12 agosto 2007

la sinistra in guerra

Gaspare De Caro - Roberto De Caro:
LA SINISTRA IN GUERRA

di Massimo Cappitti

Gaspare De Caro - Roberto De Caro, La Sinistra in guerra, Edizioni Colibrì, Milano 2007, pp. 288, € 12,00.

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Si potrebbe, semplificando, interpretare la storia italiana – ma non solo italiana – degli ultimi decenni come il progetto tenacemente perseguito di chiudere definitivamente i conti e così liquidare la tensione rivoluzionaria alla radicale trasformazione dell’esistente che ha attraversato il ’900 fino agli anni ’70. Prova di questa cancellazione è, tra le altre, la centralità assunta dal tema dell’ordine inteso nelle sue molteplici declinazioni: ordine politico, sociale, economico, culturale. Dio, patria, famiglia tornano, pertanto, a far valere le proprie pretese mentre, da più parti, si afferma la necessità di autorità forti o si auspica la ricostituzione di gerarchie sociali nitide, perentorie e, soprattutto, indiscutibili.

Di questa storia e, in particolare, del ruolo svolto dalla Sinistra nella predisposizione degli «equilibri sociali disciplinatamente conformi» a quella liquidazione, raccontano i contributi di Gaspare De Caro e Roberto De Caro, raccolti nel volume La Sinistra in guerra, edito a Milano da Colibrì (per eventuali ordini cliccare qui). Ruolo non secondario, se è vero che questa ha contribuito, ad esempio, in misura rilevante, alla rimozione del «tabù della guerra» e alla conseguente mortificazione di ogni «tentazione critica incompatibile» con il nuovo ordine – dove l’emergenza, divenuta, ormai, norma, si è trasformata in strumento ordinario di governo – inaugurato dall’«intervento democratico» e dai bombardamenti umanitari di D’Alema.
Raffinato rigore storiografico e passione etica e politica – amara, dolente, persino, ma sempre trattenuta in una scrittura sobria, seppure ferocemente e giustamente sarcastica – percorrono il volume. Gli autori ricordano a chi, ancora, si illuda sulla neutralità dell’apparato statale e, quindi, sull’esistenza e l’affidabilità di governi “amici” alcune “iniziative” dei governi di centrosinistra in piena sintonia con quel ritorno all’ordine cui si è fatto cenno. Tra le altre: la guerra ai migranti, segnata, tragicamente, dall’affondamento della nave albanese Katër i Radës; l’istituzione dei CPT prevista dalla legge Turco-Napolitano; la precarizzazione del lavoro, esito del pacchetto Treu; la riproposizione, ancorché nella sua versione «dolce», del patriottismo; l’incremento delle spese militari nell’ultima finanziaria; il rifinanziamento della missione afgana e l’intervento militare in Libano, spacciati come iniziative di pace secondo il paradosso per cui viene affidata la tutela della pace a chi professionalmente deve fare la guerra; la concessione dell’autonomia all’arma dei carabinieri; l’insistita riproposizione dell’identità nazionale attraverso, ad esempio, la trasformazione della Resistenza in un secondo Risorgimento – nel suo compimento – cancellando da essa «ogni accidentale idea insana di internazionalismo, nonché di lotta di classe e di cambiamento sociale».
Certamente, come gli autori ricordano, gli storici, già da tempo, si sono dedicati, con dedizione, alla costruzione di miti fondativi della nazione che rimuovessero dalla memoria condivisa l’«ignobile massacro» della Prima guerra mondiale o le atrocità nefande della politica coloniale italiana o, ancora, le stragi di Stato: dove mito fondativo è ogni «interpretazione similstorica che taccia quello che c’è da tacere, inventi quello che bisognerà ricordare, esibisca la necessità della tradizione e convalidi le credenziali del nuovo ceto politico».
Se, dunque, ridefinire e imporre l’ordine assumono rilevanza cruciale, allora, anche la radicalità della contestazione operaia e studentesca degli anni ’60 e ’70 deve essere rimossa o trasformandola in una questione di ordine pubblico – l’emergenza del “terrorismo” in nome della quale tutto è permesso e «chi dissente è un traditore» – oppure facendone «un irrilevante fenomeno di costume, una vacanza del buon senso necessariamente a termine», pronta, in tal modo, ad essere recuperata dalla dilagante e oscena «cultura dell’Effimero».
Nel primo caso – ovvero nella crescente e diffusa pervasività del penale – hanno provveduto a farsene carico magistratura e forze di polizia: quegli apparati, cioè, che hanno garantito, più degli altri, la «continuità dello Stato». Scrivono, infatti, gli autori che nessuno meglio della magistratura «ha saputo resistere […] al cambiare dei tempi, dei regimi e dei codici, sempre fedele a se stessa, alla missione di affidabile interprete della maestà della legge e delle necessità del principe, zelante e imperturbabile alla natura mutevole del legislatore e alla sua variabile mente giuridica pur disturbata che fosse (leggi razziali incluse)». Legislazione speciale e abiure, esito, insieme, di calcoli personali e di pratiche inquisitorie da Sant’Uffizio, sono stati, così, gli efficaci strumenti per espungere dalla realtà non solo il conflitto, ma la stessa possibilità della sua esistenza. Dispositivo vieppiù rinforzato dalla «messa al bando della storia», dal fatto, cioè, come scrive Debord, «di aver già condannato la storia recente a passare alla clandestinità». «L’occultamento della propria storia» ha, pertanto, consentito allo spettacolo di nascondere «il movimento stesso della sua recente conquista del mondo», potendo, in tal modo, apparire «già familiare come se fosse esistito da sempre».
Quando, poi, la contestazione assuma il sembiante di un irripetibile sbandamento giovanile da guardare con affetto e benevola indulgenza ma i cui effetti “sovversivi”, invece, devono essere respinti e negati, allora essa diventa il ricordo da esibire nelle innumerevoli commemorazioni che, implacabilmente, funestano i nostri tempi. I sopravvissuti, allora, «saliti in tempo sulle zattere di salvataggio», hanno potuto, finalmente, sciamare nelle diverse istituzioni: giornali, partiti, sindacati, università. Queste, benevole, hanno raccolto i ravveduti che, con zelo, hanno ripagato i loro padroni «raccogliendo, se non i trenta denari d’uso nei casi di rilievo, almeno i premi di consolazione che non si negano ai comprimari, tanto più se si pensa di usarli ancora».
Servitori fedeli e feroci: come Cofferati, ad esempio, nostalgico dei tempi in cui gli operai amavano la loro fabbrica, capace di «soddisfare la preminente passione dei cittadini bolognesi per l’ordine», mettendo a loro disposizione il suo affidabile passato di sindacalista, quando ha dato prova di saper tenere a bada i lavoratori «pur contribuendo a ridurli tra i meno pagati d’Europa».
O, ancora, come Violante, apologeta dell’ordine pubblico, risolutamente ostile ad amnistie e indulti, la cui «passione per la reclusione altrui non conosce distrazioni», giacché, per lui, «il carcere è una panacea, il rimedio che proscrive i mali sociali e ne depenna le vittime». La sua intransigente volontà di punire lo ha spinto a proporre l’inasprimento delle pene previste dalla legge Bossi-Fini raddoppiandole per chi, con l’acido, cancelli le proprie impronte, perseguendo – l’ex magistrato – , con ostinazione fascista, le «irregolarità identitarie», i «sotterfugi mimetici», le «piccole astuzie elusive cui i miserabili in un paese e in uno stato ostili affidano le loro precarie speranze di sopravvivenza».
O, per finire, Parisi, ideologo della «via militare alla democrazia». Si leggano le sue considerazioni sulle conseguenze negative dell’abitudine – colpevolmente tollerata dagli insegnanti – degli studenti italiani a copiare. Scrive Parisi che ciò avrebbe favorito la «slealtà verso le istituzioni», l’«indisponibilità a riconoscersi al loro interno corresponsabili all’attivazione di valori comuni» e, infine, il «rifiuto della collaborazione con le autorità per la difesa della legalità». Allora, chi, secondo Parisi, meglio delle forze armate per ripristinare il senso dello stato e vigilare sull’inaffidabilità dell’istituzione scolastica? Da qui, coerentemente, l’osceno militarismo patriottico che riecheggia nei discorsi del ministro, pieni di richiami alla «fermezza», alla «disciplina», alla necessità di «dare la vita per la patria e il dovere».
Il libro – e in questo risiede la sua fecondità – traccia il compito della riflessione radicale, che consiste nell’urgenza e nella necessità di sottoporre a critica definitiva il «pensiero di Stato», come lo definiscono Bourdieu e Sayad, ovvero la sua inclinazione a «naturalizzare» lo Stato, che cessa di essere una formazione storica per divenire un «dato immediato, come se fosse un oggetto dato di per sé, per natura, cioè eterno, affrancato da ogni determinazione esterna, indipendente da ogni considerazione storica, indipendente dalla storia e dalla propria storia, da cui si preferisce separarlo per sempre».
Occorre, allora, come Gaspare De Caro e Roberto De Caro ricordano, tornare a indagare il nesso che stringe dominio statale e sfruttamento capitalistico e, in particolare, il rapporto tra guerra e democrazia, la «forma istituzionale globalmente adeguata agli orrori globali». La costruzione del nemico e la conseguente «erosione della prossimità» sono, allora, le vie dirette a «sradicare negli individui eventuali afflati umanitari» cosicché «raffigurare l’altro alla stregua di un animale, di una cosa, o almeno di un subumano» è la condizione del «suo massacro».
Nessuna illusione, allora, sull’esistenza di “governi amici”, capaci di guidare virtuosamente lo Stato, di cui dimenticano la natura costituzionalmente violenta. La storia dei proletari del ’900 porta i tragici segni di questa visione, ovvero il rafforzamento del dominio e l’intensificazione, senza limiti, dell’oppressione. Di quella storia, del «tesoro nascosto della rivoluzione» e delle possibilità inespresse che custodisce occorre, allora, serbare memoria: almeno, e non è poco, rifiutando di collaborare alla atroce servitù dei nostri tempi.

04 agosto 2007

Il comandante partigiano Giovanni Pesce

In questi giorni in cui si sono spenti grandi registi, se ne è andato anche una grande figura della Resistenza, che ben avrebbe meritato un film delle sue gesta.

Giovanni Pesce, Gianni, nasce a Visone (Alessandria) il 22 febbraio 1918. Con l’avvento del fascismo la famiglia è costretta ad emigrare in Francia, a Grand Combe, dove arriva nel novembre ’24. Il padre fa il minatore mentre la madre apre un’osteria, caratteristica dell’immigrazione italiana nei siti minerari, proprio per i minatori. Gianni frequenta le scuole elementari e frattanto inizia, per 150 Fr. al mese, a fare il guardiano del bestiame, professione caratteristica invece dell’immigrazione infantile.

Quattordicenne, scende in miniera e si trova così a vivere a fianco di lavoratori immigrati di diverse parti d’Europa e Nord Africa. Si avvicina al Partito Comunista Francese proprio quando la destra d’oltralpe sta conducendo una feroce battaglia contro l’immigrazione, a seguito soprattutto di alcuni fatti di nera che vedevano ingiustamente accusati degli italiani. Gianni entra nel vivo della politica in occasione delle amministrative del ‘35. Nell’aprile dell’anno dopo, il Fronte Popolare delle sinistre vince le politiche ma il 18 luglio in Spagna i militari reazionari dànno il via al colpo di stato per rovesciare il governo repubblicano democraticamente eletto. Il conflitto spagnolo acquisisce subito carattere internazionale: il capo della ribellione militare Francisco Franco chiama in aiuto l’Italia fascista e la Germania nazista che non tardano a rispondere mentre, sul versante opposto, confluiscono a migliaia combattenti da tutto il mondo in difesa della Repubblica, arruolandosi come volontari nelle Brigate Internazionali. Tra questi anche il diciottenne Gianni Pesce, che decise di partire dopo aver ascoltato a Parigi un comizio della pasionaria Dolores Ibarruri.

Pesce combatte per tre anni consecutivi dimostrando straordinarie doti di abilità e coraggio. È qui che inizia ad imparare l’italiano che non conosceva, combattendo nelle Brigate Garibaldi. Viene ferito in una battaglia, conservando poi in corpo per tutta l’esistenza delle schegge di piombo qui “acquisite”, vista la pericolosità della loro estrazione.

Una volta capitolato il fronte repubblicano si dirige in Francia e quindi in Italia (1940), per cercare lavoro presso alcuni parenti. Non fa in tempo ad arrivare che la polizia fascista lo trae in arresto e lo assegna al confino a Ventotene. Qui si trova con persone del calibro di Eugenio Curiel, Giuseppe Di Vittorio, Luigi Longo, Pietro Secchia ed Umberto Terracini. Questi, tra i crampi della fame e le angherie dei secondini, fanno a Gianni, e non solo, da maestri, sia per l’approfondimento della lingua italiana che per la dottrina politica e le altre conoscenze e “il confino si tramutò in una scuola, in un’accademia di notevole livello” (Giovanni Pesce, Il giorno della bomba, Milano, Mazzotta, 1983, p. 47).

Pesce viene liberato nell’agosto ’43 e, siccome “Oggi in Spagna, domani in Italia”, si reca a Torino ove coordina l’attività dei GAP (Gruppi d’Azione Patriottica) col nome di battaglia di comandante Ivaldi Sia da esempio proprio un fatto di cui Ivaldi è stato partecipe, quando coi GAP torinesi stavano andando a fare un’operazione di sabotaggio contro una radio fascista che disturbava il segnale di radio Londra. Durante l’azione i gappisti venivano braccati dai tedeschi e feriti; uno di loro, il giovane Dante Di Nanni, in modo grave. Nella fuga, Ivaldi lo prendeva in braccio e lo portava nel covo partigiano di via S. Bernardino. Ad un certo punto, mentre Di Nanni era da solo nella stanza in attesa del medico, arrivavano i fascisti e i tedeschi. Il ferito, con le gambe paralizzate, iniziava a sparare e a lanciare bombe prima in direzione della porta e poi dalla finestra, facendo fuori diversi fascisti e tedeschi, i quali, pensando che nella stanza vi fossero più partigiani, chiamavano rinforzi. Di Nanni continuava fino all’esaurimento delle munizioni, quando con le ultime energie si aggrappava sulla ringhiera della finestra, alzava il pugno chiuso e si gettava gridando “W l’Italia libera!”.

A seguito di questi avvenimenti, Torino si era fatta troppo pericolosa. Pesce nel maggio ‘44 viene trasferito così a Milano ove assume il comando dei locali GAP col nome di comandante Visone. Qui continua, magistralmente e con successo, a portare a termine azioni di sabotaggio e di eliminazione fisica di nemici, spie e traditori.

Durante rocambolesche azioni conosce la coraggiosa giovane partigiana Onorina Brambilla che sarà sua sposa e fedele compagna per tutta la vita.

Finita la guerra Pesce è tra i fondatori dell’ANPI, per la quale diviene membro del Consiglio Nazionale. Nel ’47 verrà insignito della Medaglia d’Oro al Valor Militare, poiché: “Organizzatore eccezionale ed eroico combattente, dotato di irresistibile leggendario coraggio conquistò con il suo valore un luminoso primato alla gloria delle formazioni garibaldine ed alla storia"

È stato consigliere comunale a Milano per il PCI dal ’51 al ’64.

Pesce è stato autore di diverse pubblicazioni, a carattere in larga prevalenza autobiografico, tra queste la più celebre è indubbiamente Senza tregua, uscita nella Milano del ’67 per Feltrinelli e più volte ristampata, destinata ad influenzare grandemente la sinistra extraparlamentare e la lotta armata negli anni '70. Prima Linea dette il nome Senza Tregua ad un suo giornale uscito nel ' 77 e si ispirò ai sabotaggi dei GAP quando cercò di bloccare i tram milanesi in occasione della giornata di lotta contro l'abolizione di festività lavorative. Innumerevoli sono invece i suoi contributi su riviste, opuscoli e documentari audiovisivi. Eppure il mito di questo eroe internazionale è riuscito solo in minima parte ad affermarsi oltre l’Italia settentrionale, per motivi quasi inspiegabili.

Nel 1991, contrario alla svendita del PCI, contribuì alla nascita di Rifondazione Comunista, per la quale fu membro del Comitato Politico Nazionale

Gianni Pesce è morto venerdì 27 luglio a Milano. Una delle sue ultime uscite fu qualche mese prima quando i tifosi antifascisti del Celtic di Glasgow a Milano per una partita di calcio, lo vollero incontrare e posare con lui in piazzale Loreto.

Dedichiamo al comandante Visone questo brano del suo libro


"ABBIAMO SCELTO DI VIVERE LIBERI"
(Brano tratto da Senza tregua. La guerra dei Gap Feltrinelli, prima edizione 1967)

"Da Viale Romagna si raggiunge Piazzale Loreto lungo il rettilineo fino in Via Porpora e si svolta a sinistra.
Dappertutto cordoni di repubblichini: militi dietro militi, sempre più fitti, sempre più lugubri.
In piazzale Loreto una folla sconvolta e sbigottita.
Si respi ra ancora l’odore acre della polvere da sparo.
I corpi massacrati sono quasi irriconoscibili.
I briganti neri, pallidi, nervosi, torturano il fucile mitragliatore ancora caldo, parlano ad alta voce, eccitatissimi per ave sparato l’intero caricatore.
Sbarbatelli feroci, vicino a delinquenti della vecchia guardia avvezzi al sangue ed ai massacri, ostentano un atteggiamento di sfida volgendo le spalle alle vittime, il ceffo alla folla.
Ad un tratto irrompe un plotone di repubblichini, facendosi largo a spinte e a corpi di calcio di fucile e andando a schierarsi vicino ai caduti.
“Via via, circolate” urlano.
Spontaneamente il popolo è accorso verso i suoi morti.
Ora la folla, ricacciata, viene premuta tra i cordoni dei fascisti.
Urla di donne, fischi, imprecazioni.
“La pagheranno!”.
I repubblichini, impauriti, puntano i mitra sulla folla.
Dall’angolo della piazza scorgo lo schieramento fascista accanto ai nostri morti. Potrei sparare agevolmente se i fascisti aprissero il fuoco.
In quel momento, fendendo la calca si fa largo una donna: Avanza tranquilla, tenendo alto un mazzo di fiori; raggiunge le prime file, vicino al cordone dei repubblichini, come non vedesse le facce livide e sbigottite degli assassini; percorre adagio gli ultimi passi.
Scorgo da lontano quella scena incredibile, un volto mite incorniciato da capelli bianchi, un mazzo di fiori che sfila davanti alle canne agitate dei fucili mitragliatori.
I fascisti rimangono annichiliti da quella sfida inerme, dall’improvviso silenzio della folla. La donna si china, depone i fiori, poi si lascia inghiottire dalla folla.
Comincia così un corteo muto nato come da un improvviso accordo senza parole.
Altre donne giungono con altri fiori passando davanti ai militi per deporli vicino ai caduti.
Chi ha le mani vuote si ferma un attimo vicino alle salme martoriate.
Per ogni mazzo di fiori ci sono cento persone che sostano riverenti.
Si odono distintamente i rumori attutiti dei passi e si colgono i timbri alti delle voci.
Accanto a me uno bisbiglia: “ Vede quello a sinistra? Tentava di scappare. Appena era sceso dal camion si era diretto di corsa verso una via laterale.
Credevamo che ce l’avrebbe fatta.
Era già lontano.
L’hanno riportato indietro che zoppicava, ferito ad una gamba. L’hanno spinto accanto agli altri, già schierati in attesa”.
L’ultimo volto che vedo abbandonando la piazza è quello di un repubblichino, che ride istericamente.
Quel riso indica l’infinita distanza che ci separa.
Siamo gente di un pianeta diverso. Anche noi combattiamo una dura lotta in cui si da e si riceve la morte. Ma ne sentiamo tutto l’umano dolore, l’angosciosa necessità. In noi non è, non ci può essere nulla di simile a quello sguardo, a quella irrisione di fronte alla morte.
Loro ridono.
Hanno appena ucciso 15 uomini e si sentono allegri.
Contro quel riso osceno noi combattiamo. Esso taglia nettamente il mondo: da una lato la barbarie, dall’altro la civiltà. I cordoni dei repubblichini sono sempre fitti. Ad ogni passaggio, ad ogni posto di blocco mi imbatto nella loro insolenza, nella loro spavalda vigliaccheria: mitra ostentati, bombe a mano al cinturone, facce feroci, lugubri camicie nere, ancora una volta, come in Spagna di fronte alla spietata ferocia degli ufficiai nazisti si rivelano i due mondi in antitesi, i due modi opposti di percepire la vita.
Noi abbiamo scelto di vivere liberi, gli altri di uccidere, di opprimere, costringendoci a nostra volta ad accettare la guerra, a sparare e ad uccidere.
Siamo costretti a combattere senza uniforme, a nasconderci, a colpire di sorpresa. Preferiremmo combattere con le nostre bandiere spiegate, felici di conoscere il vero nome del nostro compagno che sta al nostro fianco. La scelta non dipende da noi, ma dal nemico che espone i corpi degli uccisi e definisce l’assassinio “un esempio” .
La belva oramai incalzata da ogni parte si difende con il terrore. Mi rifugio in casa. Mi raggiunge nel pomeriggio una staffetta. I repubblichini hanno sparato in aria per allontanare la folla davanti ai caduti.
Il giorno successivo alla Vanzetti, alla Graziosi, alle Trafilerie, alla Moto Meccanica, alla O.M., ecc.., gli operai abbandonano il lavoro in segno di protesta; alla Pirelli le maestranze si riuniscono in silenzio. Ora tocca a noi.
Nella medesima notte prepariamo 8 bombe ad alto potenziale. Il tecnico, abituato ad un lavoro di precisione, esprime le sue preoccupazioni, ma si piega alle necessità. Il giorno dopo, all’alba , io, Narva e Sandra ci troviamo nella chiesa di Via Copernico per la consegna dell’esplosivo. Il parroco si aggiunge a celebrare la prima messa, avanzando silenziosamente dalla sacrestia.
Nella chiesa, deserta, regna un silenzio profondo, una pace incredibile.
Arriva il tecnico con le borse. Il prete assiste alle consegne, immobile fra i chierichetti.
Comprende? Non so.
Usciamo. Accompagno le ragazze all’appuntamento con Conti e Giuseppe, per l’ultimo scambio delle borse.
“Vi proteggerò le spalle”, dico, “calma e sangue freddo, non ci sarà nessuna sorpresa.”
I due gappisti con la calma e la sicurezza di professionisti, depositano le bombe, si eclissano in una viuzza scambiandosi un rapido cenno di saluto.
Una, due, tre esplosioni scuotono l’aria, infrangono i vetri.
Il ritrovo ufficiale del comando tedesco è devastato come un campo di battaglia.
Abbiamo disposto le cariche in modo che gli esplosivi deflagrassero prima sulle finestre e successivamente all’uscita del Circolo. Il Feldmaresciallo Kesserling invita le forze dipendenti ad agire con maggiore energia nei confronti dei sabotatori da impiccarsi sulle pubbliche piazze; il comandante della piazza di Milano anticipa il coprifuoco alle 22.00. Il nemico si rende conto che l’arma del terrore gli si ritorce contro.Dobbiamo insistere.
Azzimi e Borsetti attaccano il comando repubblichino nella sede dove convergono i lavoratori italiani da inviare il 14 in Germania.
Il mattino del 14 agosto un alto ufficiale tedesco e due subalterni mentre discutono in un ufficio del Palazzo di Giustizia vengono uccisi con una “Sipe”, lanciata da una finestra.
Nei corridoi, tedeschi e fascisti fuggono in preda al panico. Il coprifuoco non si ferma: il 16 agosto ancora Azzini e Borsetti giustiziano uno squadrista, ufficiale della milizia e delatore di partigiani e, due giorni dopo, un’altra squadra abbatte un ufficiale delle SS a Porta Volta.

“La pagheranno!!!”, era la parola d’ordine del popolo e la nostra".