18 dicembre 2010

Il 14 Dicembre, Travaglio, Saviano, e avvoltoi vari

Travaglio e Saviano sono due persone perbene e perbeniste di destra, non è una novità, nè uno scandalo, in fin dei conti aspirano a prendere il posto di questa destra estrema al potere , bigotta, razzista , mafiosa ; impresentabile insomma. Problema grande è quello di una opposizione parlamentare inesistente, legata al carro sventurato di Fini e Casini (e pure Rutelli, e anche il mafioso-buono Lombardo, tò! ) con i risultati appena visti, o che spera nella manna dal cielo ( i giudici o un meteorite impazzito ) per levarsi di torno il gran puttaniere dello scacchiere televisivo. Ma c'è una nota positiva: il popolo, visto che in giro non ci sono tanti miliardari da sposare o brioches da mangiare, sta cominciando ad arrabbiarsi sul serio, e si sa, un popolo affamato fa la rivoluzion ( Marx? no , Rita Pavone) . Il 14 dicembre è stata la Valle Giulia del precariato sociale e diffuso, l'inizio di una rivolta autorganizzata. Speriamo che sia solo l'inizio. Come sempre, abbiamo solo le nostre catene da perdere e un mondo nuovo da guadagnare!WMarx W Bakunin W Julian Assange !
Stefano

Il Telepredicatore

Valerio Evangelisti per Infoaut

Roberto Saviano ha scritto, nella sua unica opera narrativa, verità innegabili sulla camorra e sull'intreccio tra affari e malavita. Gliene siamo tutti grati. Ha però interpretato la gratitudine collettiva come un'autorizzazione a predicare sempre e comunque, anche su temi di cui sa poco o niente.Ecco che, su "Repubblica" del 16 dicembre, rivolge una "Lettera ai giovani" firmata da lui e, curiosamente, dall'agenzia che tutela i suoi diritti letterari. E' un'invettiva, a tratti carica di odio, contro i "cinquanta o cento imbecilli" che martedì scorso si sono scontrati a Roma con le forze dell'ordine che bloccavano il centro cittadino. La lettera appare il giorno stesso in cui un gruppo di manifestanti è processato per direttissima. Preferisco pensare che sia un caso, anche se tanta tempestività potrebbe sembrare sospetta. Non dimentico che, solo pochi giorni dopo l'attacco a Gaza e il suo migliaio di morti, Saviano era in Israele a tessere l'elogio di quel paese intento a difendersi dai "terroristi", analoghi ai camorristi che minacciano lui.Ma lasciamo correre, e lasciamo correre anche la connessione tra nazionalismo basco e traffico di droga, che lo stesso governo spagnolo dovette smentire. Veniamo agli scontri di Roma. E' proprio sicuro, Saviano, che i dimostrati fossero cinquanta o cento? Per di più vigliacchi, piagnucolosi, descrivibili come "autonomi" o "black bloc" intenti a imporre la loro violenza - che a suo dire li diverte - alla folla passiva e terrorizzata del corteo? Oltre a parlare in tv, dovrebbe ogni tanto guardarne le immagini. In questo caso avrebbe notato una folla ben più numerosa, e una manifestazione tutt'altro che pronta a sbandarsi in preda alla paura. Così come avrebbe rilevato, nei giorni precedenti, episodi del tutto analoghi a Parigi, ad Atene, a Londra e un po' in tutta Europa. "Autonomi" e "black bloc" anche laggiù?Ciò porterà, dice Saviano, a una limitazione degli spazi di libertà. Non considera che la libertà era già stata circoscritta, con cordoni tesi a proteggere i palazzi del potere da chi quel potere contesta. I dimostranti avevano annunciato che non si sarebbero lasciati imporre alcuna "zona rossa". Così è stato, nel preciso momento in cui si veniva a sapere che un governo discreditato aveva ottenuto la fiducia per pochi voti, grazie a espedienti inconfessabili. Una presa in giro per giovani che non scorgono alcun futuro, e vivono sulla loro pelle le conseguenze umilianti di pseudo-riforme modellate sulle esigenze dei privilegiati.La reazione è stata di rabbia. Come poteva non esserlo? Solo chi vive fuori dal mondo potrebbe attribuirla all'azione di "cinquanta o cento" imbecilli innamorati della violenza.Saviano, è noto, deve muoversi sotto scorta. Prima di lanciarsi in ulteriori predicozzi farebbe meglio a chiedersi se non si stia amalgamando alla scorta stessa, facendone propria la visione del mondo. Al punto da denigrare chi già subisce umiliazioni quotidiane, e di dire a chi detiene il potere ciò che ama sentir dire. Con tanto di menzione dell'agenzia letteraria, a tutela del copyright.

11 dicembre 2010

Mi fo prete

Perchè andare contro la propria, vera, natura?Molte volte mi è capitato di essere scambiato per un prete, per l'aria, l'abbigliamento, il modo di discorrere. Delle volte, persino all'Ortensia, mi hanno detto di non fare il prete. E allora basta, lo farò, almeno mi romperete le palle a ragion veduta. Tania( amica, ex barista dell'Ortensia) si è sposata con Willy in USA. A luglio vuole ripetere il rito per gli amici italiani in una oliveta del Chianti, e, saputo, che il sindaco può delegare consigliere comunale o persona che abbia i diritti politici e civili a sostituirlo, ha deciso che sarò io ad officiare. Così, dopo il Testimone ad Alberto, eccomi officiante matrimonio per Tania. Perchè precludersi una carriera a questo punto? Voglio esser ordinato diacono per celebrare anche i matrimoni religiosi, e poi, su , su, non poniamo limiti alla provvidenza. Del resto Benedetto x vi è vecchio assai....Stefano I fu Papa, tedesco, più di mille anni fa...Che ne dite?
Pax Vobiscum
Stefano II

18 ottobre 2010

Una Storia Argentina

Argentinazo : Facón Grande a Francoforte
di Osvaldo Bayer

[Una volta tanto mi ritrovo a proporre per la rubrica Argentinazo un articolo animato da uno spirito idealista, alla maniera della pubblicistica anarchica di un tempo. Pubblicato pochi giorni fa sul quotidiano argentino Pagina/12 e riadattato dal redattore di Carmilla, è una memoria dalla Fiera del libro di Francoforte firmata dallo scrittore Osvaldo Bayer] Alberto Prunetti.

Cammino per questa fiera del libro definita con orgoglio “la più grande al mondo”. Un merito, senza dubbio.
Libri, libri, libri. Dico a me stesso: ecco cosa trovo nel paese che forse è stato il più grande esportatore di armi del pianeta.
Un tempo il mauser e la croce di ferro erano i simboli della virilità nobile. E ora i libri, con personaggi e fantasie che spuntano dalle copertine e ci invitano ad aprirli.
Librai che parlano ad alta voce, bibliotecari che catalogano lettera dopo lettera. Scrittori che sorridono in paradiso, personaggi di fantasia che spuntano da ogni angolo in questo aeroporto delle illusioni.
Illusioni. D'un tratto mi danno dei colpi sulla spalla. È l'editore tedesco Dieter Schmidt. Senza proferire una sola parola, mi mette un libro in mano con un gesto quasi religioso. Guardo la copertina: il gaucho Facón Grande. Il patagonico.
Non ci posso credere. Facón Grande alla Fiera del libro di Francoforte. La storia ha fatto giustizia. Il gaucho fucilato dall'esercito argentino per aver chiesto un po' di dignità per i lavoratori patagonici in quel tetro 1921 del presidente Hipólito Yrigoyen.
L'editore Dieter Schmidt mi consegna l'edizione tedesca della Patagonia rebelde. La accarezzo. Otto anni di esilio: ecco quanto mi è costato pubblicarla nel mio paese, l'Argentina. E adesso l'hanno pubblicata nel paese in cui ho trascorso il mio esilio. Il destino. I paradossi umani. Sono felice soprattutto per Wilckens. Kurt Gustav Wilckens, l'anarchico tedesco che rese giustizia a tanti contadini fucilati. Quella mattina di gennaio del 1923, quando era in attesa nella calle Fitz Roy, di fronte alla caserma del 1° corpo di Fanteria, nel quartiere portegno di Palermo. Quando l'orgoglioso Tenente Colonnello Varela uscì dalla propria abitazione con gli stivali lucidi. Faccia a faccia. E gli lanciò contro il messaggio del vendicatore. L'esplosione dell'ira del popolo. La bomba libertaria. L'esplosione svegliò Buenos Aires. Per Wilckens, gli anarchici dei quartieri operai quel giorno cantarono “Figli del popolo”. Il tedesco non andava di fretta. Al fucilatore in uniforme, lo centrò con sei pallottole. Quei proiettili con cui aveva fucilato centinaia di peones patagonici adesso tornavano indietro e saldavano il conto al fucilatore. Niente rimane impunito.
Wilckens fu assassinato in carcere da un mercenario. Ricordo quando ormai più di trent'anni fa arrivai fino alla città tedesca di Bad Bramstedt, il posto in cui era nato Wilckens e dove trovai la sua casa paterna. Mi accolse un suo nipote, che mi salutò come se mi avesse aspettato tutta la vita. Aveva sempre fatto ricerche sul destino di Kurt Gustav Wilckens e ora arrivava uno sconosciuto da un paese tanto lontano come l'Argentina per portargli notizie di suo zio. Gli dissi che Kurt Gustav era morto assassinato in un carcere e gli raccontai della sua missione di vendicatore di 1500 operai patagonici fucilati senza processo dall'esercito argentino. Ricordo la sua emozione. All'inizio pensava che fossi venuto a raccontargli fantasie argentine ma dopo, di fronte ai dati che continuavo a mettergli di fronte, si rese conto che quella era la verità. Aprì per me i cassetti di un vecchio scrittoio. C'erano le foto di famiglia dell'infanzia e dell'adolescenza del vendicatore, carte e lettere.
Nella Fiera del libro di Francoforte cammino tra lunghi corridoi tra migliaia di libri esposti. Prometto a me stesso di andare a portare una copia della Patagonia rebelde di questa edizione tedesca alla biblioteca della città natale di Wilckens. Chissà che in futuro qualche sindacato di questa città chiami la propria sede col nome di Kurt Gustav Wilckens, che offrì la sua vita per vendicare tanti lavoratori.
Penso anche a quei due scioperanti patagonici insorti, “il tedesco” Otto, di cui non ho mai scoperto il nome, e Pablo Schulz, lui stesso di origine tedesca. Il “tedesco” Otto – così lo chiamavano i suoi compagni – prima di morire urlò contro il capitano fucilatore Viñas Ibarra: “Non si ammazza così un uomo. Neanche nella Guerra in Europa ammazzavano i prigionieri disarmati”. E prima di morire disse a Walter Knoll, un altro tedesco: “Salutami la vecchia patria”.
Penso a loro, alle loro vite raccontate in lingua tedesca, in questa edizione. Forse qualcuno scoprirà le loro storie e troverà il coraggio di visitare la Patagonia e mettere un fiore nelle fosse comuni, ormai identificate.
Se ne andarono a morire lontano, ingiustamente. Per avere chiesto solo un poco più di dignità.
Ho anche avuto la soddisfazione che il film Awka Liwen (Alba ribelle), sul genocidio commesso da Roca contro i nostri popoli originari, fosse proiettato nel corso della Fiera del libro di Francoforte. Vedere nello schermo il volto dei figli della terra. Narrare la tragedia dei genocidi commessi nelle pampas dagli ufficiali argentini Rauch, Rosas e Roca. La deportazione di questi popoli dalle loro terre ancestrali e la loro ostinazione a vivere nonostante tutto, con la loro musica quasi silenziosa, con gli echi dei loro orizzonti lontani, col lavoro delle loro mani e la tristezza per un passato mai dimenticato. Prima gli spagnoli con la loro cupidigia. Poi gli argentini con le loro uniformi. Alla fine del film c'è stato un applauso serrato, seguito da un profondo silenzio. Emozione. E un senso di colpa europeo. Per i propri antenati colonialisti.
Il pubblico europeo ha preso coscienza. Le domande si succedono. “Com'è potuto succedere?” Sì, la cupidigia. La Sociedad Rural Argentina finanziò una parte della spedizione di Julio Asesino Roca, pardon, Julio Argentino. Furono poi assegnati 2500000 ettari di terra indigena al presidente di quei giorni della Sociedad Rural, Martínez de Hoz. Come? Sì, li scrivo in lettere: due milioni e cinquecentomila ettari. Martínez de Hoz, il bisnonno. Nome conosciuto, no? ( Martínez de Hoz, nipote dell'omonimo presidente della Rural, era il ministro dell'economia del dittatore Videla, ndt).
Claro, ci sono stati anche europei che hanno fatto cose buone nel nostro paese. Mi è piaciuto molto l'omaggio reso durante la Fiera all'editore Peuser. Ricordate la Guida Peuser? E la casa editrice Peuser? Forse la casa editrice argentina più famosa del secolo scorso. Peuser era un tedesco che emigrò in Argentina, un innovatore della tecnica editoriale che importava le macchine tipografiche più moderne. Pubblicò la letteratura gauchesca e la sua edizione del Fausto di Estanislao del Campo ha battuto tutti i record di vendita. Arrivato in Argentina a 14 anni, figlio di un umile calzolaio, divenne uno dei più grandi editori del paese e in aggiunta, animato da istanze sociali, fondò nella sua azienda il primo fondo per l'assistenza medica per i suoi operai e impiegati. Un omaggio meritato. La sua bisnipote, presente all'atto, ha versato lacrime di riconoscenza. Un fabbricante di libri, non di armi, Don Peuser.

[La Patagonia rebelde, libro un tempo bruciato nelle piazze e oggi adottato nelle scuole della Patagonia, è stato pubblicato anche in italiano da Elèuthera] A.P.

26 agosto 2010

Daniele Boccardi, il poeta doloroso che si è negato il grande salto

Una sorpresa molto gradita ci ha colti domenica 22 agosto. Due pagine di Repubblica per Daniele Boccardi, per la rubrica settimanale sugli scrittori dimenticati, scomparsi. L'articolo dello scrittore fiorentino Filippo Bologna contiene alcune imprecisioni ( la più grave è quella che fa nascere Daniele a Massa, invece che Grosseto , città sempre importante nella sua breve vita ) e anche omissioni, come quella di parlare della grave questione della tesi, e poi tacere il nome, ampiamente noto, pubblicato anche in "Vite Minime", di Marcello Pera, "testa pensante" di forzaitalia ed ex presidente del senato ( nonchè relatore ad un anno dalla scomparsa di Daniele alla commemorazione che si tenne alla sala consiliare di Massa ....). Però poi il pezzo ha molti meriti, e , proprio per questo, credo che non piacerà a molti nostri concittadini, che della piccola Siena, le mura ed il silenzio hanno fatto ragione di vita.
Infine, di passaggio, vorrei sottolineare che a quasi due anni dal deposito di una petizione firmata da 97 cittadini, nessuna risposta è venuta dal comune sulla proposta di intitolare una strada a Daniele Boccardi e Sebastiano Leone.

Daniele Boccardi il poeta doloroso che si è negato il grande salto

Repubblica — 22 agosto 2010 pagina 1 sezione: FIRENZE

DICI Massa Marittima e già qualcosa non torna. Perché a Massa Marittima, il mare non c' è. Terrestre e marina, piantata in terra ma affacciata sul mare, Massa è una piccola Siena che ha imparato a nuotare ma non ha avuto il coraggio di tuffarsi. Né di ritrarsi, come quei tuffatori saliti troppo in alto che poi si bloccano per la paura e rimangono lì, come statuette di presepe. Nascere in una città che non se l' è sentita di affrontare il mare aperto ma non ha smesso di sognarlo, sono cose che influiscono sui caratteri, soprattutto su quelli dei poeti e dei filosofi. I filosofi sono quelli che vorrebbero buttarsi ma hanno paura delle onde, e allora rimangono tutti vestiti sulla spiaggia, a guardare l' orizzonte mentre gli altri fanno il bagno. I poeti invece sono quelli che vanno sott' acqua, che trattengono il fiato, e il pensiero, più a lungo di tutti, per pescare le perlee poi regalarlea noi. Daniele Boccardi era un poeta, era un filosofo, era di Massa Marittima. Era perché non è. Non più. Un giorno ha deciso che ne aveva abbastanza. A volte per i poeti e i filosofi è più facile morire perché è più difficile vivere. Il guaio è che della propria morte possono parlare solo gli altri, la morte rende impossibile ogni obiettività, si è santi o dannati, non c' è scampo. sta bene, c' è tutto. E non c' è niente. Te ne accorgi poco a poco. Quando al mattino sfogli il giornalee trovi scritto che tutto va bene, quando la sera tiri giù la saracinesca della bottega e d' un tratto senti una fitta alla schiena e ti chiedi quante volte hai fatto quel gesto, quando ti specchi nelle vetrine del corso e vedi un signore che ti guarda, quando ti stringi nel cappotto mentre attraversi il corso deserto spazzato dal vento. Quando la gravità della vita ti ha risucchiato per sempre nel suo lentissimo gorgo e ti sorprendi a maledire i sogni, e gli anni, invecchiati ai tavolini dei bar, morti di freddo sul sagrato del duomo. Troppo tardi, te ne accorgi troppo tardi. Troppo presto, Daniele Boccardi se n' è accorto troppo presto. Ma che farà quel figliolo tutti i giorni chiuso in camera sua a pestare sui tasti della macchina da scrivere? Si allena Daniele: la scrittura è l' atletica dell' anima, è l' asta del pensiero per scavalcare il fosso e lanciarsi di là dal muro. Daniele l' ha capito, e si allena tutti i giorni per il grande salto. Poi arriva la paura di non farcela, la rassegnazione, il ritiro. Quelle mura che ci hanno lasciato i nostri avi e cingono le nostre rassicuranti cittadine toscane, oramai, non servono più. I nemici più insidiosi non sono alle porte, ma in cantina. E c' è aria di cantina negli scritti di Daniele, lui è il primo a respirarla: "Tutto ciò che scrivo ha odore di chiuso, di aria viziata", appunta tra le carte. Bisognava aprire, far prendere aria, ma le finestre erano pesanti, nemmeno fossero inchiodate. Un ragazzo tranquillo Daniele, studi liceali, poi l' unipoi viventi o non viventi ( morenti mai), giusto per non dire vivi o morti, sembra la voce di uno stato di famiglia richiesto dall' anagrafe letterariao una placca dorata da affiggere sul portone per scacciarei fantasmi. Forse perché dei morti abbiamo sempre paura, che tornino a trovarci e ci dicano quel che pensano davvero, di noi. Daniele Boccardi era cresciuto in provincia. Altro che la provincia "aperta ai venti e ai forestieri" vagheggiata da quel anarco-sentimentale di Bianciardi. Tutt' altra provincia, turrita e fortificata, chiusa in sé, trincerata nei riti e nelle abitudini: il bar, la chiesa col campanile, le botteghe, lo struscio serale, sembra quasi un plastico, un mondo in miniatura. Perché andarsene, ti sussurra, qui si versità, filosofiaa Pisa. Da una provincia all' altra, Pisa non sarà Parigi, d' accordo, ma dalla Maremma amara ai lungarni dorati è già qualcosa. Poi saltano fuori problemi con la tesi, una divergenza col relatore che s' impunta sul titolo: Per una filosofia della scienza sperimentale, c' è quel per che non va bene. O così, o niente. Allora niente. Daniele non cede, la tesi resta nel cassetto. Alla fine minaccia di cambiare ateneo, la controversia si sblocca, e la tesi ottiene finalmente il placet del barone. Segue laurea, e omerico ritorno a Massa, è tempo di cercar lavoro. Ma il lavoro nel frattempo si è estinto, non esiste più, si trovano lavoretti interinali, necroforo per qualche mese, pulizie nei bagni pubblici, ripetizioni di italiano agli stranieri nei campeggi, cose così. Daniele si adegua, come ci insegnano i genitori il lavoro non è mai umiliante, umiliante semmai è non averlo. Bussare alle porte che non si aprono, le giornate passano e nemmeno te ne accorgi. Daniele si chiude sempre più, l' ultima estate nessuna vacanza, nessuna mèta da raggiungere. Rimane al guado, nella palude del tempo che non passa, quella dove non si affonda né si sta a galla, quella che nessuna bonifica del Granduca Leopoldo potrà mai prosciugare. Poi decide di attraversarla da solo, la palude. E raggiungere l' altra sponda. Lascia dietro di sé una scia di fogli. Sono tanti e sparsi. Quello che si inceppa sulla lingua in pubblico, esce dal rullo della macchina da scrivere in privato. A volte va così. La scrittura diventa un avvocato e un confessore cui affidare le nostre volontà, i nostri segreti: saprà custodirli senza tradirci? Vite minime, scritti diseducativi, si intitola così la miscellanea di scritti uscita postuma, nel 2003, per i tipi di Stampa Alternativa. Si tratta per lo più di racconti brevi, ma anche aforismi, poesie, frammenti, alcune fiabe. I materiali sono eterogenei e non datati (forse non era possibile farlo), difficile discernere, a volte si intuisce una maturità diversa da scritto a scritto. La curatela del libro manca un po' di lucidità: due prefazioni, una postfazione, come se ognuno avesse sentito il bisogno di aggiungere qualcosa, di raccontare il suo Daniele. Ma la ferita è ancora aperta, è più che comprensibile, quelle sono ferite che non si chiudono. Alla fine quel che conta è il libro, e non quello che sta intorno. Vite minimeè un libro doloroso, improvviso, sorprendente. Come lo è la scrittura di Daniele Boccardi, che riesce a uscire dalle situazioni difficili con l' intelligenza combinatoria di uno scacchista. Dio si divertea giocare con gli uomini sulla grande scacchiera della vita. Ma, a volte, ecco l' illuminazione, l' intuizione vincente, una sola mossa, e una posizione disperata si rovescia in scacco matto. Bianco e nero, Boccardi riesce a capovolgere il sadico gioco dell' esistenza mostrandone il negativo, basta girare la scacchierae mettersi nei panni dell' avversario. " 50 Kili Tanto poco/mi desidera/ il centro della terra", eccola qua la combinazione inaspettata, tre righe e la gravità si tramuta all' improvviso in desiderio di essere amati. Che poi in fondo è il grande motore della scrittura di Daniele, di tutti: disperata, irritante, commovente, bastarda ricerca di amore. Che si può cercare ovunque: tra i seni caldi di un' appassita professoressa di provincia, nelle timidezza di un venditore porta a porta, nel faccia a faccia tra una "nave-scuola" e le madri preoccupate dei suoi "allievi", persino andandoa rimestare nella merda si possono trovare tracce di amore, come nel racconto La ricerca, dove l' escatologia si azzoppa di una lettera e si fa scatologia. Cercare l' amore è la nostra missione, trovarlo la nostra speranza. Crescere in una piccola comunità con la certezza di essere uguali e la consapevolezza di essere diversi, magari più sensibili, superare la vergogna della propria intelligenza, coltivare la tiepida illusione di essere riconosciuti, persino rispettati. Carezzati mai, la provincia è una madre ingrata che preferirebbe abortire piuttosto che essere tenera con uno dei suoi figli. Questo è vivere una vita minima. Ma una vita minima non è per forza una vita agra. Pare forzato l' accostamento in quarta di copertina con Bianciardi, conterranei non vuol dire fratelli, come forzato sarebbe il parallelo con Michelstaedter, morire giovani e filosofi non basta per esser compagni. Daniele Boccardi non ha compagni, si allenava in solitaria, per migliorarsi, per spostare sempre più in alto l' asticella del dubbio, per farsi trovare pronto al momento del grande salto. Quello che ancora, non ci è dato fare.
- FILIPPO BOLOGNA

01 luglio 2010

Un abbraccio a tutti/e gli ortensisti

Carssimi ortensisti/e, lavoratori e frequentatori ,mi vengono in mente tanti volti, tante situazioni, vissute in questi ultimi quattro anni, adesso che è giunto il momento di cambiare orizzonte. Qui per me non è più possibile rimanere, spero di darvi appuntamento il prossimo anno a "el Pantaneto " a Malaga. Vi ringrazio di cuore per le battaglie che mi avete aiutato a combattere contro ordinanze della questura e maldicenze di ignoranti e fascisti. Vi ringrazio perchè mi avete arricchito ( non in dinero, sfigati sempre al verde !) di storie, sorrisi, passioni, ribellioni, vita, tanta, vera. Il che, in questa italietta sempre più meschina, mafiosa, bigotta e razzista, specchio di una dittatura light molto popolare anche a Siena, è davvero tanto. Vi lascio in buone mani, cercate di essere solidali con Vittorio e Claudio, meritano tutto il vostro aiuto visto che si adoperano a far R/esistere l'Ortensia. Non riuscirò a sdebitarmi facilmente con chi mi ha ospitato, sfamato e sostenuto in tutti questi anni da fotografo e poi barista. Due nomi per tutti; Sandro e Patrizia.Vi abbraccio forte tutti/e, mi mancherete tanto, ma vi porto tutti con me. Nostra patria è il mondo intero, nostra legge la libertà, ed un pensiero ribelle in cuor ci sta....Se la rivoluzione è un fiore che non muore, viva l'Ortensia!
Stefano

20 maggio 2010

L'orda dei dilettanti

C'era una volta una casa editrice prestigiosa e coraggiosa. Ora non c'è più, ne è rimasto in giro il marchio, acquisito da un cavaliere che si è comprato varie cosette, tra cui il posto a vita di presidente del consiglio. Comunque gli affari sono affari, e la casa editrice, quando non è impegnata a pubblicare peana al suo conducator, edita libri coraggiosi e impegnati, di scottante attualità. Perciò non potevo mancare ieri pomeriggio a Siena alla corte dei miracoli, alla presentazione de " L'Orda Nera" un libro-si fa per dire- sulla destra radicale, di tale Giovanni Fasanella e - si vede da solo non ce la faceva- Antonella Grippo. Il Fasanella era presente, la Grippo no. In compenso dialogava (di complotti) con l'autore il noto giudice Rosario Priore. Pubblico assonnato delle grandi occasioni, una dozzina forse. Peccato non aver registrato la serata! Tale mole di banalità, superficialità, strafalcioni, nemmeno in uno spettacolo comico surreale. Dilettanti allo sbaraglio, copia e incolla da internet probabilmente, chiacchere da bar esposte con sussiego. Credo che qualunque studente di lettere , anche i beoni del bar Ortensia, avrebbero potuto far di meglio con una piccola tesina. Ora, visto che l'autore ha tenuto più volte a dichiarare di essere di sinistra moderata ( ma anche di uscire con piacere a cena con uno dei capi di casapound romana conosciuto su facebook.....) si comincia a capire come mai in questo disgraziato paese una dittatura light riscuota così tanto successo, e come la sinistra ,moderata o no, non esista letteralmente più. Mal di stomaco forte, desiderio impellente di emigrare almeno fino al 2030.
Tristezza, infinita tristezza.....

30 aprile 2010

25 aprile, Ortensia ciao, ciao, ciao....

Sono tornati. Ci hanno chiuso di nuovo, questa volta per una settimana, ventilando la possibilità che la prossima volta sia per sempre. Autorizzati in questo dal regio decreto 18 giugno 1931, sì, di quando governava l'altro cavaliere, che conferisce al Questore il potere di chiudere i locali che turbano l'ordine pubblico, malfrequentati, pericolosi, insomma. Triste, tristissimo il paese che ha paura di un piccolo bar, con una lunga storia ed una grande anima, frequentato da tanti giovani, storie, sorrisi, problemi, solidarietà.
Ma questa oggi è l'Italia di Adro, Cittadella, della Lega, dei Fasci vecchi e nuovi, del cavaliere e dei suoi tirapiedi, delle mafie grandi e piccole,dei centri di permanenza, delle guerre tra poveri, dei tanti che si voltano dall'altra parte e fanno finta di non vedere.
Però, il 25 aprile, in piazza a Siena, i ragazzi del comitato antifascista hanno portato con rabbia un grande striscione con scritto " colpire i veri delinquenti, chiudere casa pound ,riaprire l'Ortensia "
Grazie ragazzi, ora e sempre resistenza!

27 marzo 2010

Eros Penni

Ricorrono in questi giorni 15 anni dalla morte di Eros. Una bellissima recensione di Alessandro Angeli, scrittore grossetano, lo ricorda sulla rivista Maremma Magazine di marzo.


Eros Penni
Il vecchio e altri racconti





La prima volta che ho sentito parlare di Eros Penni era il 2003, erano gli anni ruggenti del Fondo quelli, quando l’associazione di Massa Marittima portava ancora il nome di Daniele Boccardi. In quell’anno erano già usciti i capolavori Vite Minime di Daniele Boccardi e Potassa di Alberto Prunetti, che il Fondo aveva editato in collaborazione con Stampa Alternativa, portando l’editore viterbese a dedicare all’iniziativa una vera e propria collana, che ancora esiste, intitolata “I Libri del Fondo”, appunto. L’amicizia con Stefano Pacini, Michele Cocola e Dario Radi, mi spinse ad occuparmi come meglio potevo, col mio solito appassionato dilettantismo, degli autori che gravitavano intorno al progetto massetano. Oltre a Boccardi e a Prunetti quindi, lessi i lavori di Luciana Bellini, Lio Banchi, Antonello Ricci, mentre di Penni ancora non avevo avuto il piacere di leggere nulla. Che poi in fondo similmente al recentemente scomparso J.D. Salinger, le opere edite di Penni non erano poi molte, due nella fattispecie: un libro di poesie intitolato Le altre facce dell’ozio, stampato a Massa Marittima nel 2001 e Il Vecchio, un libro di racconti inserito il dicembre dello stesso anno di Boccardi e Prunetti nella collana I Libri del Fondo. Per scrivere di Penni avrei potuto chiamare l’amico Stefano, che era anche suo amico e che ha fissato molto bene alcune immagini di questo loro sentimento nella prefazione al libro. Ma ormai mi sono abituato a procedere così, andando a fiuto in mezzo alle pagine, perché il merito dei libri è anche quello di dare ai maestri la possibilità di parlarci ancora, anche a chi non li abbia conosciuti in vita, come è capitato a me con Penni. Perché leggendo le sue pagine non vi è alcuna possibilità di smentita ad affermare che Eros Penni era ed è un maestro. Come si legge dalle laconiche note biografiche, riportate testualmente, anche nella calligrafia, dalla penna dell’autore (con l’utilizzo di uno scanner, per svelare l’arcano) Eros Penni era nato nel 1946 a Massa Marittima e lì aveva abitato, per vivere aveva fatto i più umili lavori, fino a che a causa dei gravi problemi di salute di cui soffriva, lo stato gli aveva concesso una piccola pensione, in più era un autodidatta. Sembrerebbe un po’ riduttivo questo per capire un autore, soprattutto sembrerà riduttivo a tutti colori non abbiano avuto il privilegio di leggere le pagine de Il Vecchio, perché entrando nelle storie del libro il concetto di vita personale perde di significato per aprirsi ad uno più grande: quello di tutte le vite possibili racchiuse nella semplice espressione di esperienza umana. I personaggi di Penni come quelli di una altro scrittore italiano sicuramente più famoso di lui, sono tutti e nessuno, simili ad elementi simbolici essi hanno una funzione rivelatrice che dà ai racconti un’enorme forza evocativa, in grado di comunicare sentitamente e dolorosamente le numerose stratificazioni dell’essere. La bravura dell’autore sta proprio nel saper spogliare al momento giusto i suoi personaggi degli elementi simbolici che li pervadono, in modo che smettano di essere ideogrammi per diventare uomini in carne ed ossa. Così vicini che al lettore da un momento all’altro sembrerà di prendere parte fisicamente al racconto, che l’oste gli domandi cosa vuole bere o che il mangiarospi si metta improvvisamente a fissarlo con attenzione o ancora, che leggendo il superbo Camionista, egli si senta veramente un passeggero di quest’uomo burbero e solitario, che preferisce parlare con l’amico morto piuttosto che rivolgere parola ai vivi. Leggiamo alcuni passi del racconto:
“quella dannata notte non la scorderò mai. Avevi appena preso il mio posto al volante ed io stavo leggendo una cartina stradale quando d’improvviso una luce ci abbagliò e senza poterci far niente precipitammo giù per la scarpata. Io non so come me la cavai e dopo qualche giorno di ospedale ero di nuovo con il sedere incollato sulla poltrona di un altro camion. Ma tu? Sì tu?” Disse battendo le mani con rabbia sul cruscotto e lanciando un respiro pesante: “Maledizione! Perché non hai avuto fortuna? Perché? A pensarci bene è così strana la vita. Quello che ci capita non lo sappiamo mai fino al momento in cui avviene e questo francamente non mi piace affatto. Vorrei proprio capire che senso ha. […]
Nella fase finale del testo l’umanità del camionista si spalanca, egli rivelando l’aneddoto, caratteristica comune a quasi tutti i racconti della raccolta, riprende la sua funzione di messaggero, di uomo – verità, che poco prima aveva vacillato, al ricordo dell’amico morto. Nell’Uomo che non parlava mai, veramente prodigioso per struttura e poeticità, è proprio il personaggio che l’autore relega nella penombra dell’osteria, avvolto da i suoi pensieri torbidi a fornire la chiave di volta della novella. L’eroe di Eros Penni è l’ultimo, il più segnato, quello cioè che considera la vita un’esperienza troppo grande per limitarsi a viverla, senza sentirsi fregato. Così l’uomo che non parlava mai, dopo aver illuminato la mente di sua figlia si congeda dal lettore:
“Mah chissà!” rispose l’uomo accarezzandogli il volto e subito dopo aggiunse: Io devo andare giù nel buco, cerca di non fare molto tardi, altrimenti la mamma sarà in pensiero”. Poi si alzò, con un cenno del volto salutò i due e l’oste, uscì fuori e battendo i denti per il freddo si incamminò verso la miniera.
Il rapporto binario tra concetto e fenomenologia ricorre in tutte le novelle di Penni, la saggezza e l’esperienza dolorosa, si condensano insieme nell’uomo – verità, e l’aneddoto giunge puntuale, con la sua funzione catartica, ad allargare lo spettro del racconto, dalla soggettività del personaggio ad orizzonti universali. Nella novella L’osso è proprio l’autore tramite un suo personaggio a spiegare l’inscindibilità di questo legame. Inscindibilità che perdura fino a quando la ragione dei sensi non giunge a provocarne l’estinzione. Leggiamo:
“Ebbene io vorrei sapere prima di tutto chi di voi due è il Concetto chi il Fenomeno e poi che cosa veramente siete.
“Io a sinistra sono il Fenomeno lui a destra il Concetto. Riguardo a quello che siamo è un po’ difficile spiegarsi. Comunque io Fenomeno essendo indispensabilmente legato al Concetto riesco solo a parlare. Mentre lui parlando avrà il compito di essere la spiegazione di quello che io dico proprio perché legato a me”.
“Se uno parla è non sa quello che dice e l’altro sa, ma non può parlare, come farò io a capire che cosa è l’uno e che cosa è l’altro? Forse l’unica soluzione sarà quella di separarli” pensò la Sensazione.
E subito dopo questa considerazione, con un balzo felino piombò addosso ai due dividendoli. Ma con stupore notò che non appena separati essi scomparvero”.
Un altro grande talento di Penni è quello di saper descrivere alla perfezione l’oscuro e a volte malvagio disegno che muove i meccanismi della natura, nei suoi più intimi recessi. Sono descrizioni debordanti e lucidissime di una poeticità tagliente e cristallina, capaci di cogliere l’intima essenza della terra che Penni ha abitato e che abitiamo. Un’abilità così fortemente caratterizzante che mi ha fatto pensare ad uno straordinario scrittore americano, praticamente sconosciuto da noi: Breece D’J Pancake. Anche lui dopo una breve esistenza tormentata se n’era andato lasciando un solo libro, un documento di inestimabile valore, posteriormente acclamato dalla critica e dai colleghi scrittori, una raccolta di racconti dal titolo Trilobiti. In Trilobiti si respira in modo palpabile l’America selvaggia e a volte crudele, dei piccoli centri urbani sopraffatti dalla polvere delle sterminate praterie americane, impermeabili al tempo e imperiture, sotto l’ombra minacciosa degli Appalachi. Confrontiamo questi due diversi estratti, da una parte il racconto Cacciatori di volpi, di Pancake dall’altra Il cieco di Eros Penni:
Soffiava un vento debole che faceva rabbrividire e le foglie di sicomoro frusciavano sul marciapiede, per essere bloccate sul ciglio dalla gramigna d’un verde violento.
L’opossum se ne stava tranquillo sul bordo della strada. Non aveva trovato carcasse di animali d’allevamento in cui costruire una tana per l’inverno ; nemmeno una bella buca vuota. Portò i suoi piccoli dall’altra parte della strada, tra le foglie dove se ne stava la carcassa coriacea di un altro opossum. Non si fermò per fiutare o per altre smancerie.
Un rumore metallico. Si fermò. Fuoco. Si appiattì al suolo nel più nero terrore, con i piccoli aggrappati più stretti al pelo. Passi pesanti, sordi e irregolari le fecero ribollire il sangue. Con il giorno e il pericolo che avanzavano, la paura le avvampava dentro mentre arretrava con cautela verso cespugli più fitti. Dal suo nascondiglio vide un nemico gigante che avanzava sull’asfalto e un bagliore rosso rimbalzare brillante in ciò che restava della sua notte.
***
In un’insenatura, sulla larga spiaggia di rena fine, molliccia, cosparsa di conchiglie e fetide carcasse di crostacei, lungo la striscia ondulata di tritume fradicio e nero lasciato dalla marea, alcune meduse approdate da poco, con la loro massa gelatinosa, perlacea, venate sui bordi di righe viola, come vecchi lampadari di vetro soffiato, palpitando e sbavando al contatto dell’aria, sembravano mostrare la fine del loro splendore. Più in fondo, una pecora morta, da giorni arenata nella risacca, con la pancia gonfia, le zampe rattrappite e la faccia scavata dalle pulci marine e dalle chele dei granchi, spinteggiata di tanto in tanto dalle onde, si muoveva lentamente, emettendo dei rumori simili a risucchi. Vomitava dalla bocca, dal naso, dagli orecchi, gli ultimi residui di interiora putrefatti dalla salsedine; mentre il sole, coperto in parte dalle nuvole, come un occhio, sembrava guardare di nascosto quella cruda scena.
Due brani, due racconti, due libri che condividono la stessa intima scorza, la stessa cruda sacralità, che riescono a scendere nella profondità della natura e in quella umana così bene da diventare dei fossili, Trilobiti appunto, per il beneficio dei posteri.
Questo breve articolo altro non vuole essere che un invito alla lettura e alla rilettura di uno scrittore misconosciuto, Eros Penni, i cui manoscritti inediti sono conservati nella Biblioteca Comunale di Massa Marittima, e un attestato di stima alla sua opera naturalmente.

Alessandro Angeli

13 febbraio 2010

il lavoro culturale di Antonello Ricci

Perforando il suolo locale con lo “spillone”: il lavoro culturale di Antonello Ricci

di Alberto Prunetti

Luciano Bianciardi polemizzava ferocemente contro il provincialismo erudito degli studiosi locali, che lui chiamava in senso spregiativo “archeologi” e “medievalisti”. Li attaccò ferocemente nelle pagine iniziali de Il lavoro culturale e rispose al loro cicalio abbandonando il retroterra grossetano per seguire un nuovo progetto editoriale nella Milano del preteso “boom economico”. Rimase impantanato con un piede nella provincia e l'altro nel jet-set degli intellettuali mainstream, guadagnandosi gli odi degli uni e degli altri e conducendo male una vita agra, pieno di grappa cattiva e sensi di colpa.
Gran parte delle sue accuse contro i “localisti” erano giustificate. E lo sono anche adesso, in un'epoca in cui “locale” vuol dire qualcosa di peggio dell'epoca di Bianciardi.
Se ancora negli anni Sessanta il localismo poteva essere interpretato come un punto di vista atto a cogliere il paese reale, ai nostri giorni il rischio è che questo termine indichi una rappresentazione comunitaria e identitaria della realtà, falsamente ripiegata su se stessa. L'una e l'altra prospettiva soffrono di qualche aberrazione, ma l'astigmatismo miopico di chi vede sfocato e con colori poco vividi non è una ragione sufficiente per gettare a mare la prospettiva ravvicinata – macro, come si dice nel gergo fotografico - di chi scrive con l'occhio immerso nel locale. Sarebbe quindi un peccato consegnare gli studi locali ai leghisti mannari che si inventano lingue e tradizioni, o ai cialtroni che propagano deliri teosofici e misticismi strapaesani.
Uno studioso che difende il valore del lavoro culturale nella provincia col rigore della vecchia talpa e l'ottimismo dell'umanista è il viterbese Antonello Ricci (nella foto). Formato nella scuola degli studi folklorici e della critica letteraria, mescola la semiotica decostruttiva con uno sguardo sulla provincia che è più quello dell'antropologo che quello dell'autodidatta. Un piede nella scuola superiore (il professore che tutti conoscono), uno nell'accademia (è dottorando presso l'università della Tuscia), Antonello Ricci è il tipo che scrive articoli sul computer degli amici - il suo è sempre rotto - e che si fa un'idea delle cose biascicando il sigaro dentro al cappotto in lunghe passeggiate notturne dentro alle mura di Viterbo. In una città che un tempo era dei "I vitelloni" (set magnifico del film di Fellini) e che adesso sente stringere sempre più serrato il morso della destra, il Ricci continua in direzione ostinata e contraria il suo attivismo intellettuale: scrive saggi sul fascismo viterbese, poi plot teatrali che lui stesso mette in scena assieme a un gruppo di attori autodidatti; di seguito il copione lo rovescia in versi, e intanto fruga negli archivi, intervista anziani, riscrive le loro memorie. E continua a camminare su quelle strade nere di Viterbo, una città provinciale, divenuta capoluogo solo per astuta convenienza negli anni del ventennio e che al duce e al fascio ha sempre restituito gratitudine. Una città comunque bellissima, che nelle passeggiate notturne a fianco del Ricci si apre come le pagine di un romanzo (Ricci è anche autore di una guida di Viterbo che appunto va letta come opera letteraria più che come pubblicazione tecnica).
Riassumo allora alcuni passi della bibliografia di Antonello Ricci:
_1932, racconto metricato (David Ghaleb editore, 2009): i personaggi di un racconto in rima: Gemma, una contadina orgogliosa a cui i fascisti hanno ucciso un figlio; Valerio, un bambino che un giorno inciampa e rotola tra le gambe di un regista che sta girando a Viterbo un film fascista (“Vecchia Guardia” di Blasetti); Edoardo, un fabbro trentenne podista e antifascista, innamorato di una ragazzina chiamata Libertaria, che urla il nome di lei ogni mattina all'alba mentre si allena e che quando taglia per primo il traguardo saluta a pugno chiuso, facendo incazzare i gerarchi. E poi il nonno Olindo, vecchio e un po' sonato, cavallaro in pensione che racconta a Valerio di quando faceva il buttero in Maremma e di come sconfisse Buffalo Bill nella storica sfida tra cow-boys e butteri maremmani.
_Sottoassedio (David Ghaleb editore, 2009) è una pièce teatrale in tre atti dedicata al conflitto che oppose nel 1921-22 gli antifascisti viterbesi e gli squadristi neri, raccontata in maniera corale da una serie di personaggi: i cavatori, i poeti a braccio, i fascisti, gli arditi del popolo. Quasi una tragedia greca ambientata nello sfondo del peperino, la pietra vulcanica con cui è costruita Viterbo.
_Mezz'al Duce e Mezz'al Fascio (Malavoglia, 2003), un saggio che intreccia antropologia culturale e storia orale per affrontare il tema del consenso al regime fascista e del mito mussoliniano nella memoria contadina dell'Alto Lazio. Un lavoro interessantissimo condotto attraverso l'uso della memoria orale nell'intervista con vecchi testimoni del ventennio, attraverso le scritte murali dell'epoca, la poesia estemporanea in ottava rima e le barzellette politiche.
_Stoffa forte maremmana (Manziana, Vecchiarelli 2001) e Fare le righe (Stampa Alternativa, 2003): in questi saggi il Ricci ha raccolto una serie di articoli sull'ottava rima in Maremma, una forma di poesia contadina estemporanea in endecasillabi che sta risorgendo (e qui si coglie la resistenza e la capacità di adattamento di certi fenomeni locali tutt'altro che effimeri) e che ormai in provincia di Grosseto vede ragazzetti alternarsi, sia nel pubblico che nei palchi in cui si fanno le rime, ai vecchi pensionati.
_Una menzione speciale del lavoro del Ricci va alla curatela delle memorie pseudo-autobiografiche di semi-illetterati artigiani che hanno praticato mestieri ormai quasi scomparsi nella zona di frontiera tra grossetano e viterbese: dal vasaio al carbonaro fino a un campione dell'illegalismo maremmano, il tombarolo, ovvero il tipo che di notte andava su commissione alla ricerca di vasi etruschi nei tumuli dispersi nelle campagne, spesso tallonando gli scavi officiali in esplorazioni notturne sotterranee. Le memorie, attraverso la curatela di Antonello, raccontano la biografia di Pietro Bozzini, un tombarolo romantico, così bravo con lo “spillone” che la sovrintendenza ai beni archeologici negli anni Settanta si offrì di “comprarlo” e di farlo lavorare accanto ai professori e agli studenti, pur di non averlo come concorrente negli scavi. Questo libretto di memorie, nell'editing del Ricci, si intitola Seppellitemi con lo spillone. Autobiografia di un tombarolo gentile (Stampa Alternativa, 2003) (lo spillone è una sonda di ferro, un frugatoio di lunghezza variabile, in genere dotato di manubrio, con cui i tombaroli, percuotendo il terreno, “sentivano” – secondo alcuni, misticamente – le discontinuità del sottosuolo e individuavano le camere d'aria delle tombe etrusche, con tecniche artigianali che gli archeologi faticano a spiegare).
Sono solo pochi saggi del fronte vulcanico su cui si estende la ricerca di Antonello Ricci, che si radica come un'erica sul suolo tufaceo del viterbese ma si apre alla lotta per la difesa degli spazi pubblici e politici ( ad esempio il parco dell'Arcionello, un'aria protetta di 400 ettari a ridosso delle mura cittadine su cui gravitano mire predatorie contro le quali Antonello si impegna con attivismo inesausto), sempre più compressi da chi nel locale vede il particolare e ne fa spazio di interessi e di autoidentificazione esclusiva e comunitaria. Se la memoria dell'antifascismo e delle culture subalterne non svanirà in un'epoca di oblio mass-culturale, in parte sarà grazie a certi tombaroli resistenti come Antonello Ricci, che continuano a saggiare il terreno locale col loro spillone, in perenne ricerca di storie sommerse da condividere.

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