30 dicembre 2009

Vergogna di fine anno

L'autore è un ragazzo ebreo,nipote di un ebreo italiano scampato allo sterminio perchè sulla famosa Schinder list....sono strani i corsi e ricorsi della storia. A lui la nostra solidarietà per non aver distolto lo sguardo e non esser stato zitto. Quando si comincia a tacere e volgere lo sguardo di fronte a piccole(grandi) ingiustizie come questa, la libertà inizia a morire. E' triste constatare come nell'Italia degli anni dieci l'arroganza di una divisa qualsiasi, l'ignoranza e la mancanza di umanità siano oramai la norma, tra deliri razzisti, ronde di bianco natale e caccia ai "diversi". Ovunque, anche nella civilissima Toscana. I nostri migliori auguri anche al ragazzo senza braccia e senza nome che pure si ostina a vivere. ( S. P. )

CARO direttore, è domenica 27 dicembre. Eurostar Bari-Roma. Intorno a me famiglie soddisfatte e stanche dopo i festeggiamenti natalizi, studenti di ritorno alle proprie università, lavoratori un po' tristi di dover abbandonare le proprie città per riprendere il lavoro al nord. Insieme a loro un ragazzo senza braccia. Sì, senza braccia, con due moncherini fatti di tre dita che spuntano dalle spalle. È salito sul treno con le sue forze. Posa la borsa a tracolla per terra con enorme sforzo del collo e la spinge con i piedi sotto al sedile. Crolla sulla poltrona. Dietro agli spessi occhiali da miope tutta la sua sofferenza fisica e psichica per un gesto così semplice per gli altri: salire sul treno. Profondi respiri per calmare i battiti del cuore. Avrà massimo trent'anni. Si parte. Poco prima della stazione di (...) passa il controllore. Una ragazza di venticinque anni truccata con molta cura e una divisa inappuntabile. Raggiunto il ragazzo senza braccia gli chiede il biglietto. Questi, articolando le parole con grande difficoltà, riesce a mormorare una frase sconnessa: "No biglietto, no fatto in tempo, handicap, handicap". Con la bocca (il collo si piega innaturalmente, le vene si gonfiano, il volto gli diventa paonazzo) tira fuori dal taschino un mazzetto di soldi. Sono la cifra esatta per fare il biglietto. Il controllore li conta e con tono burocratico dice al ragazzo che non bastano perché fare il biglietto in treno costa, in questo caso, cinquanta euro di più. Il ragazzo farfugliando le dice di non avere altri soldi, di non poter pagare nessun sovrapprezzo, e con la voce incrinata dal pianto per l'umiliazione ripete "Handicap, handicap". I passeggeri del vagone, me compreso, seguono la scena trattenendo il respiro, molti con lo sguardo piantato a terra, senza nemmeno il coraggio di guardare. A questo punto, la ragazza diventa più dura e si rivolge al ragazzo con un tono sprezzante, come se si trattasse di un criminale; negli occhi ha uno sguardo accusatorio che sbatte in faccia a quel povero disgraziato. Per difendersi il giovane cerca di scrivere qualcosa per comunicare ciò che non riesce a dire; con la bocca prende la penna dal taschino e cerca di scrivere sul tavolino qualcosa. La ragazza gli prende la penna e lo rimprovera severamente dicendogli che non si scrive sui tavolini del treno. Nel vagone è calato un silenzio gelato. Vorrei intervenire, eppure sono bloccato.
La ragazza decide di risolvere la questione in altro modo e in ossequio alla procedura appresa al corso per controllori provetti si dirige a passi decisi in cerca del capotreno. Con la sua uscita di scena i viaggiatori riprendono a respirare, e tutti speriamo che la storia finisca lì: una riprovevole parentesi, una vergogna senza coda, che il controllore lasci perdere e si dedichi a controllare i biglietti al resto del treno. Invece no. Tornano in due. Questa volta però, prima che raggiungano il giovane disabile, dal mio posto blocco controllore e capotreno e sottovoce faccio presente che data la situazione particolare forse è il caso di affrontare la cosa con un po' più di compassione. Al che la ragazza, apparentemente punta nel vivo, con aria acida mi spiega che sta compiendo il suo dovere, che ci sono delle regole da far rispettare, che la responsabilità è sua e io non c'entro niente. Il capotreno interviene e mi chiede qual è il mio problema. Gli riepilogo la situazione. Ascoltata la mia "deposizione", il capotreno, anche lui sulla trentina, stabilisce che se il giovane non aveva fatto in tempo a fare il biglietto la colpa era sua e che comunque in stazione ci sono le macchinette self service. Sì, avete capito bene: a suo parere la soluzione giusta sarebbe stata la macchinetta self service. "Ma non ha braccia! Come faceva a usare la macchinetta self service?" chiedo al capotreno che con la sua logica burocratica mi risponde: "C'è l'assistenza". "Certo, sempre pieno di assistenti delle Ferrovie dello Stato accanto alle macchinette self service" ribatto io, e aggiungo che le regole sono valide solo quando fa comodo perché durante l'andata l'Eurostar con prenotazione obbligatoria era pieno zeppo di gente in piedi senza biglietto e il controllore non è nemmeno passato a controllare il biglietti. "E lo sa perché?" ho concluso. "Perché quelle persone le braccia ce l'avevano...". Nel frattempo tutti i passeggeri che seguono l'evolversi della vicenda restano muti. Il capotreno procede oltre e raggiunto il ragazzo ripercorre tutta la procedura, con pari indifferenza, pari imperturbabilità. Con una differenza, probabilmente frutto del suo ruolo di capotreno: la sua decisione sarà esecutiva. Il ragazzo deve scendere dal treno, farsi un biglietto per il successivo treno diretto a Roma e salire su quello. Ma il giovane, saputa questa cosa, con lo sguardo disorientato, sudato per la paura, inizia a scuotere la testa e tutto il corpo nel tentativo disperato di spiegarsi; spiegazione espressa con la solita esplicita, evidente parola: handicap. La risposta del capotreno è pronta: "Voi (voi chi?) pensate che siamo razzisti, ma noi qui non discriminiamo nessuno, noi facciamo soltanto il nostro lavoro, anzi, siamo il contrario del razzismo!". E detto questo, su consiglio della ragazza controllore, si procede alla fase B: la polizia ferroviaria. Siamo arrivati alla stazione di (...). Sul treno salgono due agenti. Due signori tranquilli di mezza età. Nessuna aggressività nell'espressione del viso o nell'incedere. Devono essere abituati a casi di passeggeri senza biglietto che non vogliono pagare. Si dirigono verso il giovane disabile e come lo vedono uno di loro alza le mani al cielo e ad alta voce esclama: "Ah, questi, con questi non ci puoi fare nulla altrimenti succede un casino! Questi hanno sempre ragione, questi non li puoi toccare". Dopodiché si consultano con il capotreno e la ragazza controllore e viene deciso che il ragazzo scenderà dal treno, un terzo controllore prenderà i soldi del disabile e gli farà il biglietto per il treno successivo, però senza posto assicurato: si dovrà sedere nel vagone ristorante. Il giovane disabile, totalmente in balia degli eventi, ormai non tenta più di parlare, ma probabilmente capisce che gli sarà consentito proseguire il viaggio nel vagone ristorante e allora sollevato, con l'impeto di chi è scampato a un pericolo, di chi vede svanire la minaccia, si piega in avanti e bacia la mano del capotreno. Epilogo della storia. Fatto scendere il disabile dal treno, prima che la polizia abbandoni il vagone, la ragazza controllore chiede ai poliziotti di annotarsi le mie generalità. Meravigliato, le chiedo per quale motivo. "Perché mi hai offesa". "Ti ho forse detto parolacce? Ti ho impedito di fare il tuo lavoro?" le domando sempre più incredulo. Risposta: "Mi hai detto che sono maleducata". Mi alzo e prendo la patente. Mentre un poliziotto si annota i miei dati su un foglio chiedo alla ragazza di dirmi il suo nome per sapere con chi ho avuto il piacere di interloquire. Lei, dopo un attimo di disorientamento, con tono soddisfatto, mi risponde che non è tenuta a dare i propri dati e mi dice che se voglio posso annotarmi il numero del treno. Allora chiedo un riferimento ai poliziotti e anche loro si rifiutano e mi consigliano di segnarmi semplicemente: Polizia ferroviaria di (...). Avrei naturalmente voluto dire molte cose, ma la signora seduta accanto a me mi sussurra di non dire niente, e io decido di seguire il consiglio rimettendomi a sedere. Poliziotti e controllori abbandonano il vagone e il treno riparte. Le parole della mia vicina di posto sono state le uniche parole di solidarietà che ho sentito in tutta questa brutta storia. Per il resto, sono rimasti tutti fermi, in silenzio, a osservare.

L'autore è scrittore ed editore da Repubblica 30 dicembre 2009

11 dicembre 2009

12 dicembre 1969

C'è un prima e un dopo nella storia della generazione del '68, decisivo per l'Italia a venire, il giorno in cui ci hanno rubato il futuro. E' il 12 dicembre del 1969, il giorno della strage di stato, dell'inizio delle stragi di stato e fasciste, dell'inizio anche della lotta armata, per molti unica risposta possibile ad uno stato che cercava di soffocare nel sangue l'anelito alla libertà di un paese che si stava affacciando al ventesimo secolo. Dopo le 17 vittime di Piazza Fontana a Milano, Pino Pinelli fu il primo di una lunga lista di centinaia di compagni che sarebbero caduti negli anni a venire. La defenestrazione di Pinelli dal quarto piano della questura di Milano avviene mentre un giovane Bruno Vespa annuncia in TV "l'arresto di uno degli autori della strage, il ballerino anarchico Pietro Valpreda". Non ci risultano scuse di Vespa o dello stato a Valpreda, non ci stupisce uno stato che non processa se stesso e non condanna esecutori e mandanti. Oggi come ieri noi non dimentichiamo, oggi come ieri il nostro odio è intatto per chi ci ha rubato il futuro. Oggi come ieri il nostro amore è per i tanti, troppi compagni caduti da quel giorno. La rivoluzione è un fiore che non muore. (Stefano)
LA BALLATA DI PINELLI
Quella sera a Milano era caldo
ma che caldo che caldo faceva
brigadiere apra un po' la finestra
ad un tratto Pinelli cascò.

Signor questore io gliel'ho già detto
lo ripeto che sono innocente
anarchia non vuol dire bombe
ma giustizia amor libertà.

Poche storie confessa Pinelli
il tuo amico Valpreda ha parlato
è l'autore del vile attentato
e il suo socio sappiamo sei tu.

Impossibile grida Pinelli
un compagno non può averlo fatto
e l'autore di questo misfatto
tra i padroni bisogna cercar.

Stiamo attenti indiziato Pinelli
questa stanza è già piena di fumo
se tu insisti apriam la finestra
quattro piani son duri da far.

Quella sera a Milano era caldo
ma che caldo, che caldo faceva
brigadiere apra un po' la finestra
ad un tratto Pinelli cascò.

L'hanno ucciso perché era un compagno
non importa se era innocente
"Era anarchico e questo ci basta"
disse Guida il feroce questor.

C'è un bara e tremila compagni
stringevamo le nere bandiere
in quel giorno l'abbiamo giurato
non finisce di certo così.

Calabresi e tu Guida assassini
che un compagno ci avete ammazzato
l'anarchia non avete fermato
ed il popolo alfin vincerà.

Quella sera a Milano era caldo
ma che caldo, che caldo faceva
brigadiere apra un po' la finestra
ad un tratto Pinelli cascò.

[E tu Guida e tu Calabresi
Se un compagno ci avete ammazzato
Per coprire una strage di stato
Questa lotta più dura sarà.]
L'onore perduto dell'anarchico Giuseppe Pinelli

questura-pinelli.jpgCi sono peri talmente alti che a cascarci giù si impiegano 40 anni prima di toccare il suolo. Ne ha fatto l'esperienza il presidente Giorgio Napolitano, ricevendo, tra le vittime della strage di Piazza Fontana, anche Licia Pinelli, la compagna dell'anarchico caduto dalla finestra al quarto piano della questura di Milano la notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, al termine di un interrogatorio. Napolitano ha parlato di «ridare e riaffermare l'onore di Pinelli» e di «rompere il silenzio su una ferita non separabile da quella dei 17 che persero la vita a piazza Fontana». Forse il presidente si riferiva alla propria persona, e alla riunione della direzione del PCI (della quale era membro) del 19 dicembre 1969, dove, alla presenza del segretario Enrico Berlinguer, si convenne che era politicamente più saggio denunciare gli anarchici come "provocatori" piuttosto che difendere i compagni caduti dalla finestra (come Pinelli) o in galera (come Valpreda). Per rendere giustizia non solo a Giuseppe Pinelli, ma anche ai tanti che non possono "rompere il silenzio" perché in silenzio non sono mai stati, riportiamo qui il capitolo sulla morte dell'anarchico Pinelli tratto dalla controinchiesta La strage di Stato, integralmente leggibile qui [G.D.M.].

Come è morto Giuseppe Pinelli

GPinelli.jpgÈ circa la mezzanotte di lunedi 15 dicembre 1969. Un uomo discende lentamente lo scalone principale della questura di Milano. Giunto nell'atrio dell'ingresso principale di via Fatebenefratelli si ferma un momento, accende una sigaretta. È indeciso se uscire, andarsene a casa, oppure rimanere ancora qualche minuto, fare un attimo il giro negli uffici della squadra mobile che stanno lì di fronte a lui, dall'altra parte del cortile. Sono giornate faticose queste per i cronisti milanesi e lui in particolare si sente stanco, avvilito: si sa già che nella mattina è stato arrestato un anarchico di nome Valpreda; c'entrerà davvero con le bombe di Piazza Fontana? E poi nelle camere di sicurezza della questura, nelle stanze al quarto piano dell' ufficio politico ci sono ancora almeno un centinaio tra anarchici e giovani della sinistra extraparlamentare che da tre giorni, dal venerdì delle bombe, sono sottoposti a continui interrogatori.

L'uomo, Aldo Palumbo, cronista de l'Unità di Milano, muove i primi passi per attraversare il cortile. E sente un tonfo, poi altri due, ed è un corpo che cade dall'alto, che batte sul primo cornicione del muro, rimbalza su quello sottostante e infine si schianta al suolo, per metà sul selciato del cortile, per metà sulla terra soffice dell'aiuola. Palumbo rimane paralizzato per qualche secondo al centro del cortile, poi si avvicina al corpo, ne distingue i contorni del viso. E subito corre a dare l'allarme, agli agenti della squadra mobile, agli altri cronisti che sono rimasti in sala stampa quando lui è uscito.

La mattina dopo tutti i quotidiani escono a grossi titoli con la notizia del suicidio di Giuseppe Pinelli. Di questi giornali, quelli che al momento dell'incidente avevano il loro cronista in questura scrivono che il suicidio è avvenuto a mezzanotte e tre minuti. Nei giorni seguenti, stranamente questo particolare del tempo viene modificato: prima lo si corregge a "circa mezzanotte", poi lo si sposta ancora indietro, sino ad arrivare ad un tempo ufficiale: "Pinelli è morto alle ore undici e 57 minuti del lunedì notte 15 dicembre".

Ai primi di Febbraio, dall'inchiesta condotta dalla magistratura trapela un particolare: la chiamata fatta quella notte dalla questura di Milano al centralino telefonico dei vigili urbani per richiedere l'intervento di una autoambulanza, è stata registrata da uno speciale apparecchio e quindi si può stabilire con certezza l'attimo esatto, che risulta essere mezzanotte e 58 secondi. Come a dire due minuti e due secondi prima della caduta di Pinelli, se si sta al tempo segnalato da tutti i giornalisti che erano in questura quella notte. Si è trattato di una svista collettiva, e abbastanza clamorosa per gente abituata ad avere delle reazioni automatiche, professionali, quali il guardare per prima cosa l'orologio quando avviene un incidente del genere? È un fatto però che nel frattempo sono successe due cose strane.

Qualche giorno dopo la morte di Giuseppe Pinelli, due agenti della squadra politica della questura si sono presentati al centralino telefonico dei vigili urbani per controllare il momento esatto di registrazione della chiamata. Cosa significa questo zelo del tutto gratuito dato che è la magistratura, e non la polizia, che si occupa dell'inchiesta sulla morte di Pinelli? Perché preoccuparsi tanto dell'orario di chiamata dell'ambulanza se le cose si sono svolte così come sono state raccontate? La risposta potrebbe essere questa: la chiamata e stata fatta prima che Giuseppe Pinelli cadesse dalla finestra.

Verso i primi di gennaio il giornalista Aldo Palumbo, la prima persona che si è avvicinata a Giuseppe Pinelli morente nel cortile della questura, trova la sua abitazione sottosopra. Qualcuno è entrato, ha rovistato dappertutto, ha aperto cassetti, rovesciato mobili, frugato armadi. Ladri? Sarebbero ladri ben strani considerato che non hanno rubato né le tredicimila lire che erano in una borsa, e che pure devono aver visto poiché la borsa è stata aperta, e neppure quei pochi gioielli nascosti in un'altra borsa, pure essa trovata aperta. Due quindi le ipotesi: o gli ignoti cercavano qualcosa, qualcosa collegato agli ultimi istanti in qui il giornalista fu vicino, e da solo, a Giuseppe Pinelli morente; oppure si è trattato di un avvertimento, un monito a tenere la bocca chiusa rivolto a chi, come Aldo Palumbo, poteva essere sospettato di sapere qualcosa, forse di aver sentito mormorare da Pinelli un nome, una frase.

Francobollo_Pinelli.jpgBasterebbero questi primi, pochi elementi per formulare pesanti sospetti sulla versione dell'anarchico morto suicida. In realtà ce ne sono molti altri, e sono questi.

Pinelli cade letteralmente scivolando lungo il muro, tanto che rimbalza su ambedue gli stretti cornicioni sottostanti la finestra dell'ufficio politico; non si è dato quindi nessuno slancio.

Cade senza un grido e i medici stabiliranno che le sue mani non presentano segni di escoriazione, non ha avuto cioè nessuna reazione a livello istintivo, incontrollabile, nemmeno quella di portare le mani a proteggersi durante la "scivolata".

La polizia fornisce nell'arco di un mese tre versioni contrastanti sulla meccanica del suicidio. La prima: quando Pinelli ha spalancato la finestra, abbiamo tentato di fermarlo ma senza riuscirci. La seconda: quando Pinelli ha spalancato la finestra, abbiamo tentato di fermarlo e ci siamo parzialmente riusciti, nel senso che ne abbiamo fermato lo slancio: come dire, ecco perchè è scivolato lungo il muro. Ma questa versione è stata resa a posteriori, dopo cioè che i giornali avevano fatto rilevare la stranezza della caduta. Infine l'ultima, la più credibile, fornita in "esclusiva" il 17 gennaio 1970 al Corriere della sera: quando Pinelli ha spalancato la finestra, abbiamo tentato di fermarlo ed uno dei sottufficiali presenti, il brigadiere Vito Panessa, con un balzo "cercò di afferrarlo e salvarlo; in mano gli rimase una scarpa del suicida". I giornalisti che sono accorsi nel cortile, subito dopo l'allarme lanciato da Aldo Palumbo, ricordavano benissimo che l'anarchico aveva ambedue le scarpe ai piedi.

Poi la polizia fornisce due versioni contrastanti anche sul movente anche sul movente del suicidio. Primo: Pinelli era coinvolto negli attentati, il suo alibi per il pomeriggio del 12 dicembre era crollato, e sentendosi ormai perduto ha scelto la soluzione estrema, gridando "È la fine dell'anarchia". Seconda versione, fornita anche questa a posteriori, dopo che l'alibi era risultato assolutamente valido: Pinelli, innocente, bravo ragazzo, nessuno riesce a capacitarsi del suo gesto.

Dando questa seconda versione, la polizia afferma anche che la tragedia è esplosa nel corso di un interrogatorio che si svolgeva in una atmosfera del tutto legittima, civile e tranquilla, con scambio di sigarette ed altre delicatezze del genere. L'anarchico Pasquale Valitutti, uno dei tanti fermati che tra il venerdì delle bombe ed il lunedì successivo hanno riempito le camere di sicurezza della questura, ha fornito invece questa testimonianza: "Domenica pomeriggio ho parlato con Pino (Pinelli) e con Eliane, e Pino mi ha detto che gli facevano difficoltà per il suo alibi, del quale si mostrava sicurissimo. Mi anche detto di sentirsi perseguitato da Calabresi e di avere paura di perdere il posto alle ferrovie. Verso sera un funzionario si è arrabbiato perchè parlavo con gli altri e mi ha fatto mettere nella segreteria che è adiacente all'ufficio di Pagnozzi [un altro commissario, come Calabresi, dell'ufficio politico: n.d.r.]; ho avuto occasione di cogliere alcuni brani degli ordini che Pagnozzi lasciava ai suoi inferiori per la notte. Dai brani colti posso affermare che ha detto di riservare a Pinelli un trattamento speciale, di non farlo dormire e di tenerlo sotto pressione per tutta la notte. Di notte il Pinelli è stato portato in un'altra stanza e la mattina mi ha detto di essere molto stanco, che non lo avevano fatto dormire e che continuavano a ripetergli che il suo alibi era falso, mi è parso molto amareggiato. Siamo rimasti tutto il giorno nella stessa stanza, quella dei caffé, ed abbiamo potuto scambiare solo alcune frasi, comunque molto significative. Io gli ho detto "Pino, perchè ce l'hanno con noi?" e lui molto amareggiato mi ha detto: "si, ce l'hanno con me". Sempre nella stessa serata del lunedì gli ho chiesto se avesse firmato dei verbali e lui mi ha risposto di no. Verso le otto è stato portato via e quando ho chiesto ad una guardia dove fosse , mi ha risposto che era andato a casa. Io pensavo che stesse per toccare a me di subire l'interrogatorio, certamente più pesante di quelli avvenuti fino ad allora: avevo questa precisa impressione.. dopo un po', verso le 11, 30 ho sentito dei rumori sospetti, come di una rissa ed ho pensato che Pinelli fosse ancora li e che lo stessero picchiando. Dopo un po' di tempo c'è stato il cambio della guardia, cioè la sostituzione del piantone di turno fino a mezzanotte. Poco dopo ho sentito come delle sedie smosse ed ho visto gente che correva nel corridoio verso l'uscita, gridando "si è gettato". Alle mie domande hanno risposto che si era gettato il Pinelli: mi hanno ance detto che hanno cercato di trattenerlo ma che non vi sono riusciti. Calabresi mi ha detto che stavano parlando scherzosamente del Pietro Valpreda, facendomi chiaramente capire che era nella stanza nel momento in cui Pinelli cascò. Inoltre mi ha detto che Pinelli era un delinquente, aveva le mani in pasta dappertutto e sapeva molte cose degli attentati del 25 aprile. Queste cose mi sono state dette da Panessa e Calabresi mentre altri poliziotti mi tenevano fermo su una sedia pochi minuti dopo il fatto di Pinelli. Specifico inoltre che dalla posizione in cui mi trovavo potevo vedere con chiarezza il pezzo di corridoio che Calabresi avrebbe dovuto necessariamente percorrere per recarsi nello studio del dottor Allegra e che nei minuti precedenti il fatto [cioè la stessa caduta di Pinelli n.d.r.] Calabresi non è assolutamente passato per quel pezzo di corridoio".

finestra_pinelli.jpgDunque l'ultimo interrogatorio di Giuseppe Pinelli non è stato così tranquillo come si è cercato di far credere, ed è falso anche che al momento della caduta il commissario aggiunto Luigi Calabresi non fosse presente nella stanza. Ma perchè queste menzogne? La risposta può essere trovata in un articolo pubblicato dal settimanale Vie Nuove nelle settimane seguenti.

"Quando l'anarchico fu trasportato nella sala di rianimazione dell'ospedale Fatebenefratelli non era in condizioni di coscienza, aveva un polso abbastanza buono ma il respiro molto insufficiente, il che poteva essere provocato da ragioni organiche (cioè il gran colpo dell'impatto con il terreno o qualcosaltro) oppure psicologiche (cioè lo stato di tensione precedente alla caduta, ma questa sembra un'eventualità meno valida.) Il particolare che stupì i medici fu che il corpo, almeno da un esame superficiale, non presentava nessuna lesione esterna ne perdeva sangue dalle orecchie e dal naso, come avrebbe dovuto essere se Pinelli avesse battuto violentemente la testa. Una constatazione, questa, che fa sorgere subito un'altra domanda in chi non ha mai voluto credere nella versione del suicidio: se è vero, come sembra, che la necroscopia ha accertato una lesione bulbare all'altezza del collo, quale si sarebbe potuta produrre battendo al suolo il capo, come mai orecchie e naso non sanguinavano ne volto e testa non presentavano lesioni evidenti? Per logica si arriva quindi ad una seconda domanda: non è possibile che quella lesione al collo fosse stata provocate prima della caduta? Come e da cosa non ci vuole molta fantasia per immaginarlo: sono ormai molti anni che nelle nostre scuole di polizia quella antica arte giapponese di colpire col taglio della mano, nota come Karatè. Fossero stati interrogati, quei due medici [che hanno prestato cure a Pinelli morente n.d.r.] avrebbero potuto raccontare un altro episodio. Quella notte del 16 dicembre, nell' atrio del Fatebenefratelli regnava una grande confusione. Si era trasferito tutto lo stato maggiore della polizia milanese, il questore Marcello Guida compreso. Ma la polizia era presente anche all'interno della sala di rianimazione dove i due medici tentavano invano di tenere in vita Giuseppe Pinelli, tranquillo, silenziose, non molto turbato dalla vista dell'operazione di intubazione orotracheale e di ventilazione con il pallone di Ambù alla quale l'anarchico veniva sottoposto, un poliziotto in borghese, camicia e cravatta, baffetti neri e un distintivo all'occhiello della giacca, non si allontanò neanche per un attimo dal lettino dove Pinelli stava morendo, attento a raccogliere ogni suo rantolo. [...] Chi gli ha dato l'ordine di entrare nella stanza compiendo un abuso di autorità che non è tollerato negli ospedali? E perchè è entrato, cosa pensava o temeva che Pinelli potesse dire prima di morire?"

I risultati dell'autopsia, dalla quale sono stati esclusi i periti di parte, non vengono resi noti. I due medici - Gilberto Bontani e Nazareno Fiorenzano - che hanno tentato di salvare Pinelli, solo il secondo, e solo molte settimane più tardi, e dietro istanza della moglie dell'anarchico, viene interrogato dal procuratore Giuseppe Caizzi, il magistrato cui è affidata che nel mese di maggio 1970 si concluderà con un sibillino verdetto di "morte accidentale" (non suicidio quindi, se la lingua italiana ha un senso. Ma allora la polizia ha mentito...).

Subito dopo che il dottor Nazareno Fiorenzano è stato interrogato, nel palazzo di giustizia circola una voce secondo cui la polizia lo ha pesantemente "avvertito" che il caso Pinelli è un caso da archiviare, e perciò è meglio che non si ponga troppi interrogativi. Ma cosa può aver notato o capito il medico di guardia davanti al corpo di Pinelli morente?

La testimonianza che egli rilascia a un collega prima di essere interrogato dal magistrato e questa:

"1) Gli infermieri che raccolsero Pinelli ebbero l'impressione che fosse già morto.
2) Il massagio cardiaco esterno fu praticato da un infermiere di nome Luciano.
3) Solo eccezionalmente - e per lo più in vecchi dallo scheletro rigido - il massaggio cardiaco può produrre incrinature alle costole.
4) Da quando fu raccolto, e fino alla morte Pinelli non emise ne un lamento ne una parola.
5) Quando Pinelli arrivò al pronto soccorso del Fatebenefratelli, non aveva più polso, pressione e respirazione. Appariva decerebrato; ma il dottor Fiorenzano non ebbe l'impressione che la teca cranica fosse fratturata. Non perdeva sangue dagli occhi, dal naso, dalla bocca. Presentava anche abrasioni alle gambe. Lesione bulbare? Mani intatte.
7) Pinelli fu intubato, sottoposto a ventilazione artificiale ed altre pratiche di rianimazione. Riebbe polso e pressione. Respiro che confermerebbe lesione bulbare. Mancanza di riflessi ecc. confermano che (parole testuali) "si trattava di un morto cui avevano dato un po' di vita vegetativa" Rianimazione sospesa dopo 90'.
8) Il dottor Guida arrivo tre minuti dolo Pinelli. Disse al dottor Fiorenzano che non poteva fare nulla contro l'irreparabile, ebbe l'aria di scusarsi e se ne andò.
9) Il dottor Fiorenzano ignorava l'identità del ferito, che non gli fu detta dai poliziotti. La sua insistenza per conoscerla irritò molto i poliziotti.
10) I poliziotti ripetevano, tutti con le stesse parole, che si era buttato dalla finestra. Sembra ripetessero una formula."

Altri articoli su Pinelli pubblicati su Carmillaonline.org

La testimonianza di Pasquale Valitutti
12 dicembre 2006: nessun imputato per l'anniversario
La lapide di Giuseppe Pinelli

01 dicembre 2009

Figlio mio,lascia questo paese

LA LETTERA. Il direttore generale della Luiss
avremmo voluto che l'Italia fosse diversa e abbiamo fallito

"Figlio mio, lascia questo Paese"

di PIER LUIGI CELLI


"Figlio mio, lascia questo Paese"

Un'aula dell'Università di Bologna

Figlio mio, stai per finire la tua Università; sei stato bravo. Non ho rimproveri da farti. Finisci in tempo e bene: molto più di quello che tua madre e io ci aspettassimo. È per questo che ti parlo con amarezza, pensando a quello che ora ti aspetta. Questo Paese, il tuo Paese, non è più un posto in cui sia possibile stare con orgoglio.

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Puoi solo immaginare la sofferenza con cui ti dico queste cose e la preoccupazione per un futuro che finirà con lo spezzare le dolci consuetudini del nostro vivere uniti, come è avvenuto per tutti questi lunghi anni. Ma non posso, onestamente, nascondere quello che ho lungamente meditato. Ti conosco abbastanza per sapere quanto sia forte il tuo senso di giustizia, la voglia di arrivare ai risultati, il sentimento degli amici da tenere insieme, buoni e meno buoni che siano. E, ancora, l'idea che lo studio duro sia la sola strada per renderti credibile e affidabile nel lavoro che incontrerai.
Ecco, guardati attorno. Quello che puoi vedere è che tutto questo ha sempre meno valore in una Società divisa, rissosa, fortemente individualista, pronta a svendere i minimi valori di solidarietà e di onestà, in cambio di un riconoscimento degli interessi personali, di prebende discutibili; di carriere feroci fatte su meriti inesistenti. A meno che non sia un merito l'affiliazione, politica, di clan, familistica: poco fa la differenza.

Questo è un Paese in cui, se ti va bene, comincerai guadagnando un decimo di un portaborse qualunque; un centesimo di una velina o di un tronista; forse poco più di un millesimo di un grande manager che ha all'attivo disavventure e fallimenti che non pagherà mai. E' anche un Paese in cui, per viaggiare, devi augurarti che l'Alitalia non si metta in testa di fare l'azienda seria chiedendo ai suoi dipendenti il rispetto dell'orario, perché allora ti potrebbe capitare di vederti annullare ogni volo per giorni interi, passando il tuo tempo in attesa di una informazione (o di una scusa) che non arriverà. E d'altra parte, come potrebbe essere diversamente, se questo è l'unico Paese in cui una compagnia aerea di Stato, tecnicamente fallita per non aver saputo stare sul mercato, è stata privatizzata regalandole il Monopolio, e così costringendo i suoi vertici alla paralisi di fronte a dipendenti che non crederanno mai più di essere a rischio.

Credimi, se ti guardi intorno e se giri un po', non troverai molte ragioni per rincuorarti. Incapperai nei destini gloriosi di chi, avendo fatto magari il taxista, si vede premiato - per ragioni intuibili - con un Consiglio di Amministrazione, o non sapendo nulla di elettricità, gas ed energie varie, accede imperterrito al vertice di una Multiutility. Non varrà nulla avere la fedina immacolata, se ci sono ragioni sufficienti che lavorano su altri terreni, in grado di spingerti a incarichi delicati, magari critici per i destini industriali del Paese. Questo è un Paese in cui nessuno sembra destinato a pagare per gli errori fatti; figurarsi se si vorrà tirare indietro pensando che non gli tocchi un posto superiore, una volta officiato, per raccomandazione, a qualsiasi incarico. Potrei continuare all'infinito, annoiandoti e deprimendomi.

Per questo, col cuore che soffre più che mai, il mio consiglio è che tu, finiti i tuoi studi, prenda la strada dell'estero. Scegli di andare dove ha ancora un valore la lealtà, il rispetto, il riconoscimento del merito e dei risultati. Probabilmente non sarà tutto oro, questo no. Capiterà anche che, spesso, ti prenderà la nostalgia del tuo Paese e, mi auguro, anche dei tuoi vecchi. E tu cercherai di venirci a patti, per fare quello per cui ti sei preparato per anni.

Dammi retta, questo è un Paese che non ti merita. Avremmo voluto che fosse diverso e abbiamo fallito. Anche noi. Tu hai diritto di vivere diversamente, senza chiederti, ad esempio, se quello che dici o scrivi può disturbare qualcuno di questi mediocri che contano, col rischio di essere messo nel mirino, magari subdolamente, e trovarti emarginato senza capire perché.
"Figlio mio, lascia questo Paese"

L'università La Sapienza di Roma


Adesso che ti ho detto quanto avrei voluto evitare con tutte le mie forze, io lo so, lo prevedo, quello che vorresti rispondermi. Ti conosco e ti voglio bene anche per questo. Mi dirai che è tutto vero, che le cose stanno proprio così, che anche a te fanno schifo, ma che tu, proprio per questo, non gliela darai vinta. Tutto qui. E non so, credimi, se preoccuparmi di più per questa tua ostinazione, o rallegrarmi per aver trovato il modo di non deludermi, assecondando le mie amarezze.

Preparati comunque a soffrire.

Con affetto,
tuo padre

L'autore è stato direttore generale della Rai. Attualmente è direttore generale della Libera Università internazionale degli studi sociali, Luiss Guido Carli.
(30 novembre 2009)

24 novembre 2009

Il nastro bianco

Michael Haneke: IL NASTRO BIANCO

di Benedetta Masera

L’ultimo film di Michael Haneke, Il nastro bianco, è stato spesso interpretato sulla nostra stampa come un film sulle origini del nazismo. Penso che questa interpretazione sia molto riduttiva e molto consolatoria. E anche un po’ autoassolutoria. Un gruppo di ragazzini nella campagna tedesca del 1914. La macchina riprende in primi piani immensi i loro volti lisci, gli occhi immobili, i capelli biondi pettinati con cura. Figurette dritte, vestite di scuro, compatte e ordinate.
Nell’affresco sono le figure di sfondo. Il racconto segue gli adulti. Non hanno nome, solo il loro appellativo sociale: il Barone, il Pastore, il Medico, l’Intendente. A volte sono chiamati anche ‘signor padre’. Niente altro. Il Barone e le sue tre diramazioni sono né più né meno l’incarnazione del Potere, e di tutto ciò che si deve fare per mantenerlo. La ricetta, per quanto riguarda i contadini, è semplice: basta lasciarli all’occorrenza senza lavoro. Nessuno si ribella, perché lo spettro della morte per fame è fin troppo vicino. Infatti la ribellione di un giovane contadino, nell’isolamento più totale, porta come unica conseguenza al suicidio del padre e alla probabile morte per fame dei fratelli.Le donne di qualunque classe sociale sono quasi mute, a malapena riusciamo a sentirne la voce durante tutto il film. Vengono annichilite dalla violenza che vedono esercitare sui figli o che subiscono loro stesse, e alla quale non sono in grado di opporsi in nessun modo. Sono disarmate, mute, in balia degli uomini. Senza scampo.Non c’è spazio per la ribellione e nemmeno per la fuga. Chi tenta di ribellarsi viene ricondotto all’obbedienza, o semplicemente svanisce nel nulla.Quale potrebbe essere, dunque, l’unico punto debole del sistema di ferro in cui si muovono i personaggi? I bambini, i loro figli, menti giovani, ancora intatte. Che per questo vanno dominati, piegati. Tra loro c’è il biondo e riccioluto figlio del barone. Poi i perfetti figli del pastore del villaggio. La figlia del medico, con lampi di malizia negli occhi neri che è quasi impossibile cogliere.Gli adulti non si occupano dei bambini se non per punirli, o per abusarne. Lo scopo è inculcare loro a forza l’obbedienza. Perché questo è il nastro bianco del titolo, che dal pastore viene definito ‘simbolo di innocenza e di purezza’: obbedienza.E quindi i bambini obbediscono. E la crudeltà che sviluppano insieme all’obbedienza diventa sempre più sconvolgente. Perché applicano alla lettera gli insegnamenti: ogni infrazione alla regola va sradicata alla radice, e le colpe dei padri ricadono sui figli. La trappola è scattata, non c’è possibilità di riscatto.Te li immagini marciare allineati, da lì a una decina d’anni, sotto la Porta di Brandeburgo con la faccia rivolta verso il Führer. E ti immagini le bambine diventate grandi fare la guardia zelanti alle prigioniere del campo di sterminio.Ma non è solo questo (come se fosse poco, per carità). È che Haneke ci sussurra all’orecchio: credi davvero di vivere in un mondo diverso? Il mondo in cui vivi è sostanzialmente lo stesso: chi ha il potere se lo tiene stretto e fa vivere tutti gli altri in miseria. E a te hanno insegnato a obbedire fin da piccolo.Siamo ricattabili come il contadino che teme che non gli venga dato lavoro alla stagione successiva. E sono ancora i preti, e i pope e i mullah, a dettare le regole della vita. E con quale dedizione questo sistema viene portato avanti da tutti, da vittime e carnefici, sommersi e salvati.

17 novembre 2009

La persecuzione dei giovani

La persecuzione dei giovani

di Andrea Scarabelli


Se vedi novanta poliziotti in assetto antisommossa a Milano, sui navigli, in un’alba spenta che solo novembre sa offrire, pensi di assistere a un’operazione di estrema gravità e urgenza. Magari per sventare qualche pericolosissima minaccia terroristica esotica, come quella che da oggi scopriamo incombere sul nostro premier. Se poi li vedi circondare il Lab Zero o Ringhiera, insomma la casa occupata sul nuovo parco lungo Ripa di Porta Ticinese, pensi che sia imminente lo sgombero, un’altra mossa dell’offensiva unilaterale innescata da questa città contro tutti gli spazi non omologati in nome della “riqualificazione”.Invece, no.Questo venerdì 13 novembre, quell’impressionante schieramento di poliziotti è lì per arrestare tre degli occupanti. Tre pericolosissimi appena ventenni, ancora addormentati. Altri due ragazzi sono già stati prelevati dalle loro abitazioni nell’hinterland, buttati giù dal letto come criminali pronti alla fuga. Tutti e cinque hanno tra i venti e i ventiquattro anni, uno di loro finisce a San Vittore, gli altri quattro ai domiciliari. L’accusa è di rapina aggravata e lesioni, sembra che rischino dai quattro ai dieci anni di carcere.Che cosa hanno fatto?Si sono rifiutati di pagare qualche centinaio di fotocopie fatte presso la libreria Cusl dell’Università Statale, il 2 ottobre scorso. Un bottino di al massimo una ventina di euro.
Forse la notizia riportata nella sua brutalità può restituirci un po’ dello sconcerto che non siamo più in grado di provare. Mese dopo mese, in questa Italia e in questa Milano, stiamo imparando ad accettare nuovi livelli di realtà. Una situazione simile fino a poco tempo fa sarebbe stata letta come un falso, uno scherzo, una deformazione, qualunque cosa; oggi esiste, è terribilmente reale, forte di tutti i presupposti che l’hanno resa possibile. La nostra opinione pubblica sembra vivere in una condizione di stress post-traumatico che fa accettare passivamente qualsiasi cosa.Siamo pronti quindi a tollerare un simile spreco di risorse pubbliche per uno schieramento di forze delirante, allo scopo di fermare cinque persone perfettamente reperibili in qualsiasi momento, cinque ragazzi che avevano compiuto un’azione la cui gravità si equipara al rubare la merenda a un compagno a scuola, nell’ora di ricreazione. Cinque ragazzi appena più giovani di me, che ora rischiano di vedere la loro vita rovinata. In una città come Milano, in cui è ormai impossibile nascondere il vergognoso scandalo della penetrazione della criminalità organizzata nell’edilizia e nei fantomatici lavori per l’Expo, in cui evidentemente i problemi di illegalità stanno a ben altri livelli, questo non può e non deve essere reale.Lo è, invece, e non solo: ci tocca leggere articoli di giornale spietati come quelli subito comparsi, pronti a trattare questi ragazzi come soggetti altamente pericolosi, con grande sprezzo del ridicolo.
È ormai evidente che stiamo assistendo a una vera e propria persecuzione dei giovani, come aveva già osservato qui Valerio Evangelisti nel suo editoriale Ucciderli da piccoli: anche questo ennesimo episodio non deve essere considerato slegato dagli altri agghiaccianti avvenimenti degli ultimi giorni. Prima di tutto le circa sessanta denunce partite per i cortei dell’Onda dello scorso anno. Poi l’assedio sistematico a tutte le forme di cultura e di aggregazione giovanile, con l'esempio surreale dell’inaugurazione della cancellata che impedisce l’accesso alla collinetta davanti al Mom proprio nel giorno del ventennale della caduta del muro di Berlino (!). Qualsiasi richiesta di spazi viene negata, prima a parole, e poi da uno sbarramento di manganelli. Infine forse il caso più angosciante di tutti, la chiusura del liceo serale statale Gandhi, fiore all’occhiello della città, i cui studenti sono stati a loro volta perseguitati, continuamente sgomberati, picchiati e dispersi, e aspettano in presidio permanente in tenda da due mesi, solo per rivendicare il proprio diritto allo studio. Il comune ha avuto il coraggio di mantenere la propria posizione anche dopo la sentenza del Tar che ha dato ragione agli studenti, bloccando la chiusura della scuola. Sempre venerdì 13, di sera, gli studenti hanno provato a occupare per protesta la sede delle scuole civiche, in via Marsala. Sono stati sgomberati la mattina dopo, all’alba, dai soliti poliziotti armati fino ai denti come se dovessero fare irruzione in un covo mafioso. Il video dell’operazione stringe il cuore.Eppure anche questa realtà è possibile, proprio perché abbiamo imparato ad accettarla: quella della fiamma ossidrica della polizia che apre la porta, mentre gli studenti sempre più angosciati cantano in coro con voce rotta “vogliamo solo studiare”.
Ho scritto questo intervento di getto, pieno di sconcerto e rabbia per quanto accaduto e per il fatto che quasi nessuno avesse preso posizione in merito, e proprio ora mentre rileggo il pezzo sto seguendo la diretta del corteo di oggi, sempre a difesa del liceo Gandhi, in centro, in cui la polizia ha fermato altri quattro ragazzi e caricato i manifestanti. Difficile davvero, di questi tempi, essere giovani a Milano. Non respiri, e non si tratta solo dei veleni a cui l’aria ti condanna ogni giorno. Non esiste lo spazio vitale per crescere, agire, fare proposte culturali proprie. Non esiste un mercato di lavoro capace di vederti come una risorsa, e non come un pezzo di carne rimpiazzabile in qualsiasi momento, e fino ad allora sfruttabile a piacere, gratis. Difficile davvero, resistere alla tentazione di andarsene da un paese che sa solo sputare su di te. E che ti ripaga così della scelta di restare, di impegnarti a costruire qualcosa in mezzo a tutto questo disastro. Rimboccati le maniche, perché sarà dura davvero.

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18 ottobre 2009

Ode a Quisnello Nozzoli

Ode a Quisnello Nozzoli

Quisnello Nozzoli, chi era costui?

Il padre si chiama Martino, la madre Carolina Cambi. Quisnello nasce a Lastra a Signa (Firenze) il nove aprile 1884. Una sorella ha ricevuto il nome di Comunarda in onore dei caduti della Comune di Parigi, un'altra si chiama Egle, un fratello porta il nome di Aldobrando, un altro - che nasce nel 1895 - riceve quello di Artorige.
L'adolescenza di Quisnello è travagliata. A undici anni viene rinchiuso nel Riformatorio di Pisa, più tardi impara il mestiere del calzolaio e si guadagna da vivere, girovagando da un paese all'altro. Come tanti altri ciabattini abbraccia presto le idee anarchiche. Segnalato negli anni seguenti a Milano e a Genova, il sei giugno 1908 subisce una condanna a 33 giorni di carcere da parte del Tribunale di Firenze per oltraggio ai carabinieri e il ventuno luglio viene schedato. Nel Mod. A la Prefettura di Firenze scrive che è soprannominato “Occe”, che ha “espressione fisionomica truce” e che riscuote “cattiva fama per il suo carattere violento e la sua cattiva educazione”.
Non risulta - secondo il funzionario - che “sia ascritto al partito anarchico, ma ne segue e ne professa le idee mostrandosi specialmente antimilitarista. Non ha nessuna influenza nel partito” e in Signa “molti lo fuggono per il suo carattere violento e prepotente”.
Trasferitosi a MASSA MARITTIMA in Maremma verso la fine dell'anno, Quisnello viene vigilato dal delegato di pubblica sicurezza, informato, il diciassette dicembre 1909, dal questore di Firenze che il calzolaio è un “pericoloso anarchico pregiudicato”. Nella cittadina medievale il calzolaio sposa Carolina Sacchetti, poi emigra in Francia, ma il ventotto gennaio dell'11 viene condannato dal Tribunale di Marsiglia a sei mesi di prigione per violenza e, a pena espiata, è espulso e accompagnato alla frontiera italiana.
Arrestato a Genova il ventotto luglio dell'11, torna a Massa Marittima, dove viene assunto nella bottega del ciabattino Giuseppe Azzi, in piazza Garibaldi, ma i rapporti fra il dipendente e il datore di lavoro degenerano rapidamente: Nozzoli malmena l'Azzi e questi lo licenzia. Passato nel laboratorio di un altro calzolaio del posto, il repubblicano Egisto Bisogni, Quisnello torna a Lastra a Signa nell'aprile del '12 e l'anno seguente è protagonista, con un certo Alberto Biagi,monarchico, di una furiosa rissa. Il Biagi ha la peggio e viene gravemente ferito, il Nozzoli, colpito a sua volta, è ricoverato, in stato di fermo o di arresto, nell'ospedale Vespucci di Firenze.
Rimesso in libertà nell'ottobre del '13, Quisnello è di nuovo a Massa Marittima ai primi di dicembre. Ora alloggia e lavora in via Saffi e frequenta assiduamente gli anarchici del posto: Enrico Bianciardi, Ivemero Giani, Giuseppe Gasperi e Natale Boschi, tutti militanti devoti all'idea.
L'anno seguente Nozzoli è il promotore delle proteste, che hanno luogo nel centro minerario, dopo l'eccidio di Ancona che darà vita in Italia alla settimana rossa. L'undici giugno l'anarchico capeggia “una turba di circa cento individui”, che percorrono le vie di Massa, “gridando e imponendo ai negozianti la chiusura” delle botteghe. Poi Quisnello e “la sua spalla forte”, il massetano Italo Targi, cercano - con “atteggiamento minaccioso” - di far chiudere al direttore del Monte dei Paschi, cav. Trabacci, l'istituto bancario, ma il funzionario risponde di no, e i manifestanti se ne vanno, dopo che Nozzoli ha minacciato “che essi scioperanti avrebbero rovesciati i banchi e gettato tutto fuori dalla finestra”.
Colpito il primo agosto da un mandato di cattura, emesso dal pretore di Massa, l'anarchico viene arrestato lo stesso giorno in via Saffi, mentre Targi finisce in carcere il venti agosto. Il “processo verbale di arresto” descrive Nozzoli come un individuo di statura bassa, dal viso largo e i capelli castani, le spalle larghe, la fronte alta, le gambe diritte, i piedi piccoli e le mani callose.
Il sedici settembre il Tribunale penale di Grosseto condanna l'anarchico a sei mesi di carcere e a 500 lire di multa e il Targi a due mesi di reclusione e a duecento lire di multa. I due si appellano, ma, il venticinque novembre, la Corte di secondo grado di Firenze porta la condanna del Nozzoli a due anni e due mesi di reclusione e cento lire di ammenda e quella del Targi a venti mesi. Il quindici gennaio del '15, però, il calzolaio beneficia di un'amnistia, che estingue l'azione penale, e viene rilasciato.
I suoi guai con la giustizia non sono, comunque, finiti: il quindici marzo del '16 è raggiunto da un ordine di cattura della procura di Firenze, perché deve scontare un anno, sette mesi e dieci giorni di reclusione per il ferimento del Biagi. La condanna - emessa dal Tribunale di Firenze - risale al quindici dicembre del '14. Costituitosi il sei novembre, Quisnello sconta la pena, poi, si lancia nella militanza antifascista, il primo marzo del 1921 è coinvolto nei tragici fatti di Empoli: un certo numero di marinai in abiti civili, che sono diretti a Firenze per un'azione di crumiraggio ai danni dei ferrovieri in sciopero, vengono scambiati per squadristi e accolti, a Empoli, da una fitta fucileria, durante la quale otto di loro vengono uccisi. Subito dopo scattano gli arresti e fra le persone, che finiscono in carcere, c'è anche Quisnello, che resta in prigione fino all'assoluzione. Tornato in libertà, l'anarchico lascia la penisola ormai caduta sotto il regime fascista ed emigra clandestinamente in Francia, stabilendosi a Parigi, dove alloggia, dal ventiquattro novembre 1925 al dieci giugno 1926, in un alberguccio di rue du Ruisseau, 92, insieme alla sua nuova compagna, Luisa Senesi, di Castelfiorentino. In questo periodo si fa chiamare “Henri Cartei”, più tardi userà gli pseudonimi di “Enrico Costai”, “Armand” e “Biaizac”.
Per vivere continua a fare il ciabattino, è uomo solido, ha la faccia larga, due baffi alla tartara, è sicuro di sé, ha lo sguardo pungente e ironico, non privo di alterigia. Nei primi anni di esilio Quisnello è favorevole al “movimento garibaldino”, perché è convinto, come Hugo Rolland, Alberto Meschi, Mario Traverso, Enzo Fantozzi ed altri anarchici italiani, che si possa spazzar via la dittatura mussoliniana, invadendo la penisola con una legione di antifascisti adeguatamente armati..
Nei primi mesi del '30 Nozzoli vive a Bruxelles, suscitando, con i suoi comportamenti politici, le preoccupazioni dei fascisti italiani .Secondo alcuni è coinvolto nell'uccisione a revolverate di un prete italiano, spia dell'Ovra fascista, insieme ad un militante antifascista maremmano.
Verso la fine dell'anno Quisnello è segnalato a Parigi, dove talvolta assiste alle riunioni dei socialisti massimalisti, organizzate da Elmo Simoncini e da Siro Burgassi. "Egli risiederebbe - recita una spia dell'Ovra nel febbraio del '31 - al n.3, avenue du bel Aire - Georges Les Gonesse.
Alla fine del '32 Quisnello fa il ciabattino a Parigi, in rue Sevigné, 5, ed è membro di un Comitato, che è sorto per aiutare Rodolfo Finocchi, detto “Bagnoli”, il quale rischia di diventare cieco. Finocchi è un anarchico fiorentino, che, una decina di anni prima, in un teatro di Firenze ha tirato una revolverata in faccia a un caporione fascista, certo "Pascià", sottraendosi poi all'arresto.
Contrario alla nascita di una Federazione anarchica dei profughi italiani, auspicata invece da Camillo Berneri, Nozzoli è persona molto diffidente - la vicenda “garibaldina” lo ha “scottato” - e neppure "Gori, da Pistoia, suo compagno di fede” riesce ad avere da lui l'indirizzo di un non meglio precisato Firmino.
Nell'aprile del '33 i fascisti attribuiscono al repubblicano Silvio Schettini un progetto terroristico: secondo la loro spia Consani, lo Schettini avrebbe chiesto a Quisnello "se il suo gruppo anarchico disponesse di uomini fidati, decisi a tutto e pronti a partecipare ad un'azione in grande stile contro il fascismo".
Nel '35 Nozzoli frequenta ancora i compagni di idee, che risiedono a Parigi, ed è sorvegliato da due spioni: il già citato Consani e il famigerato "Bero". Costoro progettano lo scasso della sua calzoleria per impadronirsi degli elenchi dei compagni, che egli incontra, e dei verbali delle riunioni libertarie, che si tengono nel locale: per realizzare il piano vorrebbero assoldare un noto ladro, ma il Ministero non è d'accordo, perché il rischio di uno scandalo internazionale è troppo grosso a fronte del modesto risultato, che si potrebbe ottenere.
Nell'estate del '35 i fascisti attribuiscono a Quisnello l'intenzione di compiere un “atto pazzesco” contro il regime di Mussolini, poi scrivono che il calzolaio cerca di procurarsi i timbri per fabbricare i passaporti ai compagni, colpiti da misure di espulsione. Il primo dicembre l'anarchico (che usa di nuovo lo pseudonimo di “Occe”) partecipa a una riunione, organizzata da "Giustizia e libertà" nella sala Lancry di Parigi, alla quale sono presenti Carlo Rosselli, Alberto Cianca, Guglielmo Ricci, e molti altri antifascisti, poi, il tredici gennaio del '36 viene arrestato per aver violato il decreto di espulsione, da cui era stato colpito nel lontano 1911, e il ventotto gennaio è condannato a due mesi di carcere.
Scontata la pena, lascia la Francia e si ricongiunge al fratello Artorige, a Barcellona. Nel luglio seguente i fascisti italiani si sforzano di rintracciare il “pericoloso anarchico” nella capitale della Catalogna, ma le ricerche devono essere sospese, perché, il diciassette luglio, i militari si sollevano contro il Governo repubblicano spagnolo e a Barcellona ha luogo una radicale rivoluzione sociale ed economica. Come altri antifascisti italiani, che si sono stabiliti in Catalogna, Quisnello dà il suo contributo all'epica lotta, che si chiude con lo schiacciamento dei rivoltosi e la cattura del generale fascista Goded, e il venti luglio aderisce al Comitato anarchico italiano, che si è formato nella capitale della Catlogna.
In ogni modo Quisnello dà prova di un attivismo persino maggiore di quello di suo fratello Artorige, che nell'ultimo scorcio di luglio gira "per le vie di Barcellona armato di sciabola con cui termina i fascisti e con un fazzoletto rosso e nero attorno al collo ". Interrogato a Firenze il sedici maggio del '41, Artorige dichiarerà che in un caffè, vicino alla sede della F.A.I., "conveniva anche mio fratello Quisnello, il quale si arruolò nelle milizie rosse recandosi al fronte in un reparto di sussistenza quale calzolaio". Quisnello si aggrega infatti alla Colonna anarchica di Antonio Ortiz, che, il venticinque luglio, conquista la città di Caspe e vi insedia il Consiglio di difesa dell'Aragona .
Nelle settimane successive Nozzoli fa la spola tra la Spagna e la Francia per ingaggiare volontari e procurare armi ai miliziani e in settembre è di nuovo a Barcellona, dove combatterebbe nelle file della F.A.I. Il due ottobre la Divisione polizia politica conferma “che il noto anarchico Nozzoli Quisnello, sedicente Cartei Henri, già residente a Parigi, troverebbesi in atto a Barcellona e probabilmente a combattere nelle file della Federazione anarchica iberica contro i nazionalisti” e il venticinque ottobre un confidente scrive da Barcellona che l'anarchico Domenico Ludovici è giunto nella città insieme a Nozzoli: “Quisnello si dichiara anarchico militante trionfante. E' stato espulso dalla Francia ed ora è qua a Barcellona privo di qualsiasi documentazione". Sia Ludovici che Nozzoli - insiste la spia - sono “violenti e pericolosi”.
Il calzolaio rimane in Spagna sino alla fine quindi,dopo un imbarco in Francia, nell'agosto del '39, viene segnalato a Cuba e, infine, nel Messico. Il diciassette dicembre dello stesso anno la Divisione polizia politica scrive che “Quisnello Nozzoli soprannominato “Occe”, avrebbe preferito lasciare la Francia con un convoglio di ex miliziani rossi diretti al Messico, ove attualmente si troverebbe”. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, Nozzoli rientra in Italia e nel '48 abita a Segni (Roma), da dove rinnova, il ventinove febbraio, l'abbonamento a “Umanità nova”, spedendo seicento lire all'amministratore del giornale. Qui pare viva fino alla soglia dei novantanni anarchico impenitente.Muore nel 1973. Presente in varie ricostruzioni storiche di riviste e archivi (www.archiviopinelli.it nel bollettino n 22 possiamo trovare le sue foto segnaletiche ) Dopo esser passato di rivista in libro e di bocca in bocca, in questi giorni la sua leggenda approda anche su facebook.

11 ottobre 2009

Che ingiustizia!

Che ingiustizia

di Alessandra Daniele

silviofacepalm.jpgCome tutti sanno, Silvio Berlusconi ha appena subito una grave ingiustizia. Un grigio consesso di loschi figuri lontani anni luce dagli autentici voleri del popolo, gli ha sottratto ciò che gli spettava di diritto, con una decisione palesemente viziata dal pregiudizio comunista.
Il Nobel per la Pace è stato assegnato a Barack Obama.


La decisione ha sconcertato lo stesso Obama, ben consapevole di non meritarlo, non tanto per via della sua propensione a incrementare le truppe USA in Afghanistan, ma per l'enorme sproporzione fra i suoi crediti, presenti, passati, e futuri, e quelli di Silvio Berlusconi, fin troppi per essere elencati tutti.
Ricordiamo fra i più recenti la riconquista della Libia, sui cui cieli sono tornate a volare le frecce tricolori, e nei cui campi di concentramento sono tornate a morire le faccette nere sgradite al suolo italico.
La riappacificazione fra Russia e Georgia, ottenuta anche grazie ai servigi di un validissimo consulente originario di Riga, inviato a Berlusconi da Putin, in nome della profonda amicizia che lega i due statisti. Quel lèttone di Putin, sul quale l'infame sinistra bigotta, zitella, e comunista, ha laidamente spettegolato falsificando l'accento.
La mediazione fra Usa e Turchia, divenuta oggi contemporaneamente membro dell'Unione Europea, e 51° Stato Unito d'America.
La soluzione del conflitto israelo-palestinese, con la costruzione di Palestina 2 al largo di Israele.
La raccolta, lavorazione, e trasformazione dei rifiuti di Napoli in pasta per la pizza.
La valorizzazione delle rovine de L'Aquila come stupendo set per le riprese tv del riuscitissimo G8.
La ricostruzione dell'Abruzzo con i pezzi del plastico di Cogne.
Silvio Berlusconi non ha dunque soltanto il già immenso merito di aver liberato l'Italia dalla sanguinosa dittatura comunista che l'opprimeva da secoli. Benefattore di proporzioni planetarie, egli è il miglior Presidente del Consiglio degli ultimi 65 milioni di anni.
L'ultimo leader al suo livello di rilievo e carisma è stato il Triceratopo del Cretaceo, oggi purtroppo estinto come tutti gli altri dinosauri, a causa dei comunisti.
Meno male che invece Silvio c'è, e non molla. Combattivo come sempre, s'è già rimesso in corsa per il Nobel del prossimo anno, questa volta per la medicina: la sua campagna contro la pandemia di influenza AAAH!!1!!!1 comincerà col rendere più efficaci gli spot sulla prevenzione, sostituendo Topo Gigio con la sorella bionda.

10 luglio 2009

Quanto vale la vita di un ragazzo di 18 anni?

Quanto vale la vita di un ragazzo di 18 anni ? Adesso lo sappiamo; tre anni e sei mesi.

Omicidio Aldrovandi poliziotti condannati a tre anni e sei mesi

La madre: ora posso chiamarli assassini

Aveva 18 anni, era incensurato, un ragazzo normale Morì per i colpi durante l’arresto

FERRARA - C’è anche Federico in aula, mentre un giudice condanna i quattro poliziotti che l’hanno aiutato a morire. Ha gli occhi chiusi, il labbro spaccato, il naso insanguinato, la fronte livida. Il suo volto, lanciato a metà mattina dentro un mazzo di volantini da quindici ragazzi anarchici, ora riposa sui tavoli di legno scuro. La sua mamma piange: «Adesso, quei poliziotti possiamo finalmente chiamarli assassini».

Federico aveva diciotto anni, era incensurato, era un ragazzo normale. Il 25 settembre 2005 tornava dalla discoteca, era l’alba, lui agitato per qualche pasticca, la gente che chiama la polizia, quattro agenti che arrivano e lo prendono a manganellate sulle gambe, in testa, dappertutto, e a calci, poi lo sbattono a terra e gli si sdraiano addosso per ammanettarlo. Ma gli scoppia il cuore, soffoca, muore come un cane. Due anni di indagini, tentativi di coperture e omertà perché di mezzo c’è la polizia, infine altri due anni di processo, 32 udienze, 15 periti, 8 avvocati e qualche tonnellata di dolore. Il pubblico ministero Nicola Proto aveva chiesto tre anni e 8 mesi per eccesso colposo, che ha portato all’omicidio colposo, nei confronti degli agenti Luca Pollastri, Enzo Pontani, Paolo Forlani e Monica Segatto; il giudice Francesco Caruso ha deciso per tre e 6 mesi. Il pubblico applaude. L’unico imputato presente (Enzo Pontani, il biondo) rimane impassibile, il padre di Federico - Lino Aldrovandi - dice: «Ora devono togliersi quella divisa e chiedere scusa. Mio figlio non torna, ma giustizia è fatta».

Ci sono dieci metri tra la mamma e il poliziotto che non si guardano mai. Lui cerca il pavimento, lei l’altro figlio Stefano, in aula. Questa donna sa che il blog che ha aperto nel 2006 per cercare la verità c’entra, nella sentenza, e che altrimenti forse sarebbe sceso il silenzio. «Volevo vederli in manette, pazienza, mi hanno spiegato che serve il terzo grado di giudizio. É giusto così, ci abbiamo creduto tanto, abbiamo sofferto. Quei poliziotti hanno agito per pura ferocia, senza spiegarne mai le ragioni. Via quella divisa, la penso come mio marito».

L’ultimo giorno è stato il più lungo. Aspettando la sentenza nei corridoi polverosi, illuminati da globi di luce gialla e gelida, in tanti volevano sapere se è vero che i «servitori dello Stato» a volte diventano picchiatori, belve che colpiscono un ragazzo disarmato, terrorizzato e confuso, in quattro contro uno. I testimoni hanno spiegato che Federico, a terra, implorava aiuto e diceva basta, ma i quattro neppure chiamarono l’ambulanza che arrivò tardi, invano. Si sono viste le fotografie di un cuore spaccato, e il sangue attorno al volto del ragazzo morto. «Lo abbiamo pestato di brutto per mezz’ora» disse uno dei quattro.

Due manganelli si spezzarono, addirittura, e si cercò di farli sparire. Si tentò di far passare Federico Aldrovandi per tossico anche se non lo era, e di condizionare alcune testimonianze dei vicini: il processo di Ferrara ha mostrato cosa può accadere, quando di mezzo ci sono le forze dell’ordine. «In questo processo, alcune istituzioni del nostro paese hanno perso credibilità» dice l’avvocato di parte civile, Riccardo Venturi. Su alcune magliette bianche, tra il pubblico, c’è scritto «verità e giustizia per Aldro». Carrelli di carte vanno e vengono, fino a sera.

«É una degna sepoltura per il povero Federico» sussurra, dopo la sentenza, un suo amico con gli occhi lucidi. In tanti piangono e si abbracciano. «Nulla di tutto questo poteva essere perdonato» ripete la mamma, Patrizia Moretti. «Se avete figli, sapete com’è quel momento al risveglio, quando una casa si riempie di caos e di musica, di vita, di gioia. A noi, questo è stato tolto: da quattro anni ascoltiamo solo il silenzio». Lo dice distrutta e felice, nel pianto e nel sorriso, parlando accanto a un figlio vivo e alla fotografia di un figlio morto.

MAURIZIO CROSETTI Repubblica 7 luglio 2009

CONDANNATI I QUATTRO POLIZIOTTI CHE UCCISERO FEDERICO ALDROVANDI

di Girolamo De Michelealdro2.jpg

Enzo Pontani, Monica Segatto, Paolo Forlani e Luca Pollastri, i quattro poliziotti imputati per la morte di Federico Aldrovandi sono stati condannati.
La sentenza che accoglie di fatto le richieste dell'accusa (3 anni 8 mesi), la condanna a tutti i membri della pattuglia, e non a uno solo, e il tempo relativamente breve che il giudice Caruso ha passato in camera di consiglio (mentre da più parti si ipotizzava una sentenza in tarda notte, o nella mattinata successiva) sottolineano la ricostruzione dell'accusa: Federico non è morto perché "drogato". Federico è morto perché è stato colpito su tutto il corpo con mani, piedi e manganelli. Federico è morto perché è stato ammanettato in una posizione che poteva - ed ha potuto - farlo soffocare. perché alle sue grida di aiuto i quattro poliziotti non hanno palesato un briciolo di umana pietà, ed hanno continuato a colpirlo fino a provocarne il soffocamento.

E dopo la sua morte il cadavere è rimasto per ore senza uno straccio che lo coprisse: ma almeno uno dei poliziotti si sente con la coscienza a posto: «posso anche dire che io la notte dormo sonni tranquilli», ha dichiarato Enzo Pontani all'uscita dal tribunale. L'agente Paolo Forlani, dal canto suo, non c'era: è in missione in Abruzzo, per il G8.
Qualcuno avrà deciso che non c'è rischio di reiterazione del reato.

Lunedì 29, sul blog della famiglia che ha frantumato il muro del silenzio, i genitori hanno postato questo testo:
Devono essere condannati perché sono colpevoli. Sono colpevoli perché Federico è morto. Sono colpevoli perché prima di incontrarli il cuore di mio figlio batteva sano generoso e forte. Sono colpevoli perché l’hanno ucciso procurandoli una sofferenza atroce, nella consapevolezza di farlo.
"Eccesso colposo di legittima difesa", recita la sentenza.
Mentre il giudice la leggeva, un'altra sentenza, senza appello, veniva pronunciata ad alta voce tra chi era presente:
ASSASSINI!

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30 maggio 2009

Vogliono chiudere l'Ortensia

Il vento ghiaccio l'ha portata ieri. Una lettera zeppa di timbri della questura, da firmare e controfirmare. Una pagina di articoli e commi e burocratese, che alla fine si può riassumere in tre righe. Visto che durante tre controlli documenti ( tre su 350 giorni di apertura all'anno) effettuati tra i presenti in tarda serata tra novembre e febbraio dalla Polizia, sono risultati presenti pregiudicati noti alle forze dell'Ordine, il Questore dispone che il Caffè Ortensia sia chiuso per una settimana allo scopo di tutelare l'ordine pubblico e allontanare così i suddetti soggetti. Dieci giorni di tempo per presentare una memoria difensiva, e nel caso sia respinta, una ordinanza, la chiusura, da ottemperare entro 90 giorni.
Se non fosse una cosa seria ci sarebbe da ridere. In base ad una scusa così si può chiudere il 75 % dei bar italiani. L'Ortensia poi è frequentata per la quasi totalità da studenti e professori universitari, erasmus, turisti, artisti e persino ragazzi senesi e residenti di Pantaneto.Facciamo mostre mensili, presentiamo libri, abbiamo una piccola biblioteca, cerchiamo di parlare con tutti, ospitiamo riunioni del comitato antifascista, dei precari e ricercatori dell'università. Qualcuno ha avuto la patente ritirata per il tasso alcolico, altri denuce per blocco stradale per le manifestazioni dell'Onda ( il movimento degli studenti, non la contrada senese) un paio per possesso di canne, uno ha diversi decreti di espulsione perchè profugo dal Kossovo senza i documenti a posto. Non entrano mai però mafiosi o spacciatori, non gira droga, nè dentro nè fuori, non mi risultano nè ex assassini o rapinatori, ma qualche ex assistito del manicomio, per altro simpatico, che da noi trova sempre un caffè od una pasta sì. Gli ubriachi molesti e rissosi li abbiamo sempre allontanati. In tre anni mai una multa, un rilievo, un richiamo. Siamo stati mesi fa noi in questura a chiedere se ci fossero problemi, ci risposero che ci avrebbero tenuti informati. Infatti. Quando si dice che la polizia è al servizio del cittadino, eh, siamo nel 2009, mica nel 1969....No, in Italia cambia tutto per non cambiare niente, anche la polizia è sempre quella,ma quale poliziotto di quartiere, ma quale collaborazione! le fiction televisive sono appunto fiction. La cosa che ci fa più male è ridurre un posto VIVO, pieno de la meglio gioventù, di sorrisi, solidarietà e colori in un mondo ingrigito e razzista, ad un ritrovo di pregiudicati. Lo troviamo altamente offensivo, e comunque una scusa per colpire uno dei pochi posti di Siena non allineati al pensiero dominante. Il clima , il vento di dittatura che spira anche a Siena è preparato dal tambureggiare di articoli forcaioli sulla stampa locale, si cerca di generare paura e guerra tra poveri, e zittire le voci fuori dal coro. Oggi si colpisce l'anello piccolo e debole, "il problema di Siena", la sentina di tutti i mali, "un covo di pregiudicati". Domani toccherà ad altri.
Noi faremo ricorso e non staremo zitti . A testa alta.

I lavoratori dell'Ortensia.

09 aprile 2009

Chi ci ha rivolti così ?

chi ci ha rivolti cosi?
io non so bene cosa scrivere. sono confusa, attonita, piena di dolore. provo a mandarlo giù, a nasconderlo sotto la maglietta, ma torna. ripercorro le mie strade, le mie case, la mia città ed è terribile vederla rimbalzare su tutti i giornali distrutta e ferita. e ovviamente un brutto groviglio di dubbi e stupidi paragoni mi sale alla gola. queste cose succedono spesso, purtroppo, ma com'è diverso quando tra le foto dei superstiti su repubblica riconosci la faccia sconvolta di un tuo amico. come è diverso quando ti disperi alle sette di mattina sui corridoi di un albergo nell'attesa che qualcuno risponda. ti sembra di sentirlo quel pronto, tanto è dentro di te. e però non arriva, non risponde, non squilla, è occupato. e tu vedi tutta la tua vita davanti e sai che potrebbe essere finita per sempre. e tutto è così mischiato ad ogni singolo mattone di quelle strade che ami tanto, che mentre cammini su e giù ti sembra di sentirle crollare. ti sembra che le scale dell'albergo si muovano, senti scricchiolii ovunque, voci. ma non quel pronto. mi sono sentita così impotente e minima. così presuntuosa e piena di aspettative. mi tornavano in mente le parole di rilke: chi ci ha rivolti così? continuo a ripetermele.

chi ha permesso che l'uomo si astraesse così tanto da sé e da tutto? non esistiamo, non più. facciamo finta di vivere, abbiamo una specie di account su una sovrastruttura che, ormai, è sempre più una sala giochi. una sovrastruttura che ci conforta, ci inorgoglisce, mette a tacere le paure e monetarizza tutto. scusate, scusatemi più che mai, gli ultimi giorni non hanno fatto che aumentare questa nausea generale che ai miei occhi avvolge tutto. mi sembra che tutto vada verso la fine senza grossi impedimenti. cementiamo, costruiamo, rialziamo, tutto in nome dell'affaruccio della politichetta del piccolo guadagnetto. facciamo tenerezza. la natura è lì, ci guarda, del tutto indifferente alla nostra presenza. è paziente, la natura, ma matrigna. non lo fa apposta, la natura. la natura è così, possente. siamo noi che non abbiamo più niente di naturale. e siamo talmente pieni di noi che ormai neanche mettiamo più in campo il rischio che il nostro cellulare possa scaricarsi. climatizzatori, navigatori, telefoni satellitari, nessuno conosce più un numero di telefono, nessuno sa più una strada... è progresso questo? è progresso vivere tutto l'anno con abiti dello stesso peso a ventuno gradi? vi chiederete cosa c'entri col terremoto che ha colpito la mia città e io proprio non lo so. so che abbiamo contribuito a buttare tante bombe su gente indifesa quanto quella dell'aquila e che quello, almeno, potevamo impedirlo. so che questi per me sono giorni in cui piangere per questo e per quello. so che occorre rispetto e fratellanza e tanto tanto amore per tutto. l'emergenza avvicina e rende solidali. e insegna, basta saperla ascoltare. la gente dell'aquila è forte e ce la farà: non invano i venti hanno soffiato, non invano ha infuriato la tempesta, scriveva esenin sergej. e non invano li abbiamo sempre sopportati, forza. vi abbraccio forte, perché mi avete fatto sentire meno sola e lontana. mentre aspetto la verifica di agibilità del mio cuore...
Manuela mardin.blogs.com

08 febbraio 2009

Che altro dire?

Che altro dire?
Hanno un senso le parole con una simile congrega di dittatorelli, nazistucoli,fascistoni, razzisti, leghisti, fanatici religiosi,radiomaria signore portatela via, cicchitti, capezzoni, gasparri, bocchini, veltrusconi, binetti, dipietri, nani e ballerini, veline e amanti del capo del segretario e spacciatore ufficiale no guardi mi consenta io sto con gianni chiodi e poi anche ugo cappellacci presidente,la sapete quella del ministro dei trasporti giapponesi fur gon cin eh quando cantavo sulle navi altro che apicella, marachella, corna , la vita era bella, poi sono sceso in campo per salvare il paese dai comunisti che non li sopporto che da bambino mi rubavano la merenda e prendevano a lattoni tanto che son rimasto calvo, popolidellelibertà e nazionalialleati leghisti con la cravatta verde ramarro parlata a tamarro e cafonaggine incorporta, denuciamoli tutti sti clandestini sti arabi coi tonaconi quattro cornuti di merda, terroristi, comunisti negri ebrei e zecche varie, portano le malattie, i medici sono pubblici ufficiali devono denunciare, diamo un premio a ogni denuncia,ributtiamoli a mare, che forse co i giudei hitle esagerò ma se sti zingheri li abbruciava tutti oggi un erano qui a sanguisughe, in miniera per poi falla saltare, il sindaco ha emanato ordinanza no kebab cibi padani anche nei ristoranti etnici obbligo di polenta, facciamoci giustizia da soli romeni violenti delinquenti stupratori ubriachi assassini che in certi caso il linciaggio come diceva miglio è una forma di giustizia popolare, ronde autorizzate, ronde padane, cristiane, più ronde e meno rondini,eluana svegliati, eluana potrebbe avere un bimbo eluana il padre se ne vuole liberare, e casini sta col decreto, i vescovi è omicidio, eutanasia, apostasia, eresia, maligno vai via, tutto il potere al vaticano, celentano afferma che in questo caso sta con berlusconi, e ti pareva i pirla vanno coi pirla, lo stupido è quell'essere che senza ricavare alcun vantaggio danneggia gravemente il prossimo e nemmeno se ne rende conto, meno male che silvio c'è, silvio pensaci tu, preghiamo, viva silvio abbasso l'intelligenza, ma che vuole sto saviano eh, hai fatto i soldi, cornuto, omo 'e merda, i vigili di parma botte al negro, cinquecento euro di multa a chi si fa in strada, mille a chi va con le prostitute di strada, diecimila al mese alle favorite che diventano ministre, social card scarica ritenti sarà più fortunato, incentivi, comprate, ridete, consumate, figliate, crepate, che essere governati significa al minimo cenno di ribellione o domanda, essere arrestati, percossi, umiliati, intimoriti, schedati, spiati, seguiti, perseguitati, esiliati, derisi offesi, il tutto nel nome della legge del governo della chiesa della libertà del potere costituito. Questa è sempre la morale della favola della storia della democrazia dell'italica nazione, fascione, reazione,non si regge più, obama salvaci tu, ci vorrebbe un obama per poter dimenticare, cara obama ti scrivo e mi distraggo un pò, chi non obama non fa l'amore, c'era un bel pirla nella via gluck, e quel cretino ne ha fatta di strada, lui non sa una sega ma sta co la chiesa, soldi su soldi e non lasciano il verde e no se si va avanti così chissà, chissà, dove si finirà .......

Cronaca rosa, cronaca politica, cronaca giudiziaria
Cantico digitale della verità
Charlie chande, gossip, stai attento
A chi non da nell’occhio, all’ombra
A chi si siede al ristorante proprio accanto
Alla parola di troppo, al testimone universale
Alla calunnia corale
Ricatto, ritratto, potrei testimoniare
Ma non voglio giurare
Sono senza memoria, sono senza vergogna,
Sono senza pudore, sono senza perdono
Sono senza memoria, sono senza vergogna,
Sono senza rigore, sono senza...
Se è il romanzo dei veleni sarà letteratura
Ma se è il nostro futuro, allora è spazzatura
Testimonianza spettacolari, tv che assolve e condanna
Dispensa il perdono come dovrebbe fare Dio
Il solo testimone prudente che sul video non appare mai
Allora siamo in un poliziesco, sarà letteratura
Ma se è questo che ci aspetta, è tutta spazzatura
L’ho visto, l’ho visto, colpevole, colpevole
La faccia del colpevole ce l’ha
L’ho visto, l’ho sentito, l’avevo intuito
Che non era a posto quello là
E l’ho seguito passo passo, fotografato
Poi lei vedeva un tale, ma questa è un’altra storia
Non divaghiamo un ricordo è un ricordo
Un’ombra che si muove
Io ricordo e non ricordo, ma ho fatto delle foto
Così ho le prove
Con precisione non so dir se c’ero davvero
O c’era prima la tv
Ma ho filmato, ascoltato, copiato
Incollato, discusso e divulgato
Sono testimone vedo e non ricordo mai
Però ricatto, ritratto, potrei testimoniare
Ma non voglio rischiare
Sono senza memoria, sono senza vergogna
Sono senza pudore, sono senza
Sono senza perdono, sono senza memoria
Sono senza rigore, sono senza
Se il romanzo dei veleni sarà letteratura
Ma se questo è il futuro allora è spazzatura
Sono senza memoria, sono senza vergogna
Sono senza pudore, sono senza
Sono senza perdono, sono senza memoria
Sono senza vergogna, sono senza
Sono senza memoria, sono senza vergogna
Sono senza pudore, sono senza
Sono senza perdono, sono senza memoria
Sono senza vergogna, sono senza
Cronaca rosa, cronaca politica, cronaca giudiziaria
Cantico digitale della verità
Sono senza memoria, sono senza vergogna
Sono senza pudore, sono senza
Sono senza perdono, sono senza memoria
Sono senza vergogna, sono senza
Siamo tutti senza
Sì che siamo senza
Siamo quasi tutti senza
il paese dei testimoni Ivano Fossati

11 gennaio 2009

Fabrizio De Andrè

Domenica 11 gennaio, dieci anni dalla morte di Fabrizio De Andrè.
Alle 22,50 duecento radio in tutta Italia e uno speciale in TV su Rai 3 danno in contemporanea una sua canzone ( una sua poesia)
Amore che vieni Amore che vai
Quei giorni perduti a rincorrere il vento
a chiederci un bacio e volerne altri cento

un giorno qualunque li ricorderai
amore che fuggi da me tornerai
un giorno qualunque ti ricorderai
amore che fuggi da me tornerai

e tu che con gli occhi di un altro colore
mi dici le stesse parole d'amore

fra un mese fra un anno scordate le avrai
amore che vieni da me fuggirai
fra un mese fra un anno scordate le avrai
amore che vieni da me fuggirai

venuto dal sole o da spiagge gelate
venuto in novembre o col vento d'estate

io t'ho amato sempre, non t'ho amato mai
amore che vieni, amore che vai
io t'ho amato sempre, non t'ho amato mai
amore che vieni, amore che vai

Ma a ognuno il suo De Andrè.
A me piace ricordare
Via del Campo
Via del Campo c'è una graziosa
gli occhi grandi color di foglia
tutta notte sta sulla soglia
vende a tutti la stessa rosa.

Via del Campo c'è una bambina
con le labbra color rugiada
gli occhi grigi come la strada
nascon fiori dove cammina.

Via del Campo c'è una puttana
gli occhi grandi color di foglia
se di amarla ti vien la voglia
basta prenderla per la mano

e ti sembra di andar lontano
lei ti guarda con un sorriso
non credevi che il paradiso
fosse solo lì al primo piano.

Via del Campo ci va un illuso
a pregarla di maritare
a vederla salir le scale
fino a quando il balcone ha chiuso.

Ama e ridi se amor risponde
piangi forte se non ti sente
dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fior
dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fior.
e poi naturalmente....
La guerra di Piero
Dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall'ombra dei fossi
ma sono mille papaveri rossi

lungo le sponde del mio torrente
voglio che scendano i lucci argentati
non più i cadaveri dei soldati
portati in braccio dalla corrente

così dicevi ed era d’inverno
e come gli altri verso l'inferno
te ne vai triste come chi deve
il vento ti sputa in faccia la neve

fermati Piero, fermati adesso
lascia che il vento ti passi un po' addosso
dei morti in battaglia ti porti la voce
chi diede la vita ebbe in cambio una croce

ma tu non lo udisti e il tempo passava
con le stagioni a passo di giava
ed arrivasti a passar la frontiera
in un bel giorno di primavera

e mentre marciavi con l'anima in spalle
vedesti un uomo in fondo alla valle
che aveva il tuo stesso identico umore
ma la divisa di un altro colore

sparagli Piero, sparagli ora
e dopo un colpo sparagli ancora
fino a che tu non lo vedrai esangue
cadere in terra a coprire il suo sangue

e se gli sparo in fronte o nel cuore
soltanto il tempo avrà per morire
ma il tempo a me resterà per vedere
vedere gli occhi di un uomo che muore

e mentre gli usi questa premura
quello si volta, ti vede e ha paura
ed imbracciata l'artiglieria
non ti ricambia la cortesia

cadesti in terra senza un lamento
e ti accorgesti in un solo momento
che il tempo non ti sarebbe bastato
a chiedere perdono per ogni peccato

cadesti interra senza un lamento
e ti accorgesti in un solo momento
che la tua vita finiva quel giorno
e non ci sarebbe stato un ritorno

Ninetta mia crepare di maggio
ci vuole tanto troppo coraggio
Ninetta bella dritto all'inferno
avrei preferito andarci in inverno

e mentre il grano ti stava a sentire
dentro alle mani stringevi il fucile
dentro alla bocca stringevi parole
troppo gelate per sciogliersi al sole

dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall'ombra dei fossi
ma sono mille papaveri rossi.
e poi......
Infine voglio ricordare l'articolo appena uscito su Repubblica " De Andrè schedato - simpatizzante BR, così i poliziotti bollarono Fabrizio- tra il 1969 e il 1979 il cantautore era tenuto sotto controllo come attivista dell'ultrasinistra dalla polizia e più avanti dai servizi in fascicoli tenuti segreti fino adesso.-"
Ora, tutti sapevano che De Andrè si professava anarchico e faceva politica alla luce del sole. Per cui, una volta tanto, mi trovo in sintonia con il finale dell'articolo "....più che su De Andrè questi rapporti segnaletici ci informano sulla mentalità dei loro estensori: inadeguati sul piano professionale, disponibili a dare ombre ai fantasmi,secondo i desideri dei loro superiori,in un pauroso deficit di cultura democratica." Insomma, più e oltre che fascisti, totalmente idioti. Del resto Fabrizio schedato e spiato era in buona e numerosa compagnia; cambiare l'esistente è sempre stato un crimine per lo Stato. Altri tempi, si dirà. Sì, altri tempi, forse è per questo che De Andrè manca così tanto. Come manca così tanto la voglia e l'entusiasmo per cambiare il tristissimo stato delle cose presenti. E la voglia di raccontare le storie, la storia.......
Una storia sbagliata
E' una storia da dimenticare
e' una storia da non raccontare
e' una storia un po' complicata
e' una storia sbagliata.

Comincio' con la luna sul posto
e fini' con un fiume d'inchiostro
e' una storia un poco scontata
e' una storia sbagliata.

Storia diversa per gente normale
storia comune per gente speciale
cos'altro vi serve da queste vite
ora che il cielo al centro le ha colpite
ora che il cielo ai bordi le ha scolpite.

E' una storia di periferia
e' una storia da una botta e via
e' una storia sconclusionata
una storia sbagliata.

Una spiaggia ai piedi del letto
stazione Termini ai piedi del cuore
una notte un po' concitata
una notte sbagliata.

Notte diversa per gente normale
notte comune per gente speciale
cos'altro ti serve da queste vite
ora che il cielo al centro le ha colpite
ora che il cielo ai bordi le ha scolpite.

E' una storia vestita di nero
e' una storia da basso impero
e' una storia mica male insabbiata
e' una storia sbagliata.

E' una storia da carabinieri
e' una storia per parrucchieri
e' una storia un po' sputtanata
o e' una storia sbagliata.

Storia diversa per gente normale
storia comune per gente speciale
cos'altro vi serve da queste vite
ora che il cielo al centro le ha colpite
ora che il cielo ai bordi le ha scolpite.

Per il segno che c'e' rimasto
non ripeterci quanto ti spiace
non ci chiedere piu' come e' andata
tanto lo sai che e' una storia sbagliata
tanto lo sai che e' una storia sbagliata.

Comunque, continuiamo, chiaramente in direzione Ostinata e Contraria.