19 settembre 2006
L'autunno italico
15 settembre 2006
Quando gli emigrati erano anarchici e socialisti
Quando gli emigrati erano anarchici e socialisti
L'adolescente che amò la belva
Si è spenta a 93 anni America Scarfò, fidanzata clandestina di Severino Di Giovanni, leggendario anarchico italiano fucilato a Buenos Aires negli anni '30. Una storia d'amore fra emigranti più forte anche delle passioni politiche
America Josefina Scarfò, detta Fina, è morta a Buenos Aires il 26 agosto scorso. Aveva 93 anni. Nel suo nome, America, sono raccolte le speranze dei suoi genitori, una famiglia di calabresi emigrati in Argentina. Sono gli anni '20 del secolo scorso e gli italiani si trasferiscono in massa nel paese australe, che ha aperto le porte all'emigrazione: servono inglesi, tedeschi, nordeuropei che stemperino la pelle dei creoli. Invece arrivano italiani e spagnoli. Non portano solo la pelle olivastra e i capelli neri, ma diffondono anche il seme dell'anarchia e del socialismo. Su cin que milioni e mezzo di immigrati arrivati in Argentina entro gli anni '30 del Novecento, la metà sono italiani.
Tra questi c'è un maestro elementare nato a Chieti nel 1901, scappato al fascismo e arrivato nella città rioplatense nel 1923 con moglie e figli: si chiama Severino Di Giovanni.
Amore e rivolta
La polizia si accorge di lui il giorno in cui lancia dagli spalti del teatro Colòn di Buenos Aires un volantino inneggiante a Matteotti. «Abbasso il fascismo!», urla quel giovane di fronte all'ambasciatore italiano. La polizia argentina lo ferma e i miliziani fascisti lo prendono a pugni.
America si accorge di lui uscendo dalla casa dei suoi genitori. Lei ha quattordici anni e due fratelli anarchici, Paulino e Alejandro. Suo padre accetta di affittare a Di Giovanni un appartamento costruito a lato della propria abitazione. Severino esce presto la mattina per andare a lavorare in tipografia, America esce di casa per andare a scuola, e i due si incontrano sulle scale. Così inizia la storia dell'amore tra questa adolescente e un italiano che diventerà presto l'uomo più ricercato dalla polizia argentina.
Severino Di Giovanni diventa in breve la figura di rilievo dell'anarchismo espropriatore argentino. Circondato da esuli antifascisti, fonda il giornale in lingua italiana Il Culmine e inizia una campagna di attentati contro le strutture del fascismo a Buenos Aires. Colpisce con attentati esplosivi il consolato italiano e la sede della National City Bank. Realizza anche una serie di rapine per finanziare i suoi progetti editoriali.
Ma l'uomo che di giorno stampa volantini incendiari in difesa di Sacco e Vanzetti e di notte prepara congegni esplosivi non può fare a meno di arrossire quando incontra quell'adolescente sulle scale. E' imbarazzato, perché sente nascere l'amore; sente il peso della famiglia, lui che è italiano, che ha moglie e figli. Eppure gli anarchici propugnano il libero amore. Così ogni giorno, come un ragazzino alla prima cotta, si mette davanti alle porte del collegio per ragazze frequentato da America. L'aspetta all'uscita della scuola e l'accompagna a casa.
«Lui mi parlava in italiano, e io rispondevo in castigliano...». America ricorderà così quelle passeggiate. Arrivati a pochi passi da casa i due si separano, affinché il padre di America e la moglie di Severino non intuiscano quello che sta accadendo. «Ti voglio bene, si dichiarò così in italiano», ricorderà America. «Yo también, gli rispondevo io in castigliano».
Quest'uomo di quasi trent'anni, che presto la stampa argentina descriverà come una belva sanguinaria, camminerà mano nella mano con una adolescente, lungo i viali dei parchi di Buenos Aires.
Presto Severino sarà costretto alla latitanza, e non potrà più aspettare America. «A volte veniva al collegio, ma altre volte non poteva, perché era pericoloso. Allora mi scriveva, anche tre lettere al giorno». Severino manda le lettere attraverso altri anarchici che fanno da intermediari, convinti che quelle lettere siano parte di importanti progetti politici. «Io gli scrivevo, e lui leggeva le mie lettere e poi le distruggeva, perché diceva che era pericoloso, che la polizia poteva trovarle. E che io dovevo fare lo stesso. Ma io non l'ho fatto. Erano così belle... distruggerle, no, de ninguna manera».
«Mia amica. Ho la febbre in tutto il corpo. Il tuo contatto mi ha riempito di tutte le dolcezze. Mai come in questi lunghissimi giorni, ho tanto centellinato i sorsi della vita». Stentava con lo spagnolo e preferiva scrivere in italiano: «Vorrei potermi esprimere sempre nel tuo idioma per cantarti ogni attimo del tempo la dolce canzone dell'anima mia, farti comprendere i palpiti che percuotono fortemente il cuore ». Per America invece leggere in italiano era più faticoso. Eppure quella fatica doveva risultarle piacevole, se Severino scriveva: «mi contento nel sapere che per comprendere queste linee debbono essere rilette più di una volta da te». E ancora: «Rendimi duplicato il mio bene che ti voglio. Sappi che ti penso sempre, sempre, sempre. Sei l'angelo celestiale che mi accompagna in tutte le ore tristi e liete di questa mia vita refrattaria e ribelle».
Ricercato dalla polizia, Severino Di Giovanni incontra sempre più difficoltà per fissare gli appuntamenti d'amore. Sono anni in cui una adolescente può uscire di casa solo per andarsene a scuola, a meno che non abbia un fidanzato ufficiale, riconosciuto dalla famiglia. Ed è appunto questa l'idea clamorosa di Severino, abile a congegnare piani.
Il «colpo» di America
Il gruppo di espropriatori che si raccoglie intorno a Di Giovanni dovrà fare un «colpo» diverso dal solito. Bisogna portar via America di casa, senza che i suoi genitori e la moglie di Severino possano intuire niente. Si decide di utilizzare Silvio Astolfi, un giovane anarchico italiano, esperto autista della banda. America presenterà Silvio in famiglia come fidanzato. I due potranno passeggiare intorno casa, e Astolfi le porterà le lettere di Severino. Però Astolfi dovrà fingere di avere un lavoro regolare per ottenere l'assenso degli Scarfò, e soprattutto non dovrà prendersi libertà con America.
Il piano funziona. Si farà il fidanzamento ufficiale a breve. I genitori di America non hanno dubbi e neanche Teresa, la moglie di Severino. Si celebrano le nozze civili e America e Silvio partono in luna di miele verso una meta lontana, in treno. Ma alla prima stazione scendono dalla carrozza. Li aspetta Severino Di Giovanni con duecento rose rosse. America e Severino vanno finalmente a vivere assieme.
La loro convivenza è breve. Il gruppo di Severino - che include anche due fratelli di America, Paulino e Alejandro - continua a rapinare banche e a colpire i simboli del fascismo italiano, ma intanto i suoi amici cadono uno a uno.
Il 29 di gennaio del 1931 la tipografia di Severino è circondata dalla polizia. Inizia una fuga rocambolesca sui tetti di Buenos Aires. Loro sparano 500 colpi, lui cinque. Il sesto lo punta contro il proprio petto. Eppure quel colpo non lo ammazza. Lo portano all'ospedale, lo ricuciono e lo sbattono in carcere. Gli fanno un processo sommario e lo condannano a morte.
America è ancora un'adolescente, viene arrestata e poi rimessa in libertà. Le confiscano però le lettere di Severino. Le autorità concedono a Severino di abbracciarla un'ultima volta. Severino le chiede di essere forte e di sposarsi con qualche compagno. Poi al secondino chiede un caffè, molto dolce, come ultimo desiderio. Glielo danno, ma non è dolce abbastanza. «Avevo detto dolce, molto dolce. Pazienza, sarà per la prossima volta». Il plotone d'esecuzione viene allestito rapidamente, e toglierà ad America prima Severino e poi il fratello Paulino.
Le carte e il portacenere
Passano gli anni. America si sposa con un compagno, si laurea in letteratura italiana e inizia a insegnare italiano. Fonda una casa editrice libertaria e nel 1951 fa un viaggio nel paese dei suoi antenati. Raggiunge Chieti, prova a contattare i famigliari di Severino, ma trova solo silenzio e oblio.
Alla fine degli anni '60 uno storico, Osvaldo Bayer, inizia a spulciare archivi e intervistare vecchi protagonisti delle lotte degli anni '20. Il libro di Bayer, Severino Di Giovanni, riscatta la figura di Severino, ma la dittatura militare proibisce la riedizione del testo. Con la fine della dittatura Osvaldo Bayer e America si incontrano. Parlano di quelle lettere d'amore, che lui ricorda di aver visto tra le carte degli archivi. «Le mie lettere», dice America. Siamo nell'era di Menem, e Bayer riesce a ritrovare quelle lettere sequestrate: sono nel Museo della Polizia.
Prima di morire America vuole tornare a leggere le parole di Severino, e non vuole una fotocopia, ma l'originale. Solo il ministro dell'Interno può darle il permesso, secondo la normativa degli archivi argentini. Il ministro riceve Osvaldo e America, dice che farà il possibile. Dopo alcuni giorni i due sono convocati dal capo della polizia, che li ascolta con forzata benevolenza. «Lei mi chiede qualcosa che appartiene alla Policía Federal. Guardi», e prende un portacenere, «qui sopra c'è scritto 'Policía Federal'. Se lei mi chiede questo portacenere, io devo dire di no, perché non appartiene né a me né a nessun altro: appartiene alla polizia». Bayer insiste: «Però non si tratta di un portacenere, ma di lettere d'amore». Il funzionario torna a indicare il posacenere con gesto trionfale: «Sì, ma entrambi appartengono alla Policía Federal». «No, sono lettere d'amore che sono state scritte per me. Sono mie», dice quella donna anziana, con gli occhi neri e i capelli color neve.
America ha riavuto le sue lettere scritte in italiano, la lingua che parlavano i suoi fratelli anarchici fucilati e il suo amante. È sopravvissuta alla loro morte, è sopravvissuta a tante fucilazioni, a dittatura e repressione. L'ironia però non l'ha mai abbandonata. A chi le chiedeva se avesse mai avuto rimpianti, rispondeva che un rimpianto ce l'aveva: «Di esser stata fidanzata con un tal Astolfi, e che in tanti mesi di fidanzamento lui non mi ha mai dato un bacio». Adesso se n'è andata. Le sue ceneri sono state disperse in un piccolo giardino di proprietà della Federación Libertaria di Buenos Aires. Bayer si è impegnato ad andare ogni mese a leggere in quel giardino una lettera di Severino a America.
Alberto Prunetti
il manifesto 13.09.06
11 settembre 2006
Festival di Pitigliano; beate incertezze
Era questo il titolo scelto da Marcello Baraghini per il Festival di Stampa Alternativa 2006, arrivato alla IV edizione, ormai un appuntamento fisso per chi segue da vicino la produzione della casa editrice viterbese, arrivata al 35mo anno di vita. A Pitigliano nel Magazzino di Stampa Alternativa in questi giorni ne sono arrivati diversi di costruttori di incertezze, un po' da tutto il mondo, seguendo le tracce di Marcello e della sua lettera 22: dagli americani Giorno e Sinclair, agli italianissimi Bellini, Feo, Blundo, Lo Giudice. Creando un effetto paradossale, cioè quello di fare della somma di incertezze un'unica indistruttibile certezza: c'è ancora spazio per fare letteratura in un certo modo. Per essere non solo apoditticamente "contro", ma anche propositivi nel portare avanti idee che possano germogliare, nella speranza che quelle che vengono da lontano possano arrivare anche più lontano. Non ce ne vogliano i due mitici scrittori venuti dall'America, ma ancora una volta simbolo del Festival di Pitigliano è Luciana Bellini, la scrittrice contadina come Marcello all'inizio la definì, anche se a questa sua pantomima non crede più nessuno: ci sono scrittori-geometri, scrittori-disoccupati, scrittori-veline, ma quel che conta è l'essere tutti (magari chi più chi meno, ma dipende dai contenuti) scrittori. Sabato mattina è stata presentata la sua ultima fatica letteraria, "Detti e ridetti", che come sottotitolo ha "grammatica popolare". Un libro che raccoglie, con grande attenzione e dovizia, una lunga serie di modi di dire maremmani, e che può diventare una specie di "frasario" ideale di un mondo
che, volente o nolente, sta andando a scomparire, purtroppo insieme al suo linguaggio di riferimento. Una testimonianza viva, spesso resa in forma di vere e proprie frasi più che pensieri, e per chi la conosce è immediata la sensazione di avere Luciana lì davanti a te mentre la dice, con quella sua aria a metà fra Sbirulino e Zarathustra (questo accostamento lo feci in un'altra occasione, e a distanza di tempo credo sia sempre più azzeccato). Forse perché al giorno d'oggi solo Sbirulino può essere anche Zarahustra, o forse perché ci da maggior piacere e ci rassicura anche un po' che certe cose "serie" vengano dette da Sbirulino, Luciana credo sia una delle poche persone nell'ambito della letteratura italiana, e forse mondiale, libera da condizionamenti e vezzi di ogni tipo, che può rifiutare interviste alle tv private perché si vergogna e poi con la stessa faccia tirare un moccolo tutto intero durante la presentazione. In un mondo in cui speriamo siano beati i costruttori di incertezze, o quelli che si credono tali, Luciana è
ancora più beata in quanto dispensatrice di certezze, tutte legate al suo mondo di riferimento, bello o brutto che sia; alla sua cultura popolare e alla terra maremmana; alla sua instancabile voglia di mettersi lì, anche ora che è nonna, e raccontare questo mondo così come lo vede, come sa fare. Accanto a lei sull'improvvisato palco, alla presentazione, Antonello Ricci e Alberto Prunetti, due amici prima di tutto, che ridendo si sono divertiti a parlare del libro e della sua genesi, dei problemi (alcuni irrisolti, ma forse irrisolvibili) che ha posto all'autrice, del mondo di Luciana, per certi versi favoloso e magico come quello di Amelie. Un tipo di mondo che, con tutta la buona volontà e la bravura di questa terra, certo non ci possono raccontare Giorno e Sinclair, probabilmente bravissimi a dipanare incertezze in quello che è in fondo il comune mondo di riferimento, incertezze che peraltro molti di noi già hanno tutte le mattine al risveglio
e si portano dietro per tutta la giornata; incertezze che vanno mescolate a certezze per tirare avanti, col pilota automatico, quando le cose attorno a noi vanno un po' peggio. Forse è per questo che tutti gli anni torniamo a Pitigliano, oltre che per ritrovare gli amici e cercare di continuare ad amare la letteratura: per (ri)scoprire che siamo destinati ad alternare
certezze ed incertezze, in egual misura, senza soluzione di continuità. Anche per apprezzare le une e le altre, a seconda dei tempi, dei modi e delle stagioni. Ci pensi Marcello Baraghini per il 2007: l'anno prossimo, a Pitigliano per il Festival, al quale torneremo senz'altro, abbiamo bisogno anche di certezze. Oltre a Luciana, ovviamente.
Alessandro Tozzi
Nella suggestiva cornice di Pitigliano si è chiusa con notevole successo di pubblico la quarta edizione del Festival di Letteratura Resistente organizzato dalla casa editrice Stampa Alternativa. Sarà bene ricordare che Stampa Alternativa, casa editrice di rilievo nazionale, ha sede a Viterbo ed è attiva da anni con iniziative di rilievo sia sul territorio viterbese che su quello maremmano.
Per questa edizione 2006, accanto a presenze di rilievo internazionale (gli statunitensi John Giorno e John Sinclair) andrà senz’altro segnalato il pirotecnico incontro di domenica mattina dedicato a Luciano Bianciardi. Incontro al quale, insieme con la giornalista Irene Blundo e Corrado Barontini, ha partecipato lo scrittore viterbese Antonello Ricci, curatore proprio per Stampa Alternativa della recente riedizione del libro di Mario Terrosi, Bianciardi com’era, lettere a un amico grossetano. Tale libro è attualmente bloccato nei magazzini della casa editrice per il drastico veto di una degli eredi-Bianciardi, la figlia Luciana.
Domenica nel corso di un acceso dibattito è intervenuto a sorpresa dal pubblico Ettore Bianciardi, figlio dello scrittore grossetano e fratello maggiore di Luciana. Ettore, oltre a prendere le distanze dalla censura della sorella ha servito su un piatto d’argento a Marcello Baraghini (Mr. Stampalternativa) l’idea di riproporre in volume gli straordinari pezzi di costume che Luciano Bianciardi pubblicò all’inizio degli anni ’70 sulle colonne del Guerin Sportivo. Baraghini non ci ha pensato due volte. Incassato il sì dell’editore, Ettore Bianciardi ha letto alcuni brani suscitando risate e applausi a scena aperta da parte del folto pubblico presente. Baraghini e Bianciardi hanno poi proseguito con un duetto-requisitoria sulla grossetana Fondazione Bianciardi e sulle polemiche che ne hanno travolto i vertici nel corso dell’estate. I due si sono salutati col reciproco impegno di dar presto vita ad un’antiFondazione che possa rilanciare l’interesse per il narratore grossetano presso un più vasto pubblico.
Antonello Ricci