premio a Roma per la migliore poesia sulla primavera, ma sua madre, che già si era rifiutata di donare la fede d'oro alla patria, l'aveva trattenuta a casa, ed al suo posto era partita la figlia di un gerarca. Poi il lavoro a 15 anni alla Bertolli come operaia, fabbrica raggiunta dopo un viaggio in bicicletta di molti km. Il diploma di scuola media preso per corrispondenza, ma mai ricevuto fisicamente perchè la scuola di Bologna era stata rasa al suolo dai bombardamenti. La complicità insieme a tutta la gente del piccolo borgo di campagna che avevano dato rifugio e salvato una famiglia di ebrei fiorentini,che avevano ricambiato cucendo e donando alla comunità una bandiera rossa. Il passaggio del fronte, la resistenza naturale contro le bande fasciste e naziste, la compassione dei ragazzini in divisa, coetanei destinati al macello. E poi il dopoguerra, con il matrimonio con mio padre tornato a piedi dalla Francia dopo l'8 settembre, quella piccola grande foto in bianco e nero con su scritto" ore di incomparabile felicità". Che il loro è stato un amore vero, d'altri tempi, cementato da una vita da costruire insieme, che quando morì mio padre lei si definì una mosca senza capo, che svolazzava ancora solo per forza d'inerzia. Non è stato paradossalmente un buon esempio per me: credevo fosse normale e naturale amare così, ed è stata dura la disillusione della vita. Aveva preso la patente nel ' 53, terza donna in un paese di diecimila abitanti, tra una figlia e l'altro, io. Aveva seguito mio padre in Maremma, vero far west allora, in cerca di un lavoro e di avventura, in paesi fuori dal tempo e per lei esotici come Tatti e Sticciano, Montelattaia e Pian di Mucini, ricevendo l'assegnazione di un podere dell'ente maremma nel '56, durante la riforma agraria, un podere senza acqua luce o telefono, attraversato da una strada polverosa e da torme di cinghiali,riscattato dopo trent'anni di lavoro, modifiche, migliorie. E nel '61 aveva messo su una vera ferramenta da frontiera, dove potevi trovar di tutto, dall'ago per cucire alla motosega, passando per giocattoli e regali di nozze. Le facce dei massetani allibite nel veder una donna sola che gestiva un negozio enorme e scaricava casse e rotoli di rete pesanti anche per un minatore, tanto che qualcuno si rifiutava persino di seguirla in magazzino per sceglier la merce, parendogli sconveniente anche se tra persone sposate. Come quella volta che entrò a mezzogiorno e mezzo nel bar principale del paese per aspettare mio padre, e fu trascinata fuori e redarguita da una vecchia commerciante, che una donna sola non poteva stare in un bar. Ma nonostante certe grettezze e piccinerie di paese ci crebbe insieme a mio padre in un clima di tolleranza e apertura, di fiducia verso il prossimo, di sacralità dell'ospite, di speranza in un mondo migliore, che avremmo cambiato e migliorato come e più di loro studiando e trovando la nostra strada, qualunque essa fosse. E senza mai perdere l'ironia, il sorriso, le battute anche nei momenti difficili. Non le mandava a dire le cose Marisa. Lei che sognava un socialismo moderno e senza ombre, scuoteva la testa per le mie filippiche giovanili iconoclaste, così che la sera che le annunciai dopo una delle tante stragi impunite degli anni ' 70, che andavo ad incendiare qualche sede dei fascisti, mi gelò dicendomi "incendiare il cuore di qualche ragazza forse sarebbe molto meglio, anche se non esente da rischi..." Con mio padre mi ha anche trasmesso la passione per i viaggi ,per le montagne, per le fotografie ed i films. Per i lunghi racconti delle generazioni precedenti,che poi formano la nostra memoria orale da tramandare. Per l'orgoglio forte di far parte di una cultura refrattaria ai padroni o chiese di riferimento, contando sulle proprie forze, sulla propria indipendenza ed autonomia. Per andare controcorrente, sempre. Mi ha insegnato la libertà e l'amore per il prossimo,senza darlo a vedere, e nel modo più naturle, con l'esempio della sua vita.
Giovane tra i giovani, ben al di là dell'anagrafe,Marisa se ne è andata all'improvviso il 17, mentre come al solito lavorava per i figli ed i nipoti, contenta di essere, oltre che autosufficiente, utile, punto di riferimento e saggezza di tutta la famiglia, e nel cuore delle tante, tante persone che aveva avuto la gioia di incontrare e che ancora si ricordano di lei con piacere.