20 dicembre 2008

Una strada in ricordo di Daniele Boccardi e Sebastiano Leone

In questi giorni consegnamo al Sindaco ed all'assessore alla cultura del comune di Massa Marittima una petizione firmata da molti cittadini, in cui si chiede di intitolare una via o piazza del nostro paese a due cittadini, Daniele Boccardi, scrittore, e Sebastaiano Leone, uomo di pace, scomparsi rispettivamente 15 e 5 anni fa. Daniele e Sebastiano hanno lasciato una traccia indelebile dentro e fuori le mura di Massa. Adesso che il tempo rischia di sbiadirne il ricordo, chiediamo un gesto semplice ma doveroso, perchè la nostra comunità deve molto a questi due giovani che ci hanno lasciato presto, troppo presto. L'idea nacque al convegno annuale sulla scrittura che si tiene ogni febbraio in Pianizzoli. Raccolse il plauso unanime di scrittori come Emiliano Gucci e Luciana Bellini, filmaker come Christian Brogi, fotografi come Daniela Neri, associazioni come la nostra e la LTMD. Chiediamo perciò di dare corso a questo piccolo ma importante progetto.

Associazione il Fondo. LTMD produzioni video. Fotografi Contro. Convegno sulla scrittura di Pianizzoli. Centro culture contemporanee Siena.
Seguono 97 firme residenti comune Massa Marittima

27 novembre 2008

È con tanta tristezza e pena, ma anche rabbia....

È con tanta tristezza e pena, ma anche rabbia (si può dire Ettore, passeranno le nostre espressioni la tua censura?) che annulliamo i nostri link al blog di riaprireilfuoco ed a Stampa Alternativa. Non dimentichiamo tutti questi anni (per alcuni di noi, dal 1972!) passati insieme, a lottare e diffondere, organizzare, pensare, immaginare, stampare. Solo negli ultimi sei, le decine di presentazioni, i libri venduti alle feste,il convegno su Bianciardi, i libri della collana del Fondo con il marchio congiunto di StampaAlternativa, la battaglia per non far cadere nell’oblio l’opera di un maremmano più giovane: Daniele Boccardi. Le denunce prese insieme persino. E’ proprio vero; tanti anni per far conoscere una casa editrice, degli autori, tanti sacrifici, tanta pazienza, tessitura di rapporti, amicizie fraterne, e poi una settimana per distruggere, per radere al suolo tutto il lavoro fatto. Marcello, te non hai la minima idea delle mail arrivate al nostro sito, delle telefonate, della gente che ci ferma per la strada! Lettori, di ogni età, studenti del movimento, autori che hanno partecipato al concorso Boccardi, autori affermati, traduttori, collaboratori di S.A. Quello che appare sul vostro blog è solo la punta dell’iceberg. Diversi tentano di capire cosa vi abbia mosso, altri sono infuriati, altri desolati. Non vi giustifica nessuno, e sì che è un bel campione variegato di umanità. Non ci sono stalinisti baffuti o nostalgici rinco. Molti, oltretutto, sono arrabbiati perchè non rispondete minimamente alle tante osservazioni che vi vengono in questi post. Rendete l’idea: noi si fa così, se non la capite cavoli vostri oppure siete ottusi etc etc. siamo noi ad avere la verità e la rivoluzionarietà in tasca….Il fascismo cari Marcello Baraghini & Ettore Bianciardi, persino la nostra costituzione, quella costata migliaia di morti durante la resistenza, ne vieta l’apologia e la ricostituzione, e non per uno sfizio illiberale, ma perchè in un paese privo di memoria come il nostro è sempre pronto a rinascere, crescere, devastare. E se in questi ultimi anni è lettera morta la nostra costituzione, lo si deve a questo regime suadente teleautoritario, revisionista e ignorante. In questo clima i fascisti non solo hanno rialzato la testa, ma tutti i giorni aggrediscono, minacciano, scorrazzano. Credere che casa pound sia altro da ciò per la sua facciata culturale, è di una abissale ignoranza nel migliore dei casi, di una sospetta malafede nel peggiore. Nell’uno e nell’altro caso assumetevene la responsabilità senza boria e mezzucci. I vostri tanti lettori non sono apatici, indifferenti o stupidi. Ve lo stanno dicendo in vari modi, ma voi tirerete dritto, come tutti del resto in Italia; Berlusconi, Gelmini, Villari…..in questo non siete per niente alternativi, ma piuttosto scontati. Il dubbio non vi sfiora, tantomeno la vergogna di usare Bianciardi, anarchico, vero, per sdoganare quella accolita di fascisti, razzisti e sprangatori di casa pound. Chiudiamo qui, vi auguriamo nessuna fortuna, sinceramente.

19 novembre 2008

Vivere significa essere partigiani

Vivere significa essere partigiani
di Blicero

Sabato 21 luglio 2001. E' notte. I cortei e gli scontri che hanno ribaltato la città di Genova sono finiti e la gente torna a casa stanca e provata dalle botte, dalle corse, dai gas lacrimogeni, dalla violenza della polizia, dalla paura, dalla sensazione che sarebbe potuto accadere di tutto, che sia accaduto di tutto, ma che possa accadere altro ancora. Sono in pochi a rimanere, principalmente nei grossi centri di accoglienza: piazzale Kennedy, lo stadio Carlini, le scuole Diaz e Pascoli, dove l'attività di comunicazione e assistenza legale freme ancora. Per il resto migliaia di persone sono nelle stazioni e sulle autostrade. La maggior parte delle persone pensa che ormai sia finito tutto, che l'adrenalina di tutti stia lasciando il posto a una spossatezza infinita. E proprio quando la penombra è al massimo della sua intensità, quando gli occhi collettivi del mondo stanno per chiudersi per passare al prossimo spettacolo, ecco che le luci si riaccendono al massimo della loro intensità.
Squadracce di gente in divisa calano sulle due scuole dove si trova la sede del GSF, indymedia, radio gap, molti media alternativi e indipendenti, la sede del Genoa Legal Forum e un paio di centinaio di persone che vogliono solo dormire prima di andarsene a casa. Nel giro di un attimo sfondano cancelli e portoni e irrompono nelle due scuole: al media center distruggono materiali e cercano di tappare occhi e orecchie dei movimenti; alla scuola Diaz vogliono solo vendicarsi. Vogliono avere compensazione, si direbbe in altri contesti, della frustrazione che hanno provato in questi giorni in cui la rivolta ha dimostrato loro quanto il potere che detengono e difendono non valga nulla, quanto sia fragile ed etereo. La rivolta li ha fatti infuriare, li ha stupiti e colti di sorpresa, li ha umiliati. E come un animale ferito e armato hanno reagito nell'unico modo che sanno: hanno preparato, organizzato e lanciato un'operazione semplice e violenta, irrompere, picchiare, attribuire la colpa alle vittime. Deboli coi forti, forti con i deboli. Come sempre. E poi una bella firmetta su un verbale di arresto a sancire il fatto che l'operazione sia stata legittima e necessaria, nonché giustificata. Purtroppo per l'ennesima volta in quei giorni fanno male i calcoli: l'irruzione si protrae più del previsto; arrivano media e parlamentari; tutto il mondo si accorge dell'operazione e della sua grossolana funzione. Nonostante questo per molti mesi pensano che lo Stato li coprirà. Nonostante questo si arriva a un processo. Che dura anni. Il processo è finito il 13 novembre 2008: tutti coloro i quali hanno organizzato quella operazione infame sono stati assolti; tutti coloro che hanno partecipato come ultime ruote del carro, coloro che hanno picchiato perché gli è stata data mano libera, coloro che hanno portato due bombe molotov in una scuola dove non ce n'erano per addossarle alle vittime di una inumana violenza sono stati condannati; tutte le vittime hanno ricevuto qualche spicciolo per non lamentarsi troppo.
Questa è la storia. Le vicende del G8 di Genova hanno molto da insegnare a tutti coloro che vogliono prestare anche solo un attimo di attenzione. I libri non la racconteranno così. I libri resteranno sul vago quando andrà bene, oppure ignoreranno la più grande rivolta dopo gli anni sessanta e settanta in Italia e forse non solo. Ma la gente che era lì non la dimenticherà. E la rabbia che proviamo oggi di fronte a questa sentenza non deve trarci in inganno, deve trasformarsi in fatti, parole, ricordi, oggetti. Personalmente non ho mai creduto che finisse diversamente da così: la giustizia è un meccanismo intrinseco al potere, e non può permettersi di condannare coloro che la traducono in fatti operativi tutti i giorni. I giudici, i poliziotti, i politici, i governanti, gli imprenditori stanno da una parte. Noi, i poveracci, i subalterni, gli sfruttati, i deboli stiamo dall'altra. Questa è la grande verità di Genova, ed è anche la verità che più di tutte in questa epoca cerca di essere nascosta. Non è tutto uguale, esistono parti da prendere. Vivere significa essere partigiani. E alle volte quando si prende una parte, si perde, anche se era la parte giusta. Quando ho saputo della sentenza - già perché dopo quattro anni di presenza in tribunale proprio negli ultimi tre mesi non sono potuto essere presente - una delle prime cose che mi sono venute in mente è stato Stella del Mattino, di Wu Ming 4. Come ho già scritto altrove, quel libro parla proprio di Genova e di quello che ci ha lasciato, di quello che ha significato per tutti noi che siamo stati lì e l'abbiamo vissuta. Alla fine del libro, come alla fine di tutto quanto è stato Genova, non ci resta che il coraggio di credere che qualcosa possa ancora accadere, che la rivolta continui ad esistere come possibilità se non come realtà. La sentenza che chiude la vicenda Diaz, una vicenda talmente lapalissiana che è difficile credere con quale faccia tosta verrà giustificata dai cavilli legali dopo essere stata giustificata dall'inazione politica, deve diventare la nostra stella del mattino: quella luce che tutti conoscono e che nessuno può negare, eppure quella distanza che ci fa capire che solo agire e lottare cambia ciò che ci circonda. Se saremo capaci di imparare questo allora questi anni di lavoro e di parole non saranno stati una donchisciottesca tenzone con mulini a vento parecchio più grandi di noi.
Con i compagni e le compagne che hanno seguito Genova giorno dopo giorno con me abbiamo scritto che non abbiamo rimorsi per quanto accaduto a Genova, che quanto è avvenuto in quei giorni ci ha dato coraggio e ci ha trasmesso il senso delle parole dignità e libertà. Oggi per molti sarà il giorno dei rimpianti in un senso o nell'altro, ma non per me. Rimpianti significa non aver fatto quello che si riteneva giusto e necessario. Noi non possiamo averne. Perché ci aspettano ancora molte cose. Ancora molte cose possono accadere sotto il cielo e sotto Venere, e molta rabbia è pronta ad esplodere da sotto la cenere. Fino a quando non ci saranno più storie da raccontare, da ricordare o da vivere.Ognuno di noi può demolire un mattone del Palazzo di giustizia di Genova. Ognuno di noi può ancora lottare ed essere un partigiano.

LINK:supportolegale.orgcomunicato supportolegale - processig8.orgricostruzione del processo diaz - http://www.supportolegale.org/?q=node/1195ricostruzione della cronologia dei fatti di quella notte - http://www.processig8.org/Consulenze/DIAZ/cronologia%20DIAZ%2006.zipricostruzione video della difesa per il processo - http://www.processig8.org/Consulenze/DIAZ/CT_DIAZ_Video.html

Pubblicato Novembre 19, 2008 01:13 AM www.carmillaonline.com

15 novembre 2008

Vergogna, vergogna....

Vergogna, giustizia non è fatta. Tutti assolti i dirigenti della macelleria della scuola diaz al G8 di Genova, nonostante prove, testimonianze, foto, filmati, non sia mai che la sbirraglia condanni se stessa
Vergogna, in un paese civile, un figuro come Canterini starebbe dietro a delle sbarre e non al comando di un distaccamento di picchiatori fascisti e celerini che infangano il nome dell'Italia in tutto il mondo
Vergogna, un primo ministro che racconta barzellette e battute idiote e che dà degli imbecilli a chi osa dire qualcosa
Vergogna, un ex presidente della repubblica che rilascia dichiarazioni deliranti in cui invoca morti e massacri da parte della polizia per stroncare il movimento degli studenti, e nessuno che chiami il 118 per questo demente
Vergogna, un paese dove tutti i giorni si muore di lavoro, trionfa il caporalato, si rovinano precari e operai, donne e giovani, insultano i " fannulloni" si salvano le banche e si ha il coraggio di chiedere sacrifici in nome di un ceto politico decrepito
Vergogna, un movimento enorme di giovani cerca di avere un futuro, di salvare la scuola pubblica e la ricerca, ed una informazione disgustosa li fa redarguire dai morti viventi della politica italiana
Vergogna, regioni intere in mano a mafiosi e camorristi, ma si censiscono i campi Rom, si internano gli affamati, si creano le classi differenziali
Vergogna, un paese non laico in mano alle gerarchie vaticane talebane, in cui ogni diritto civile è negato in base alla santa cattolica apostolica romana chiesa
Vergogna, eterna Vergogna di un paese capostipite del fascismo, che applaudì Mussolini, l'impero coloniale, le leggi razziali, la visita di Hitler e persino la guerra mondiale. E via saltando sul carro del vincitore, il regime democristiano, mafioso, craxiano, berlusconiano, e così via, all'infinito.
Vergogna, infinita Vergogna!

08 novembre 2008

Ho visto....

Ho visto dopo tanti, tanti anni, gli studenti riprendersi le piazze, senza paura e sorridere felici.
Ho visto, come in un sogno, un nipotino di Malcolm X , Freddy Hampton, Bobby Seale, Hue P. Newton , George Jackson, Martin Luter King, diventare presidente degli USA, e la sua gente piangere di gioia....

Ho visto anche degli zingari felici


E' vero che dalle finestre
non riusciamo a vedere la luce
perché la notte vince sempre sul giorno
e la notte sangue non ne produce,
è vero che la nostra aria
diventa sempre più ragazzina
e si fa correre dietro
lungo le strade senza uscita,
è vero che non riusciamo a parlare
e che parliamo sempre troppo.

E' vero che sputiamo per terra
quando vediamo passare un gobbo,
un tredici o un ubriaco
o quando non vogliamo incrinare
il meraviglioso equilibrio
di un'obesità senza fine,
di una felicità senza peso.
E' vero che non vogliamo pagare
la colpa di non avere colpe
e che preferiamo morire
piuttosto che abbassare la faccia, è vero
cerchiamo l'amore sempre
nelle braccia sbagliate.

E' vero che non vogliamo cambiare
il nostro inverno in estate,
è vero che i poeti ci fanno paura
perché i poeti accarezzano troppo le gobbe,
amano l'odore delle armi
e odiano la fine della giornata.
Perché i poeti aprono sempre la loro finestra
anche se noi diciamo che è
una finestra sbagliata.

E' vero che non ci capiamo,
che non parliamo mai
in due la stessa lingua,
e abbiamo paura del buio e anche della luce, è vero
che abbiamo tanto da fare
e non facciamo mai niente.
E' vero che spesso la strada ci sembra un inferno
e una voce in cui non riusciamo a stare insieme,
dove non riconosciamo mai i nostri fratelli,
è vero che beviamo il sangue dei nostri padri,
che odiamo tutte le nostre donne
e tutti i nostri amici.

Ma ho visto anche degli zingari felici
corrersi dietro, far l'amore
e rotolarsi per terra,
ho visto anche degli zingari felici
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.

Ma ho visto anche degli zingari felici
corrersi dietro, far l'amore
e rotolarsi per terra,
ho visto anche degli zingari felici
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra
Siamo noi a far ricca la terra
noi che sopportiamo
la malattia del sonno e la malaria
noi mandiamo al raccolto cotone, riso e grano,
noi piantiamo il mais
su tutto l'altopiano.
Noi penetriamo foreste, coltiviamo savane,
le nostre braccia arrivano
ogni giorno più lontane.
Da noi vengono i tesori alla terra carpiti,
con che poi tutti gli altri
restano favoriti.

E siamo noi a far bella la luna
con la nostra vita
coperta di stracci e di sassi di vetro.
Quella vita che gli altri ci respingono indietro
come un insulto,
come un ragno nella stanza.
Ma riprendiamola un mano, riprendiamola intera,
riprendiamoci la vita,
la terra, la luna e l'abbondanza.

E' vero che non ci capiamo
che non parliamo mai
in due la stessa lingua,
e abbiamo paura del buio e anche della luce, è vero
che abbiamo tanto da fare
e che non facciamo mai niente.
E' vero che spesso la strada ci sembra un inferno
o una voce in cui non riusciamo a stare insieme,
dove non riconosciamo mai i nostri fratelli.
E' vero che beviamo il sangue dei nostri padri,
che odiamo tutte le nostre donne
e tutti i nostri amici.

Ma ho visto anche degli zingari felici
corrersi dietro, far l'amore
e rotolarsi per terra.
Ho visto anche degli zingari felici
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.
Ma ho visto anche degli zingari felici
corrersi dietro, far l'amore
e rotolarsi per terra.
Ho visto anche degli zingari felici
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.

Claudio Lolli 1976-Luca Carboni 2008

18 ottobre 2008

La falsa sicurezza

Nel mentre che Saviano lascia l'italietta, e l'apprezzamento del premier sale, le borse craccano e anche l'università di Siena sta male....Riceviamo e pubblichiamo volentieri questo comunicato, qualcuno, forse, comincia a reagire.

La caccia al povero, all'immigrato, al diverso, al deviato è il nuovo sport nazionale. Alla faccia della falsa sicurezza bombardata da TV e giornali, l'unica reale insicurezza è data dall'imbarbarimento della nostra società, della sua cultura, con ignoranza e intolleranza che tornano padrone. E' esattamente quello che vuole il ceto politico: lacrime di coccodrillo per le decine di morti settimanali sul lavoro, silenzio assordante sulla crescente violenza domestica e, soprattutto, paura, ansia, nemici ad ogni angolo, in ogni faccia che non sia quella rassicurante del vicino di casa. Ancora una volta POVERO contro POVERO, sistema utile a fomentare allarme sociale e a promulgare leggi repressive.
In un clima così gretto e autoritario lo spazio pubblico è eliminato, la socialità azzerata al telecomando televisivo casalingo; tre immigrati seduti su una panchina diventano "pericolosi" , cinque ragazzi a bere una birra in strada "ubriachi molesti". L'ordine è tristemente svelato: lavorare sempre di più e peggio, barcamenarsi per pagare affitti, cibo, luce e gas a prezzi stellari, ansia e stress per mutui e risparmi che improvvisamente vengono spazzati via da crisi finanziarie-bancarie, migliaia di milioni bruciati ogni giorno, speculazioni di un sistema vorace gestito da una cricca di politicanti. Quanta merda ancora prima che la paura si trasformi in rabbia? Fino a quando rassegnati ed asserviti a una vita depredata a livello economico e annichilita nella sfera sociale?
Anche a Siena le paranoie securitarie pompano forte sul degrado cittadino; viscidi politici e tristi figuri della carta stampata gridano sulla pericolosità e il decoro compromesso. Ma il loro " al lupo al lupo" non può passare: ogni individuo dotato di un minimo di lucidità sa benissimo che minorenni e donne possono tranquillamente uscire da sole la sera senza rischiare alcunchè. La criminalità è praticamente inesistente, e i dati prefettizi sottolineano il calo di furti e rapine.
Allora diciamo ai gestori delle nostre vite: NON VI DAREMO TREGUA.
Sempre più chiaramente ci rendiamo conto che l'istituzione è il primo nemico da combattere; l'unico modo per essere cittadini reali è prendere in mano la propria esistenza e svelare gli squallidi piani di qualsiasi potere. La loro falsa democrazia fa acqua da tutte le parti, si tratta di prepararsi a spazzarne via le macerie: la ricostruzione sarà gioiosa e creativa!
Alcuni ingovernabili / Coordinamento Antifascista senese

13 settembre 2008

Un fascismo piccolo piccolo ma popolare

In Italia il passato non passa mai. Magari viene rimescolato, allungato e frullato come un frappè per essere di nuovo servito sotto altro nome. O come diceva Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo, cambiamo tutto per non cambiare niente. In questo senso non avremo più un partito unico e le adunate oceaniche in camicia nera, non spezzeremo più le reni alla Grecia nè andremo a portare la civiltà in Africa cantando faccetta nera. Ma un bel regime nazionaltelevisivo sì, in cui ognuno stia al suo posto di telecomando, con una opposizione più che accomodante, inesistente, mentre vengono smontate le garanzie sociali ed i diritti elementari di ognuno, partendo dai gruppi più deboli e "impresentabili" come Rom , immigrati e "devianti" vari. Manderemo l'esercito nelle strade, daremo più galera per tutti, mostreremo i muscoli anche alle elementari col maestro unico, grembiule e moschetto. Eleggeremo il cavaliere a vita, Putin insegna. Faremo un bel federalismo padano, meno tasse per i ricchi meno servizi per i poveri e i terun e i negri si arrangeranno.Qualcuno, è vero, protesterà, ma a parte i soliti quattro sfigati comunisti cancellati dalle mappe politiche, al massimo sarà cura dell'esecutivo di minimizzare e smussare le polemiche pretestuose facendole apparire frutto di equivoci, che insomma l'unione europea non rompa troppo le scatole, tanto il vento sta cambiando in tutto il vecchio continente. Che sarà mai prendere le impronte digitali ai bambini Rom o espellere cittadini comunitari ed extracomunitari a discrezione dell'autorità di polizia e del ministro dell'interno? Numeri, statistiche, carne da macello per i cantieri ed i campi del lavoro nero, e se no, ottimo affare per le città che hanno messo su i CPT ,lager "democratici" ove sono sospesi tutti i diritti ma dove un detenuto temporaneo è un affare per chi gestisce questi centri da 80 euro al giorno, altro che la vecchia e defunta solidarietà, ospitalità, asilo politico....Che poi oramai i disgraziati che arrivano a Lampedusa o in altri centri siano per il 90% esseri umani che fuggono a guerre e disastri, non interessa più a nessuno. Non c'è bisogno di andare nel nord est leghista che ha smontato le panchine affinchè non si ritrovassero gli emigrati o che ne impedisce la preghiera al chiuso o all'aperto. A Siena alla Lizza vengono fatti controlli sempre più asfissianti sulle badanti e altri lavoratori nel giorno di riposo, a Colle Val d'Elsa la costruenda moschea viene vista come fumo negli occhi, ovunque monta la frustrazione di strati popolari sempre più poveri che sfogano la propria rabbia contro gli ultimi arrivati, con ronde fai da te, con roghi di campi nomadi, con insulti e minacce contro tutti coloro che sembrano diversi o non si allineano al sentimento di incarognimento di un paese sempre più vecchio e spaventato, affidato e legato mani e piedi al carro del cavaliere e condottiero.Non vi ricorda qualcosa? La storia insegna ma non ha allievi. Che poi si cerchi di revisionare il nostro recente passato sdoganando fascisti, nazisti, celti e via delirando, non è che la logica conseguenza di un clima di impunità totale per questi tristi e demenziali personaggi. Persino Famiglia Cristiana paventa rischi di fascismo. E mentre questo nuovo fascismo piccolo piccolo ma popolare si afferma, mentre ogni residua decenza cade, e l'intolleranza galoppa,l'opposizione (?) invita alla sua festa ministri, portaborse e scagnozzi del governo, pacatamente, serenamente, magari raccogliendo firme per una bella petizione, perchè non è giusto che faccian tutto loro, e che diamine! Lasceteci collaborare anche a noi, se no che ci stiamo a fare?
Un nuovo ventennio è cominciato, auguri a tutti i resistenti.

18 agosto 2008

Marisa

Marisa era nata di 17, il giorno di S. Antonio, negli anni '20, in pieno regime fascista. Marisa è mia madre, e questo già spiegherebbe tante cose, ma se la voglio ricordare qui lo faccio non solo per semplice amore filiale, ma perchè la sua mi sembra nella ordinaria straordinarietà una storia esemplare, una memoria da non perdere, in un momento buio e con prospettive fosche per un paese che invece la generazione di Marisa riuscì a riscattare dalla dittatura e dalla guerra, dalla fame e dalla povertà. Fino a farne un paese migliore, fino a spezzarsi la schiena purchè potessimo studiare ed avere prospettive per loro inconcepibili. E anche dopo che raggiungemmo l'età della ragione, Marisa e tanti altri continuarono a sacrificarsi per i nipoti, per i quali stravedevano, come è giusto, pur capendo che il vento era cambiato, preoccupandosi dell'arrivo di tempi difficili che mettevano in forse tutto il loro lavoro, tutte le loro conquiste, tutta la loro pazienza, tutte le loro e nostre speranze.
Marisa era rimasta orfana di padre a sei anni. Sua madre era riuscita a farla prendere in un collegio femminile gestito da suore a Siena. Suore di cui serbava un pessimo ricordo: botte, preghiere e fame, tanta fame. E qualche scherzetto, del tipo che un donnone in tonaca la faceva avvicinare mentre si riposava in poltrona in cortile per metterle in mano la gamba di legno. D'altra parte suo fratello più piccolo ospite in un altro collegio riusciva a scappare azionando la sirena antiaerea, facendo poi l'autostop fino a Roma.Settanta anni dopo nello stesso edificio uno dei suoi adorati nipoti si è laureato, e la sua gioia si era mischiata alle lacrime del ricordo.Durante la scuola elementare aveva vinto un viaggio premio a Roma per la migliore poesia sulla primavera, ma sua madre, che già si era rifiutata di donare la fede d'oro alla patria, l'aveva trattenuta a casa, ed al suo posto era partita la figlia di un gerarca. Poi il lavoro a 15 anni alla Bertolli come operaia, fabbrica raggiunta dopo un viaggio in bicicletta di molti km. Il diploma di scuola media preso per corrispondenza, ma mai ricevuto fisicamente perchè la scuola di Bologna era stata rasa al suolo dai bombardamenti. La complicità insieme a tutta la gente del piccolo borgo di campagna che avevano dato rifugio e salvato una famiglia di ebrei fiorentini,che avevano ricambiato cucendo e donando alla comunità una bandiera rossa. Il passaggio del fronte, la resistenza naturale contro le bande fasciste e naziste, la compassione dei ragazzini in divisa, coetanei destinati al macello. E poi il dopoguerra, con il matrimonio con mio padre tornato a piedi dalla Francia dopo l'8 settembre, quella piccola grande foto in bianco e nero con su scritto" ore di incomparabile felicità". Che il loro è stato un amore vero, d'altri tempi, cementato da una vita da costruire insieme, che quando morì mio padre lei si definì una mosca senza capo, che svolazzava ancora solo per forza d'inerzia. Non è stato paradossalmente un buon esempio per me: credevo fosse normale e naturale amare così, ed è stata dura la disillusione della vita. Aveva preso la patente nel ' 53, terza donna in un paese di diecimila abitanti, tra una figlia e l'altro, io. Aveva seguito mio padre in Maremma, vero far west allora, in cerca di un lavoro e di avventura, in paesi fuori dal tempo e per lei esotici come Tatti e Sticciano, Montelattaia e Pian di Mucini, ricevendo l'assegnazione di un podere dell'ente maremma nel '56, durante la riforma agraria, un podere senza acqua luce o telefono, attraversato da una strada polverosa e da torme di cinghiali,riscattato dopo trent'anni di lavoro, modifiche, migliorie. E nel '61 aveva messo su una vera ferramenta da frontiera, dove potevi trovar di tutto, dall'ago per cucire alla motosega, passando per giocattoli e regali di nozze. Le facce dei massetani allibite nel veder una donna sola che gestiva un negozio enorme e scaricava casse e rotoli di rete pesanti anche per un minatore, tanto che qualcuno si rifiutava persino di seguirla in magazzino per sceglier la merce, parendogli sconveniente anche se tra persone sposate. Come quella volta che entrò a mezzogiorno e mezzo nel bar principale del paese per aspettare mio padre, e fu trascinata fuori e redarguita da una vecchia commerciante, che una donna sola non poteva stare in un bar. Ma nonostante certe grettezze e piccinerie di paese ci crebbe insieme a mio padre in un clima di tolleranza e apertura, di fiducia verso il prossimo, di sacralità dell'ospite, di speranza in un mondo migliore, che avremmo cambiato e migliorato come e più di loro studiando e trovando la nostra strada, qualunque essa fosse. E senza mai perdere l'ironia, il sorriso, le battute anche nei momenti difficili. Non le mandava a dire le cose Marisa. Lei che sognava un socialismo moderno e senza ombre, scuoteva la testa per le mie filippiche giovanili iconoclaste, così che la sera che le annunciai dopo una delle tante stragi impunite degli anni ' 70, che andavo ad incendiare qualche sede dei fascisti, mi gelò dicendomi "incendiare il cuore di qualche ragazza forse sarebbe molto meglio, anche se non esente da rischi..." Con mio padre mi ha anche trasmesso la passione per i viaggi ,per le montagne, per le fotografie ed i films. Per i lunghi racconti delle generazioni precedenti,che poi formano la nostra memoria orale da tramandare. Per l'orgoglio forte di far parte di una cultura refrattaria ai padroni o chiese di riferimento, contando sulle proprie forze, sulla propria indipendenza ed autonomia. Per andare controcorrente, sempre. Mi ha insegnato la libertà e l'amore per il prossimo,senza darlo a vedere, e nel modo più naturle, con l'esempio della sua vita.
Giovane tra i giovani, ben al di là dell'anagrafe,Marisa se ne è andata all'improvviso il 17, mentre come al solito lavorava per i figli ed i nipoti, contenta di essere, oltre che autosufficiente, utile, punto di riferimento e saggezza di tutta la famiglia, e nel cuore delle tante, tante persone che aveva avuto la gioia di incontrare e che ancora si ricordano di lei con piacere.

08 giugno 2008

Vittorio, Mostar, il Mir Sada

Durante la guerra di Bosnia un gruppo di amici bergamaschi mise su un gruppo di solidarietà con le genti di Mostar martoriate dalla guerra. A loro ci unimmo dall'alta maremma con il nostro furgone e la nostra voglia di non girare la testa dall'altra parte. L'animatore di questo gruppo, il Mir Sada, fu per anni Vittorio Porretta, una delle persone più generose che abbiamo incontrato nella nostra vita.
Vittorio se ne è andato qualche tempo fa, giovane, presto, troppo presto. Lasciando in tutti noi, al di qua ed al di là di quel ponte di Mostar nel frattempo ricostruito, un gran vuoto. Il tempo passa, ma come uno scalatore che si allontani dalla montagna, ci permette di vedere Vittorio in tutta la sua grandezza. Una lettera in cui lo salutavamo è stata sepolta nel giardino della casetta che ci vide insieme per tante volte a Mostar. Adesso pubblichiamo questo ricordo della sua e nostra amica Romana del Mir Sada.
Ciao Vittorio, sei sempre con noi.
Stefano e Giancarlo

VITTORIO
E' niente, è come noi.
Perchè in realtà noi non siamo niente,nessuno.
Siamo un gruppo di amici che fanno colazione alle sei di mattina in un vecchio e fumoso bar, di un paesino sperduto dal nome impronunciabile, in una terra straniera appestata da venti di guerra.
E' sufficiente che la fotografia di noi vada in mano ad un estraneo perchè cambino le proporzioni.Bastava che ci posizionassimo mezzo metro più in alto di quanto fossimo e chiunque poteva confermarlo: nonostante tutta la grandezza che io sentivo,noi non eravamo niente.
Il nostro amore per la Bosnia ,al tempo, non può ammettere uno sguardo estraneo,disincantato.Si avvilirebbe e morirebbe se solo accettasse questo.
E' accaduto. Forse.
Ma senza dubbio un amore del genere è un grande fatto leggendario,e ogni leggenda,grande o piccola che sia,è di per sè sproporzionata se non la si vive con lo sguardo incantato.
quando ci penso io ho ancora quello sguardo,lo stesso di quella mattina,di molte altre mattine ,pomeriggi,sere: incanto di te, Vittorio, della Bosnia,della vita che si andava sciogliendo da ogni nostro gesto,da quel niente che poteva sembrare all'occhio delle proporzioni,una vastità incolmabile.
Non sto raccontando una storia leggendaria.....la sto vivendo tale e quale la vivevo al tempo in cui si svolsero realmente i fatti.Mi chiedo se questo è bene......e mi chiedo per cosa valga la pena vivere una vita se non per la leggenda che contiene in sè. E tu Vito ne hai colto la grandezza.
"Come sono piccoli gli uomini" si diceva spesso.....e questa piccolezza è la loro grandezza, la tua.
Abbiamo discusso di mille cose,ma non di questo,di chi sei stato tu,Vittorio.
Ho paura di quello che avresti potuto dirmi,di come lo diresti,dell'espressione del tuo viso,del movimento delle tue mani mentre cerchi di dirmi qualcosa prendendoti il tempo per dirmela in modo giusto,con un occhio alla strada e uno a me,sorridevi, e questo bastava.
Dove siamo arrivati amico mio...........
Quanta strada anche oggi,il destino ci ha riunito oggi,per poi risepararci alla fine della strada.......
Siamo arrivati in Bosnia per caso,per un tuo sogno un progetto,per la tua forza di volontà..........
Tutto il tempo trascorso insieme, rubandolo alla routine delle nostre vite,è rimasto in me lasciando un dolce riverbero.
Possedevi per natura un ottimismo e una forza che ti permettevano di non mostrare agli altri i tuoi momenti di debolezza interiore,andando avanti per la tua strada senza paura.......
Ma io i tuoi occhi lucidi me li ricordo,me li ricordo bene, mentre guidavi e dicevi quello che non eri riuscito a fare per quella gente.......pensavi,lo chiamavi il resoconto, esame di coscenza del viaggio.......
Trattenevi le lacrime,ti tremava la voce..........
Grazie per aver condiviso con me le tue fragilità,che a guardar bene a volte erano simili alle mie...........
Molti viaggi, molta strada alle spalle,e molta ad attenderci nel futuro,una parte l'abbiamo percorsa insieme,io,te,tanti amici,pochi quelli veri, che hanno saputo capire le tue ragioni,i tuoi istinti,i tuoi silenzi.
Qualcosa è andato storto,sono cambiate le proporzioni,alcuni amici sono diventati estranei.......hanno strappato la fotografia, tu eri al centro dello strappo..un gruppo.....due anime.Te ne sei andato piano piano,senza far rumore,lo sapevi fin dal principio............
Avevi insistito perchè io imparassi il tuo ruolo, perchè hai scelto me?
Mi hai affidato ciò che avevi iniziato,un tuo sogno, per qualche anno sono andata avanti,ma poi ho dovuto abbandonare l'eroico fardello affidatomi,ero sola, per un pò ci sono stati Oscar,Francesco e Andrea, ma poi uno alla volta hanno lasciato il gruppo......Non avevano più nulla in comune con le nuove idee di politica degli aiuti, avevo paura di morirne schiacciata,propio come te.
La leggenda a poco a poco sbiadiva..........
Conservo ancora la fotografia.La cosa buffa è che per metà è sbiadita,per metà è viva.La parte sbiadita è quella della carovana che ha scelto una strada diversa dalla nostra, quella faticosa ricca di sapere e conoscenza,che costa in tempo e denaro.Hanno scelto l'autostrada, dritta e senza curve.
Ora qualcun'altro ha scelto per noi, per te...........
Abbiamo percorso tanta strada. L'ultimo pezzo insieme è stato il più duro,il più doloroso,ti sei fermato a riposare,io sto ancora camminando con te nel cuore.
Buon viaggio Vittorio, buon cammino ovunque tu vada,forse un giorno potremo incontrarci di nuovo lungo la strada.
Tu hai vissuto in pieno la leggenda della tua vita, non saremo mai famosi per questo, nessuno ci costruirà statue,ci darà medaglie,ci farà un film....
Non eri uno stinco di santo, e nemmeno io, ma quello che abbiamo avuto nessuno potrà togliercelo mai.
ti voglio bene
Romana

17 maggio 2008

Brava Gente

Brava gente

di Alberto Prunetti

campo.jpg[Pubblico queste righe con un certo ritardo rispetto alla loro stesura. Il lettore, pensando ai pogrom in corso contro i rom, non potrà non rendersi conto che la realtà si deteriora con più velocità della critica che cerca di descriverla. Mentre scriviamo di razzismo mimetizzato e di lessico dell’esclusione, la gente si attacca ai microfoni dei telegiornali vantandosi di aver lanciato una molotov in un campo rom. Non oso pensare di peggio per paura che accada.] A.P.

“Non sono razzista, ma…” Quanti discorsi balordi partono da questa premessa? Quanti pregiudizi, quanti stereotipi, quanta biliosa aggressività muove da questo assunto? Nient’altro che una strategia retorica? Rendere esplicito il pregiudizio per giocare d’anticipo su un’eventuale contestazione e poi sparare giù il carico di banalità, che è banale proprio nel senso che è condiviso dal senso comune, è amplificato dai media, è asserito da presunti esperti delle dinamiche sociali?

Ogni giorno il ritornello sale d’un ottava. “I rumeni vengono qui per delinquere”, “le ucraine sono brave a fare le badanti ma poi si fregano l’eredità”, “i colombiani fanno i corrieri della cocaina”… un carico di generalizzazioni che si affaccia da titoli di giornali, da lanci televisivi di prima serata, supportati da esperti in sondaggi che gabellano quattro domande preformulate come un’operazione di statistica.

La verità è che nessuno si dice razzista ma… Di fatto, argomenta Giuseppe Faso in un piccolo e brillante compendio del razzismo dissimulato (Lessico del razzismo democratico, Deriveapprodi, 2008), oggi si dice etnia o cultura, ma si intende razza. Si dice integrazione — parola terribile, di per sé — ma si pensa assimilazione. O, verrebbe da aggiungere, espulsione e annientamento.

Formalmente oggetto d’interdizione, il razzismo si insinua nel linguaggio, strutturando una grammatica dell’esclusione sociale che si basa su espedienti retorici estremamente diffusi. Faso illustra alcune di queste pratiche, come i neologismi (es.: badante), gli slittamenti semantici (es.: degrado), le denotazioni improprie (clandestino, alfabetizzazione, disperati), le connotazioni spregiative (vu comprà, marocchino, extracomunitario).

Pratiche più che lemmi, appunto, nel senso che le parole si fanno azioni e strutturano la realtà, la segmentano e circoscrivono le vite di chi quelle parole le usa o se le trova, suo malgrado, appiccicate addosso. Motore primo di tanta misera retorica è sicuramente il sistema dei mezzi di comunicazione.

Imbrogliando le carte, urlando continuamente al lupo, soffiando sul fuoco del rancore italiota, della paura tutta provinciale verso lo straniero, soffocando l’immagine di un paese composto da tante culture e costruendo una presunta identità nazionale assolutamente fittizia e sicuramente deplorevole, i media hanno innescato il detonatore del linciaggio. In buona compagnia. Alla chiamata alle armi non si sono presentati solo leghisti mannari e xenofobi ultradecorati. La sinistra non poteva rimanere indietro e Veltroni, dalle pagine di Repubblica, mostrava comprensione per un cittadino impaurito colto da sindrome razzista. Ultimi ma in corsa, come il cavallo avvantaggiato del palio, arrivarono i campioni del razzismo colto. Quello che costruisce il migrante in termini di alterità culturale. Quello che non si sente sicuro a uscire di casa. Quello che chiede la certezza della pena.

Quanto alle elezioni, non potevano che spingere l’acceleratore del conformismo più becero, alimentando il cortocircuito tra la chiacchiera da bar e i programmi televisivi del pomeriggio, con conseguenti esplosioni a catena di luoghi comuni riprodotti come profezie che si autorealizzzano. Così la balordaggine della casalinga di Voghera si vede giustificata dallo sproloquio dell’opinionista di turno, che a sua volta cita l’avvinazzato opinionista del bar sport all’angolo, sdoganando una bischerata come credenza di un campione rappresentativo. Quel che pensano gli italiani, insomma.

Il risultato di tutto questo, dai giorni successivi alla morte della signora Reggiani fino alle elezioni, è stata una situazione pesante e surreale, che produce migranti più impauriti e ricattabili e italioti sempre più spaventati e rancorosi, mentre le campane dei media tuonano a morto e le pratiche di libertà si restringono per tutti, in termini di mobilità, repressione, sanzioni. La scusa è sempre quella: l’emergenza. Un elemento, quello emergenziale, che sembra paradossalmente strutturale alla realtà italiana. Così l’emergenza migrazione si intreccia con quella della spazzatura, con quella degli stupri, del degrado, del bullismo, del terrorismo, delle stragi del sabato sera, dei lavavetri, dell’accattonaggio… e chi più ne ha più ne metta. L’importante è creare un polverone e sbrigarsi a buttar giù una legge. Quanto prima tanto meglio. Quanto peggio, in termini di politiche sociali, tanto meglio in termini di politiche repressive. Risultati che non possono che essere devastanti, e lo dimostra il caso delle migrazioni, in cui politiche bieche creano e alimentano quei fenomeni di clandestinità che pretenderebbero di combattere. Che importa se una pessima legge creerà problemi sociali? Tanto meglio. Sarà l’occasione per smuovere le acque, fare propaganda, accusare gli avversari politici di lassismo, per poi fare un'altra legge, peggiore della precedente. E via di questo passo, in un gioco vizioso che pretende di governare la realtà e che produce sempre più alienazione, paura e marginalità. Miseria per gli esclusi e paura per gli inclusi, insomma. O viceversa.

Fino a oggi. Il dado ormai è tratto e i veleni carichi di rancore in fermentazione non ci metteranno molto a incendiarsi, alimentando l’ennesima caccia allo straniero, al diverso, a quello che non appartiene alla tribù. Aspettando nuove leggi razziali e l’allungamento dei tempi di detenzione nei campi di concentramento dei migranti ci penseranno gli italiani, brava gente, a risolvere a modo loro le sfide del multiculturalismo. Almeno la pulizia etnica diventerà un dovere civico nel bel paese sommerso di spazzatura, con buona pace di sindaci e assessori che non potranno non complimentarsi con i cittadini, che in materia di lotta contro il degrado e tolleranza zero, sanno fare meglio e prima della polizia municipale.

Pubblicato Maggio 15, 2008 01:55 PM | www.carmillaonline.com

11 maggio 2008

Cuba que linda es Cuba

Cuba que linda es Cuba

di Alberto Prunetti

cubapacini.jpgStefano Pacini, Cuba que linda es Cuba, Edizioni Il Foglio, 2008 (pp. 92, con CD, euro 15).

Una bella notizia questa della riproposizione del reportage fotografico di Stefano Pacini su Cuba da parte delle edizioni Il Foglio. Il testo raccoglie le fotografie e un diario di Pacini e a corredo viene allegato un CD con la versione elettronica delle istantanee. L’autore, Stefano Pacini, è un fotografo che dagli anni Settanta si è dedicato alla fotografia sociale, dirigendo il proprio obiettivo sia verso i luoghi delle rivolte e delle feste popolari, sia nella documentazione del disagio sociale e degli effetti distruttivi di un’epoca sempre più vile.

Fedele al bianco e nero analogico e alla pellicola ad alta sensibilità, Stefano Pacini ha fotografato il Portogallo della rivoluzione dei garofani del 1974-75, la Bosnia degli anni della guerra nei Balcani, ma anche le manifestazioni femministe per l’aborto, il Movimento degli anni Settanta, le contestazioni al G8 di Genova, la vita di alcuni gruppi Rom dalla Camargue alla Calabria. E poi i Sassi di Matera, i mulattieri maremmani, le figure dimenticate delle province italiane. Queste ultime foto erano state raccolte nell’opera «Sleeding Doors, frammenti dell’Italia che cambia» del 2002 assieme ad altre istantanee che documentavano i non-luoghi dell’alienazione moderna, l’incubo di plastica di vetrine, manichini, lavaggi automatici aperti 24 ore su 24. Un’opera che non aveva avuto altra distribuzione che quella del passamano informale dell'Associazione culturale Il Fondo e del gruppo Fotografi Contro (un gruppo di fotografi coi quali Pacini tiene corsi di fotografia nei locali della Corte dei miracoli di Siena).

Di taglio diverso il lavoro su Cuba, germinato comunque da Sleeding Doors: Pacini è andato a presentare, grazie a un passaggio via nave da Livorno, la mostra delle foto di Sleeding Doors a La Habana e in quell’occasione ha scattato le istantanee che adesso l’editore de Il Foglio (a cui bisogna riconoscere il merito di pubblicare questo libro pure se la sua opinione su Cuba non coincide con quella dell’autore) dà alle stampe assieme agli appunti di viaggio del fotografo. Un viaggio nella Cuba moderna, dentro e fuori gli stereotipi sull’isola, inseguendo nostalgie tropicali ed echi politici e letterari. Un viaggio da rifare, prima che la cosiddetta democrazia – tanto attesa dagli investitori turistici – non trasformi l’isola nell’ennesimo paradiso di plastica.

[PS: Una curiosità. Per risparmiare il fotografo – all’epoca in ristrettezze economiche e da sempre privo di sponsor – ha soggiornato sull’isola nutrendosi quasi esclusivamente di banane, riso e fagioli.] A.P. www.carmillaonline.com

09 maggio 2008

il salone del libro contestato

Il Salone di Torino contestato

di Valerio Evangelisti

BersaglioIsraeliano.jpg[Questo intervento coinvolge solo chi lo firma. Altri redattori di Carmilla, con cui non è stato discusso, hanno forse punti di vista e opinioni divergenti.]

Il 10 maggio ci sarà, a Torino, una manifestazione nazionale contro il Salone del Libro di Torino. Credo che sia la prima volta che viene indetto un corteo contro una fiera letteraria. Eppure, prima di chiedersi se ciò abbia un senso, ci si dovrebbe domandare quanto di effettivamente letterario ci sia nel Salone del Libro, e quanto invece vi sia di politico.
La scelta della Salone del Libro di Torino di celebrare la nascita dello Stato di Israele, alla base della protesta, ha origini sospette e contenuti ambigui.

Non è normale che a proporre (imporre?) l'evento alla Fiera del Libro di Torino e al Salone del Libro di Parigi sia stato lo stesso governo israeliano. Di solito, eventi del genere sono proposti dal Ministero della Cultura di un paese, dall'associazione degli editori o da organi simili.
Non è normale che gli autori invitati, per partecipare al Salone di Parigi, abbiano dovuto sottoscrivere una dichiarazione con la quale si impegnavano a non criticare il loro governo (vedi qui).
Non è normale fingere di ignorare che la data del 1948 celebra sia la nascita di Israele che la cacciata di centinaia di migliaia di palestinesi, con il terrore, dai luoghi in cui vivevano da secoli. Ciò è stato ampiamente documentato, tra gli altri, dallo storico Benny Morris (per inciso, israeliano e nazionalista) nel suo libro The Birth of the Palestinian Refugee Problem, Cambridge University Press, 2004, sulla base di una massa di documenti (si veda anche E.L. Rogan, A. Shlahim ed., The War for Palestine. Rewriting the History of 1948, Cambridge University Press, 2001). Celebrare un evento significa celebrare anche l'altro, concomitante.
Non è normale che la celebrazione della nascita di uno Stato - cosa abbastanza incongrua in una manifestazione letteraria - avvenga proprio mentre quello Stato, reduce dai bombardamenti sul Libano che nessuno ha dimenticato, attua su Gaza la più feroce delle sue azioni di strangolamento, tagliando l’elettricità, i rifornimenti alimentari, i medicinali e impedendo persino il transito delle ambulanze (già 130 palestinesi di ogni età, ammalati gravi, sono morti per questo).
Si dirà che a Gaza predomina Hamas. E' vero, ma proprio Israele ha incoraggiato la crescita di Hamas, quando le serviva per logorare le altre forze palestinesi. Si veda J. Dray, D. Sieffert, La guerre israélienne de l'information. Désinformation et fausses symétries dans le conflit israélo-palestinien, La Découverte, Paris, 2002, pp. 53 ss. La stessa azione ha svolto l'assieme dell'Occidente. Lo ha documentato, tra molti altri, Alain Gresh, in una serie di articoli su Le Monde Diplomatique - per esempio questo. Gresh, sia detto per inciso, è di origine ebraica.
Non è normale, anche se rientra nel novero della mera goffaggine, tirare uno schiaffo all'Egitto, ritirando all’ultimo momento l’invito che gli era stato rivolto, sia pure informalmente.

La storia dei governi di Israele successiva al 1948 non è tanto più gloriosa, malgrado l'epica che le è stata costruita sopra.
Da ragazzino fui ingannato anch'io, e credetti che la "guerra dei sei giorni" fosse stata combattuta dal Davide Israele contro un Golia rappresentato dai paesi arabi aggressori. Persino questa realtà un tempo certa appare dubbia, dopo il libro di Benny Morris Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001. Ed. Rizzoli, 2001. Ciò che seguì è noto e non sto a riassumerlo. Una serie ininterrotta di espansioni territoriali giustificate con l’invocazione di un perenne “diritto all’autodifesa”.
Mi preme solo sottolineare, perché poco nota, l’azione internazionale svolta dallo Stato di Israele in quadranti del mondo estranei ai conflitti in cui era coinvolto.
Israele ha sempre sostenuto i Duvalier di Haiti, padre e figlio. Ha inviato armi e consulenti in Guatemala, in Honduras e tra i contras che attaccavano il Nicaragua sandinista. Ha tuttora forze consistenti impiegate nella sanguinosa antiguerriglia del presidente colombiano Uribe. Per non parlare del costante sostegno israeliano al Sudafrica pre-Mandela e ad altri regimi reazionari africani.
Del resto il regime interno israeliano, malgrado le apparenti forme democratiche, somiglia tantissimo all'apartheid del vecchio Sudafrica. Nessun arabo palestinese inglobato fin dal 1948, pur avendo cittadinanza israeliana da decenni, è ammesso nell'esercito, per dirne una. Il resto lo lascio alla testimonianza di un israeliano coraggioso, Yoram Binur, che si finse palestinese e in un libro, Il mio nemico, ed. Leonardo, 1981, narrò la sua esperienza terrificante. Binur non è affatto un filo-palestinese, tutt'altro. Si limitò a raccontare la verità.
Una verità che non ha fatto che peggiorare. E' sotto gli occhi di tutti lo scandalo degli insediamenti di coloni ebraici in Gaza e Cisgiordania. Quanto più Israele si impegnava ufficialmente ad abbatterne, tanto più se ne costruivano. Ciò in nome del sempiterno richiamo al "diritto di Israele alla sopravvivenza", alibi per commettere crimini d'ogni tipo chiamati “autodifesa”.
E' vero che frazioni di palestinesi, nella loro storia, si sono macchiate e si macchiano di eccessi sanguinosi, però non è superflua la domanda: chi ha cominciato? La Seconda Intifada iniziò con ragazzini che tiravano sassi. Solo dopo che quasi cento palestinesi erano morti, inclusi molti bambini, cadde il primo israeliano.
Analogamente, il "terrorismo palestinese" su larga scala nacque verso il 1968, venti anni dopo il terrorismo israeliano sui palestinesi e lo svuotamento della Palestina dalla sua popolazione originaria.
Attualmente, oltre a strangolare Gaza e Cisgiordania, il governo di Israele ha cominciato a infierire anche sui palestinesi che hanno la sua cittadinanza.
Creato il nemico, spintolo all'integralismo islamico, riaffiorano i propositi di cancellarlo per sempre, proprio come etnia. Persino alcuni ministri israeliani ne parlano senza riserve.
E questo lo Stato cui il Salone del Libro di Torino intende rendere onore, celebrandone la nascita: una specie di apologia del colonialismo moderno.

E ora veniamo al tema degli scrittori. La protesta contro il Salone del Libro di Torino equivale a una condanna al rogo di autori e opere?
Già una selezione di scrittori imposta dal governo Olmert, dalle sue ambasciate e dai suoi uffici di propaganda, dietro sottoscrizione (almeno a Parigi) di un impegno a non criticare le proprie autorità nazionali, risulta sospetta.
Si obietterà che gli scrittori israeliani popolari in Europa sono notoriamente “dissidenti”. Grande abbaglio. I nomi più illustri circondati da tale fama, Grossman, Oz, Yehoshua, si sono pronunciati a favore dei bombardamenti sul Libano (Grossman con tardivi ripensamenti) e, nel caso di Yehoshua, a favore del "muro della vergogna". Quest'ultimo ha anzi dichiarato a un quotidiano italiano che non vorrebbe mai avere un arabo per vicino di casa. La loro indipendenza dal potere è una leggenda che circola solo dalle nostre parti. Non è un caso se altri importanti scrittori israeliani, come Benny Ziffer, responsabile del supplemento culturale del quotidiano Haaretz, non solo hanno denunciato l’atteggiamento di Grossman e compari, ma, per primi, hanno incitato a boicottare i Saloni di Parigi e Torino (vedi qui). Lo scrittore Jamil Hilal, di cui Ernesto Ferrero aveva preannunciato la presenza a Torino, ha replicato molto seccamente: “Non parteciperei in alcun modo a un evento che legittima l'occupazione coloniale di Israele e lo strangolamento dei palestinesi della Striscia di Gaza, e in un'occasione che segna la sottrazione della terra e la pulizia etnica del popolo palestinese.”

La cultura ebraica in tutto ciò non c'entra nulla. L'ebraismo non è una razza, bensì una religione con la serie di tradizioni che l'accompagnano. Se vogliamo “un popolo”, però alla luce di quelle tradizioni, non di connotazioni etniche. Gli ebrei, nel mondo, hanno posizioni molto diverse. Tanti israeliani spesso non hanno religione alcuna, e sono classificati come tali per via delle credenze dei genitori. Tel Aviv è una delle città più laiche al mondo.
Qui non si parla di ebraismo, bensì di geopolitica. Certo, contro chi critichi la politica del governo israeliano scatta regolarmente l’accusa di antisemitismo. Accusa che ha smontato con molta efficacia l’ebreo americano Norman G. Finkelstein in uno studio molto accurato: Beyond Chutzpah. On the Misuse of Anti-Semitism and the Abuse of History, University of California Press, 2005.
Al di là delle singole personalità partecipanti, la protesta che investe il Salone del Libro di Torino non è contro autori e opere, né tantomeno contro "gli ebrei", ma contro un'operazione propagandistica concordata tra governi.

Aggiungo alcuni elementi.
Di recente, lo storico e scrittore israeliano Ilan Pappé (di lui si veda, tra l’altro, A History of Modern Palestine, Cambridge University Press, 2004) è stato costretto, per le minacce che riceveva in Israele, a lasciare la cattedra che occupava presso l'università di Haifa e a trasferirsi in Inghilterra.
Propugnava la convivenza pacifica tra israeliani e palestinesi.
Potremmo dirlo fortunato. Se non altro si è salvato la vita. I vari governi israeliani hanno assassinato moltissimi scrittori, poeti, intellettuali palestinesi, da Ghassan Kanafani, a Wael Zwaiter, traduttore in italiano de Le mille e una notte (Alberto Moravia, che gli era amico, dedicò alla sua scomparsa uno dei suoi articoli migliori), a Naïm Khader, che era solo un uomo di pace. Più decine di altri, uniti dal torto di dare alla causa palestinese un’intelligenza.
Domanda: è giusto glorificare in un Salone del Libro uno Stato (non una "cultura", ma una successione di governi ispirati alle stesse linee) che esilia scrittori propri ed elimina, tramite sicari, scrittori appartenenti a una diversa etnia che si intende cancellare?
Io lo trovo disgustoso.

PS. Tutti gli autori citati nel mio pezzo, nessuno escluso, sono israeliani oppure ebrei, a volte di nascita e a volte di religione.

da carmillaonline.com

19 aprile 2008

Cronaca di un disastro annunciato

La storia alle volte si ripete, ma come diceva Gramsci, non ha scolari. Ed in più in Italia il passato non passa mai. Dopo il cavalier Benito Mussolini, il cavalier Silvio Berlusconi, inaffondabile. Dopo la disfatta del 1972 con i fascisti all'8 % e con due milioni di voti dispersi a sinistra, quella del 2008, con tre milioni di renitenti o penitenti dalla sinistra al pd o alla lega. Dopo la batosta del 1948, con la maggioranza assoluta alla DC e 20 anni di purgatorio per la sinistra, la disfatta del 2008, con una generazione di cinquantennni improvvisamente ritornati giovani ed extraparlamentari. Non c'è niente da fare: l'Italia provinciale destrorsa e bigotta delle piccole patrie e vallate quando la situazione si fa grave sente il richiamo della foresta e del portafoglio, dell'ordine, delle mafie e delle tv del grande imbonitore. E del resto; perchè votare la brutta copia democratica quando il leghista di quartiere intercetta i sentimenti popolari più grevi e ( una volta) indicibili? Veltroni al massimo potrà dire come sei mesi fa che i romeni sono delinquenti, mentre Fini chiederà 200000 espulsioni e la lega prometterà quartiere per quartiere di cacciare topi e zingari. Infatti Tosi condannato per incitamento al'odio razziale viene eletto sindaco di Verona ( non di un paesino della Val Brembana). Questo è lo specchio dell'Italia 2008. Un partito radicato nel territorio ( la lega) che raccoglie i frutti del suo lavoro capillare ancorchè criminale ( ma con un premier come Berlusconi rieletto a vita in pratica, di che stupirsi?). Altri partiti una volta gloriosi dopo il radicamento nei salotti di Vespa, giustamente spariti; a casa! Il pd che fa il pieno possibile e che riscuote un successo forte solo nelle regioni anch'esse identitarie del centro, Toscana in testa. Ma con scarse prospettive future, specie se il cavaliere riuscirà in qualche modo e grazie alle congiunture internazionali a gestire la crisi.
Un bagno di umiltà e ricominciare quasi da zero il lavoro dal basso nella società. Questa è forse l'ultima speranza di riannodare un filo rosso che oggi sembra spezzato e smarrito nel grigiore dell'esistente. Lo dobbiamo in memoria delle lotte dei nostri padri, e magari, sperando si sveglino, per il futuro dei nostri figli. Se proprio si deve volar bassi, meglio uno Zapatero oggi che un Veltroni do/mai.

28 marzo 2008

Il cuore del presente

di Sandro Mezzadraelezioni1.jpg

Non v’è dubbio che abbia ragione Giacomo Marramao (“il Manifesto”, 17 marzo): “è impossibile afferrare il cuore del presente senza sottrarlo al rumore dell’attualità”. E tuttavia, mi si consenta il gioco di parole, il presente resta il cuore del problema. Il presente: ovverosia le tensioni che lo segnano, i rapporti di dominio che lo organizzano, il “rumore sordo della battaglia”, per citare Michel Foucault, che si combatte in una dimensione diversa da quella da cui proviene il “rumore dell’attualità”. Il presente: ovverosia i salari che non consentono di arrivare alla fine del mese, la precarietà e l’attacco alla 194, ma anche le pratiche con cui i soggetti dominati e sfruttati conquistano quotidianamente spazi di libertà e di uguaglianza.

Ecco: a me pare che di questo presente si senta parlare davvero pochissimo nel “dibattito” che sta svolgendosi a “sinistra”, e in particolare sulle pagine del “Manifesto”. Il “rumore dell’attualità” lo ha dominato in una prima fase, quando ad appassionare il ceto politico dei quattro partiti (partiti? È un “partito” la “Sinistra democratica”? Mah…) che hanno dato vita alla Sinistra arcobaleno è stato il tema della composizione delle liste. Nessun moralismo al riguardo, sia chiaro: la politica è fatta anche di queste cose, ci mancherebbe. Ma quando è fatta solo di queste cose, c’è da preoccuparsi. E chiunque abbia avuto la ventura di ascoltare anche solo un paio di aneddoti sulle riunioni da cui sono emerse le liste della Sinistra arcobaleno sa bene che la preoccupazione è più che giustificata.
elezioni08.jpg
Ma ora le liste ci sono. Ed è cominciato il “dibattito”. Vi ha fatto capolino il “cuore del presente”? Non direi. Al suo posto sono subentrati un paio di fantasmi: il fantasma della Politica e il fantasma della Sinistra, con le iniziali rigorosamente maiuscole come ai fantasmi si conviene. Altre volte, nella storia moderna, attraverso figure fantasmatiche e spettrali si è cercato di nominare (perfino di “afferrare”) il cuore del presente: mi vengono in mente, per fare qualche esempio, alcune tragedie di Shakespeare, il Manifesto del partito comunista e un paio di scritti di Freud. Non mi pare che questo stia avvenendo oggi nel “dibattito” in questione. Dal presente i fantasmi ci strappano per ricondurci verso passati più o meno lontani, verso quelle che sempre più appaiono come mitiche “età dell’oro”. Dai due fantasmi dominanti (quello della Politica e quello della Sinistra) si genera allora tutto un corteo di spiritelli, tra loro ora in competizione, ora solidali: la Costituente, i “partiti di massa” (anche la DC, per carità), la “programmazione economica” durante il primo centrosinistra, l’FLM (sarà bene specificare: è la sigla con cui all’inizio degli anni Settanta si unirono i sindacati metalmeccanici di CGIL, CISL e UIL) e via fantasticando. Diceva Goethe, citato in esergo da Freud nella Psicopatologia della vita quotidiana: l’aria è così piena di spettri che nessuno sa più come evitarli.

Sono solo tre esempi, molto diversi tra loro come si era promesso. E va da sé che si potrebbe continuare a lungo. Ma non è il caso. Il punto è sempre quello proposto da Marramao: afferrare il cuore del presente. E a me pare che il “dibattito” apertosi a “sinistra” si tenga rigorosamente a distanza da questo punto cruciale. Anzi: mi pare che riproduca un abito di pensiero, uno “sguardo” sui conflitti contemporanei, un immaginario che militano rigorosamente contro la possibilità di afferrare il cuore del presente; che popolano quest’ultimo di fantasmi da cui chi li prende sul serio, come si è detto, è costretto a rivolgere il proprio sguardo a un passato più o meno mitizzato, finendo per risultarne ipnotizzato e paralizzato. Poi magari una ragazza ventenne che ha sentito parlare dei fantastici anni del primo centrosinistra va al cinema, vede sfilare nello splendido film di Alina Marazzi, Vogliamo anche le rose, le icone patriarcali di quegli anni, e si sveglia. Facevano proprio così schifo quegli anni? Sì, facevano schifo. E ci sono volute la rabbia, l’indignazione e la violenza (ripeto: la violenza) di operai e studenti, di donne che non ne potevano più, perché si cominciasse a respirare un’aria diversa. Il Sessantotto di cui tanto si parla oggi è stato questo, un diverso sguardo sul presente nato dalle lotte e dalle tensioni di quel presente, divenuto di massa e capace di produrre nuova libertà e nuova uguaglianza: si consenta di dirlo a uno che in quell’anno aveva appena cominciato le elementari, e che ha sempre avuto una coscienza precisa del debito enorme contratto con quegli operai, con quegli studenti, con quelle donne.

Non abbiamo bisogno di miti, neppure di quello del Sessantotto così riletto. Ma abbiamo bisogno di nuove parole, di nuovi sguardi, di nuovi immaginari. Abbiamo bisogno di leggere la domanda di massa (che c’è) di una politica (con la p minuscola) nuova, abbiamo bisogno di individuare obiettivi per cui mobilitarsi davvero, che parlino ai comportamenti, ai desideri di liberazione, alle lotte che sono il cuore del nostro presente. E che cosa ci dice l’ineffabile Fausto Bertinotti dalle pagine del “Manifesto” (forum del 9 marzo)? Tra le altre cose, che dopo le elezioni la sinistra “avrà una scelta quasi obbligata”: quella di lottare per “la centralità dei partiti in una repubblica parlamentare e proporzionale”. Mi scusi, Presidente, ho capito bene? La “centralità dei partiti”? È questo il suo modo, doloroso e tormentato come è nel suo stile, di “uscire dal Novecento”?ja-stick.jpg Wow… Sul Novecento si sono dette un sacco di sciocchezze negli ultimi anni: ma la “centralità dei partiti”, così come l’abbiamo conosciuta nell’ultimo secolo, quella sì è finita per sempre. Lo pensano Obama e Veltroni, ma se ne sono ben resi conto Chávez e Morales, caro Bertinotti.
Votate pure per chi vi pare, il 13 e il 14 aprile. Ma i problemi sono altri. E come sempre abbiamo fretta, il tempo è una risorsa scarsa per chi vuole cambiare il mondo (permettete anche a me di dire un’enormità, tanto in giro si sprecano…). Ecco, il “dibattito” che si è aperto da un paio di settimane a “sinistra” in questo Paese mi pare una colossale perdita di tempo. When the earth moves again, cantavano i Jefferson Airplane un sacco di anni fa: quella, la terra, non ha mai smesso di muoversi. Basta saper guardare.

www.carmillaonline.com

21 marzo 2008

Non è mai troppo tardi....

Genova, il dossier dei pm: nella caserma
tutti sapevano e tollerarono violenze disumane

"Torture e impunità
nell'inferno di Bolzaneto"

di MASSIMO CALANDRI


"Torture e impunità
nell'inferno di Bolzaneto"

GENOVA - Nella memoria dei pubblici ministeri di Bolzaneto, il termine Duce compare 48 volte. Mussolini, 8 volte. E 28 Pinochet, 9 Hitler, una Francisco Franco. Nelle 791 pagine consegnate ieri durante il processo al carcere speciale del G8, si ripetono all'infinito quattro sostantivi: rispetto, legalità, difesa, pietà. Ma queste sono parole, scrivono i pm, "cancellate dalla semplice crudeltà dei fatti".

Parole annullate da "comportamenti inumani, degradanti, crudeli", dalla "sistematica violazione dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali". Dalle violenze, dagli abusi psicologici, dalle minacce, dalle privazioni, dalle offese: tutte accompagnate da un costante richiamo fascista, con i detenuti costretti ad urlare "Viva il Duce!" e ad esibirsi in umilianti sfilate con il braccio teso in un grottesco saluto romano, mentre un telefonino rimanda sinistra la musica di Faccetta Nera. "Bastardi rossi!". "Voi, dei centri sociali!". "Ebrei di merda!". "Zecche comuniste!". "Bombaroli!". "Popolo di Seattle, fate schifo!".

Luglio 2001, tortura
Tre giorni e tre notti che "non potranno essere dimenticati", spiegano i pm Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati, ben sapendo che da sette anni c'è chi gioca col calendario e fa spallucce, contando sulla prescrizione. E però resta questo sofferto documento, di sette capitoli. Che risponde a due istanze fondamentali. La prima è di ordine tecnico-giuridico: fornire le prove inconfutabili di ciò che è accaduto, usando le parole delle vittime e chiarendo perché sono attendibili dalla prima all'ultima parola. La seconda è lasciare un documento storico. Esemplare. Una memoria, appunto, proprio perché nessuno dimentichi. Con l'augurio che il reato di tortura - "questo fu, a Bolzaneto" - venga un giorno disciplinato dal nostro codice penale.

Un capitolo, il terzo, è dedicato alle deposizioni dei 209 fermati. Indicati uno per uno. Nome, cognome, scheda segnaletica, fotografia, impronte. È un lungo racconto dell'orrore, basta pescare a caso. Nicola N., Siena, 1981: "Nel corridoio già dall'arrivo deve camminare a testa bassa. Prima di farlo entrare in cella lo fanno inginocchiare davanti alla cella e gli danno due pugni in faccia ed un calcio. Deve stare in piedi con le mani legate dietro alla schiena, ad un certo punto in ginocchio. Ad ogni spostamento viene colpito con calci, pugni, schiaffi colpi a mano aperta nella schiena e ginocchiate nello stomaco. Gli agenti gli dicono di tenere la testa bassa perché è un essere inferiore e non degno di guardarli in faccia, che è una merda e che con Berlusconi possono fare quello che vogliono".

"Ti piace il manganello?"
Ester P., Pinerolo, 1980: "Durante il passaggio nel corridoio riceve calci e sberle al passaggio, e insulti. "Puttana, troia". In bagno l'agente-donna le schiaccia la testa verso il basso sino a quasi toccare la turca mentre dal corridoio gli agenti la insultano con parole: "Puttana, troia, ti piace il manganello?". Dalla cella vede un ragazzo nel corridoio colpito con manganellate ai testicoli. In infermeria deve spogliarsi completamente e la fanno uscire nel corridoio in mutande e reggiseno. Prima della traduzione degli agenti con divisa grigia la fanno mettere in fila con gli altri e fanno fare loro il saluto romano, cantare "Faccetta Nera" e dire "Viva il Duce"".

Il taglio del codino
Adolfo S., spagnolo, Reicon de Olivedo, 1970: "Nel corridoio lo mettono in piedi contro il muro e mentre è in questa posizione descritta, gli agenti gli tagliano il codino. In bagno viene nuovamente percosso con la porta dello stanzino e dove gli agenti buttano nella tazza il codino tagliato e lo obbligano ad urinarvi sopra. Mentre è in corridoio viene riconosciuto da un agente che lo aveva identificato per strada che chiama un collega; lo portano poi in bagno, gli danno due forti colpi, lo chiudono nello stanzino e continuano a colpirlo; poi un agente, che a lui pare indossare la divisa dei carabinieri, gli mostra un distintivo e gli dice: "Avete ucciso un mio collega". Trascorre la notte al freddo, senza cibo e senza acqua e continua a ricevere colpi sino a che al mattino viene portato via".

"Non rivedrai i tuoi figli"
Valerie V., francese, Perpignan, 1966: "Fanno pressione per farle firmare un documento, le danno colpi a mano aperta sulla nuca, le mostrano le foto dei figli sul passaporto e le dicono che se non firma non li avrebbe più rivisti. Riceve anche insulti del tipo: "Comunisti, rossi". Sente urla dal corridoio e da altre celle, e supplicare. Sente che gli agenti fanno versi gutturali come di animali. Ricorda in cella chiazze di sangue e di vomito, e sente odore di urina. Non le danno da bere né da mangiare. Riesce a bere solo un po' d'acqua da un lavandino, prima di essere picchiata. Ricorda una ragazza americana in cella con lei, Teresa. Viene ammanettata con lei. La rivede nel carcere di Alessandria, e questa volta ha lividi su tutto il corpo".

L'impunità
Non ci furono casi isolati, scatti improvvisi di rabbia. I pm spiegano che "l'istruttoria dibattimentale ha dimostrato una pluralità di comportamenti vessatori perduranti nell'arco di tutti i giorni di presenza degli arrestati". "Vi è stata una volontà diretta a vessare le persone ristrette nel sito, a lederle nei loro diritti fondamentali proprio per quello che rappresentavano: tutti appartenenti all'area no global e partecipanti alle manifestazioni ed ai cortei contro il vertice G8".

"Non crediamo ad esplosioni improvvise di violenze. Il processo ha provato che i capi ed i vertici di quella caserma hanno permesso e consentito, con il loro comportamento e con la gravità delle loro consapevoli omissioni, che in quei tristi giorni si verificasse una grave compromissione dei diritti delle persone. Perché è questo ciò che il processo ha provato essere accaduto. Troppo grave è stato il concorso morale in tutte le sue forme, troppo grave la tolleranza, troppo grave ogni mancato dissenso da comportamenti violenti e scorretti, troppo grave anche solo il loro silenzio e la loro inerzia, troppo grave il rafforzamento del diffuso senso d'impunità che ne è conseguito".

La giustizia frustrata
La frustrazione dei magistrati è evidente. Citano Cesare Beccaria, Pietro Verri e Antonio Cassese, già presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene e dei trattamenti inumani o degradanti. "A Bolzaneto fu tortura", ripetono. E per dare forza alle loro argomentazioni, rimandano ad una serie di precedenti internazionali. Ricordano il caso Irlanda contro Regno Unito del gennaio di trent'anni fa, in cui si dà conto delle "torture" subìte dai simpatizzanti irlandesi da parte dell'esercito britannico.

Ma a differenza di tutti gli altri paesi, sottolineano, l'Italia non si è mai adeguata alla Convenzione europea dei diritti dell'Uomo. L'ha sottoscritta nell'89, però il codice penale quel reato non lo ha mai disciplinato. Tortura. "Altrimenti, gli imputati avrebbero dovuto essere condannati a pene comprese tra i due e i cinque anni di reclusione". Invece di anni ne hanno potuti chiedere 76, suddivisi tra 46 persone. Che "avrebbero dovuto comportarsi come caschi blu dell'Onu". E invece trasformarono quella caserma in "un inferno"

La Repubblica marzo 2008

22 febbraio 2008

In Fondo al Fondo

IN FONDO AL FONDO
di Antonello Ricci



“Il perché tutte quelle parole si fossero messe a sedé ne la carta, questo, non si sa” (Luciana)


Questa nostra breve storia si svolge tra Cecina e Corneto.
Ma la verità, quella vera, è che non esistono maremme.
E non c’è da perderci troppo tempo.
Poiché, voi ed io lo sappiamo bene, non esistono luoghi.
Se non negli echi del nome che li invoca.
Poiché un paesaggio è solo transito, gesto. Linea di colline. Incrocio di sguardi e strade.
Qualcuno le chiama storie.
E sempre noi (noi uomini, intendo) vogliamo sederci intorno a un fuoco.
E ascoltare.
Ed è in questo che ci riconosciamo.

Questa nostra breve storia, come molte storie, principia con un paradosso.
Perché il suo inizio, in fondo, non è altro che una fine.
Speranze, paure, desideri impiccati a un trave.
Sotto a una luna enorme.
Quel corpo, appeso al prun dell’ombra sua molesta, ha poco più di trent’anni.
Non importa come si chiamasse nel tempo prima di ogni tempo.
Dio fondatore, immemore e inconsapevole.
Strazio, lutto sordo, risentimenti a vuoto. Tortuosi come dedali.
Ma sono faccende che non competono a me.
A me che devo solo raccontare una storia.
Per cui tiro avanti.

E la storia prosegue con una porta che sbatte.
In una sera di vento e stelle.
È il giugno del 2003 (ma potrebbe essere il febbraio di un anno qualunque.
1766. 1896. 1921. 2008).
C’è una bettola, in scena, una fraschetta.
No, un’osteria.
Piantata a un crocchio di strade sulle colline massetane.
Si chiama Pian de’ Mucini.
Potrebbe uscirne gente come Tiburzi e Fioravanti.
Mezzi ’briachi, illuminati dalla brace fioca d’un toscano.
O Chiaro Mori, “Chiarone” l’anarchico, in fuga dai carabinieri.
C’entro io, invece, per presentare il mio libro sui poeti dell’ottava rima.
Fra poco arriveranno Enrico, Bruno, Niccolino (il gran ragionatore in endecasillabi).
Ma c’è già Lio. Lo intravedo dall’uscio. È seduto a un tavolo.
Lio di Pianizzoli.
Lio della Wanda.
Lio poeta gentile e paziente.
Lio cavallaro.
Lio, che già non c’è più.

Ad accogliermi corre Michele, l’oste:
“omo de panza, omo de sostanza”, recita la sua maglietta.
La dieta lo conferma.
La letteratura non è sua “passion predominante”.
Ma quel sorriso e quell’abbraccio, da soli, ti ripagano del viaggio.

(Un giorno Michele cucinerà pesce sul lungomare follonichese.
E allenerà squadre di calcetto femminile.
Ma intanto, dal fondo di quelle campagne, è proprio lui che fonda Il Fondo.
Insieme con Stefano, sia chiaro.)

Eccolo, Stefano, che infila l’uscio di fretta, sbruffando malamente.
Pendola con qui dritto da Siena, dalle colline del Buongoverno.
Dove fotografa matrimoni di zingari, sogni cubani, sedute di laurea.
Eternamente sbarca un lunario da barista.
Stefano, i suoi maglioncini dolcevita sdrucita anni ’80.
Stefano, il suo romanzo memorial-generazionale.
Stefano, Don Giovanni in Maremma e Movimento anni ’70.
Stefano, chissà se quell’editing collettivo lo faremo mai…
Stefano…

Quella sera di vento e stelle infine passa.
La festa, appena cominciata, è già finita.
Dovrei ripartirmene per Viterbo. Ma è già notte fonda.
E poi, questo posto mi piace. Questa gente mi piace.
Me ne resto seduto. Bevo un bicchiere di rosso e aspetto.
Passano giorni. Mesi. Anni.
E quella porta torna a sbattere. Di nuovo. Più volte.

Entra Luciana, coi suoi racconti raccontati.
Novelle che sanno di veglia e di camino, di vicoli e tegami, d’ago e ditale.
Che le scappano così, facilifacili, come la pipì.
Ma misteriosamente necessari, e vicini a un ordine di natura.

Poi entra Alberto, prete spretato, mangiapreti e mangiafascisti, caca-articoli e racconti.
La catana sempre piena di storie libertarie.
Di anarchici inseguiti in capo al mondo, sulla tratta Baires-Potassa. E ritorno.

Poi entra Alessandro l’avvocato. Viene da Roma in treno.
La stazza da bernescante (lo immagino spesso in cioce da pastore).
Gli aforismi alla Flaiano. I suoi praticanti e le sue praticande.
La sua Lazio (da vero burino di Formello).

Poi Dario, il webmaster. C’è e non c’è. Sorride sempre. Non interviene mai.
E ancora Manuela, Corrado, Annalisa, Emiliano, Silvana, Alessandro quell’altro ecc. ecc.

Ciascuno bussa per una sosta.
Presto ripartiranno. Ciascuno per la sua strada.
Ma intanto sono qui, per questa cena-racconto.
Siedono attorno al fuoco. Lo attizzano.
Gli sguardi si rincorrono. Piccoli cenni.
Raccontano a turno. Sennò ascoltano. Soltanto.

Pensavamo che Il Fondo fosse un’associazione. Un gruppo. Una forma, insomma.
Discutevamo, accanendoci, se fosse dibattito o convegno.
E invece era davvero un’osteria.
Un’osteria soltanto, perduta in fondo alle maremme.
Era la sala del banchetto di Alcinoo.
Era Demodoco che canta.
Era Ulisse che piange e vuota il sacco.
Erano le nostre orecchie incredule, pronte ad ascoltare la madre di tutte le storie.
Era la vita.

Erano i tortelli della Wanda.

16 febbraio 2008

Liberarsi dalla mentalità del ghetto

LIBERARSI DELLA MENTALITÀ DEL GHETTO

L'Italia è un ghetto, gated community, galera della mente. Negli sguardi il mondo è assente. Provincialismo, campanilismo, familismo, visioni sempre più anguste. Le lingue inciampano sugli idiomi forestieri, i media ufficiali alzano muri, presidiano i confini, fanno entrare in prevalenza fesserie, propaganda, mode effimere e gossip. Dentro, poi, è una nube perenne di gas, "l'onorevole ha dichiarato... il senatore ha detto... la coalizione... le riforme...". Non-eventi, commenti sui commenti, dibattiti dementi. La Rete permette di comunicare col mondo, ma nessuno insegna a usarla al meglio, in modo conscio e responsabile, e anche lì si formano ghetti, énclaves, circuiti di celle di clausura in cui s'amplifica il provincialismo.

Tra gli italiani che vanno all'estero, molti transumano in ulteriori ghetti, villaggi-vacanze, luoghi plasticosi dove si spaparanzano, senza mai conoscere nulla della società che sta intorno, finché attentati o guerre civili non fanno irrompere l'odiata realtà, e allora l'anno prossimo si cambierà destinazione, si troverà una nuova bolla in cui parlare solo italiano, tra italiani, e lamentarsi di come vanno le cose là a casa, inveire contro i negri, gli zingari, i Comuni che lasciano costruire le moschee.
Tra quelli messi peggio c'è persino chi finge di andare in vacanza, saluta i vicini e si chiude in casa, finestre sprangate, scorta di viveri, due-tre settimane modello bunker, poi "torna" con racconti di fantasia.
"Vacanze-talpa", le chiamano. Metafora perfetta, in un paese di politica da talpe, informazione per talpe, incontri tra talpe, vite da talpe.

E il peggio è che ci si abitua. Si abituano anche i migliori, cedono al disincanto, all'abitudine, alla sconfitta. Si china la testa e si va avanti, magari si tira qualche bestemmia ogni tanto, ma non si va oltre. La vita da talpe diventa normalità, corso delle cose. Fuori il mondo collassa e preme, ma le talpe se ne accorgeranno solo all'ultimo momento, quando un disastro interromperà il tran tran. E intanto: centrosinistra, centrodestra, centrosinistra, il PIL cresce dello 0,1%, il PIL cala dello 0,1%, e leggi elettorali chiamate con nomignoli, e la Confindustria dice, e l'onorevole dichiara...
La mentalità del ghetto è il peggior nemico. La mentalità del ghetto ottunde e disarma, distrugge le difese.

Il libro più famoso di Raul HilbergTorna attuale, oggi più che mai, uno scritto di Bruno Bettelheim (1903-1990), celebre e controverso psicologo ebreo. Non è un testo clinico, ma una riflessione storico-politica. Si intitola "Liberarsi della mentalità del ghetto", e chiude la raccolta di saggi La Vienna di Freud (Feltrinelli, 1990).
Bettelheim si interroga sui motivi per cui gli ebrei d'Europa opposero così poca resistenza al loro sterminio, anzi, moltissimi "marciarono consenzienti verso la propria morte", e alcuni addirittura collaborarono con zelo al disegno dei carnefici, ad esempio denunciando i tentativi di evasione dai lager o consegnando alle SS leader della resistenza come Yitzhak Wittenberg. E non si parla di perfidi kapò, ma di vittime, persone avviate alla morte, tanto fatalisticamente rassegnate da vedere nella resistenza altrui un inaccettabile affronto al destino, al corso delle cose. "Si comportavano così", scrive Bettelheim, "perché avevano rinunciato alla volontà di vivere e si erano lasciati invadere dalle loro tendenze distruttive. Di conseguenza, ormai si identificavano con le SS, che si erano poste al servizio di tali tendenze, più che con i compagni che ancora rimanevano attaccati alla vita, e che per questo riuscirono a eludere la morte."
Bettelheim parte da una constatazione di Raul Hilberg sul "ruolo che gli ebrei ebbero nel proprio sterminio", cita diversi episodi, e da essi risale al comune denominatore: la mentalità del ghetto (ghetto thinking). Furono la chiusura mentale delle comunità ebraiche (soprattutto dell'Europa orientale), il loro asfissiante conformismo, l'obbedienza al dogma religioso e la costante fuga dal mondo a impedire di capire per tempo cosa stava per accadere, quando invece era evidente a chiunque altro, in primis agli ebrei che avevano lasciato i ghetti e tagliato i ponti e si erano messi al riparo prima del punto di non-ritorno.

A scanso di equivoci: non sto aderendo alla tesi di Bettelheim (e Hilberg), che ha scatenato polemiche e accuse postume. In generale mi suona plausibile, gli esempi sono numerosi e mi è parso di trovare conferme negli studi di altri autori. E' vero tuttavia che Primo Levi, nel capitolo "Stereotipi" de I sommersi e i salvati, imposta la questione in modo molto diverso. Se mi azzardassi ad approfondire finirei fuori strada e nel mezzo di un ginepraio; lascio dunque a chi legge la libertà di confrontare i due punti di vista e trarre le proprie conclusioni.
Non intendo nemmeno operare una reductio ad hitlerum. Paragonare qualunque crisi sociale a quella che portò al nazismo e alla Shoah è uno sport fin troppo - e sempre più - praticato. Non coltivo l'osceno proposito di stabilire similitudini tra le "forze sane" (o sanabili) di questo Paese e gli ebrei sterminati nei campi. Chiunque di noi è sideralmente lontano dal subire alcunché del genere.
Quel che mi interessa è il "ghetto" come metafora utile a capire la situazione italiana, con particolare riferimento a due fenomeni interdipendenti: la "fuga dei cervelli" e il restringersi degli orizzonti. Scrive infatti Bettelheim:

Per almeno tre generazioni, tutti coloro che non erano più disposti a sottomettersi a condizioni di vita che non consentivano il minimo di rispetto di sé necessario a confrontarsi col mondo moderno, se ne andarono dal ghetto. Così come se ne andarono tutti coloro che di quel mondo volevano fare parte e tutti coloro che volevano combattere per la libertà, propria e altrui [...] E' difficile valutare quali effetti abbia su un popolo il fatto che per tre generazioni i suoi membri più attivi, quelli il cui ideale era combattere per la libertà, se ne siano andati, e siano rimasti soltanto quelli a cui mancano il coraggio e l'immaginazione per concepire un modo di vivere diverso. Il piccolo gruppo di ebrei che tanto si distingue nella vita culturale americana, per esempio, si era allontanato da almeno un secolo dalle comunità ebraiche dell'Europa orientale.

Ci sono due modi di andare oltre la mentalità del ghetto.

La fuga di cervelliIl primo consiste appunto nel sottrarvisi. Esodo, emigrazione. Per fare un esempio, l'Italia ha un mondo accademico che aborre il ricambio e sfrutta, umilia, devasta dottorandi e ricercatori. I concorsi sono truccati, i posti sono bloccati, nemmeno leccare culi dà più garanzia di alcunché.
Andarsene all'estero è un'opzione giusta, perché libera gli individui e sprigiona energie, ma a lungo termine le conseguenze sul luogo abbandonato possono essere molto negative, se non catastrofiche. Con il brain drain il panorama culturale italiano si impoverisce, cala il numero di sinapsi attive, il livello medio si abbassa sempre di più.
Si potrebbe riporre qualche speranza negli immigrati, o meglio, nel desiderio dei loro figli e nipoti di abbandonare i nuovi ghetti, le ennesime gated communities, le isole di conformismo e paranoia, ma non ci riusciranno se la situazione del Paese continua a peggiorare. Il circolo è vizioso.

L'altro modo è sfumare la distinzione fra chi parte e chi rimane, creando intersezioni, figure ed esperienze di sintesi, e soprattutto circoli virtuosi.
Da un lato, chi se ne va e riesce a lavorare bene dovrebbe compiere ogni sforzo per avere un'influenza positiva sulla situazione che si è lasciato alle spalle.
Dall'altro, ed è questo l'aspetto più importante, chi rimane deve contrastare le spinte alla chiusura, resistere a provincialismi e nuovi razzismi, guardare fuori e cercare di guardare l'Italia da fuori, con occhi non velati dalla pigrizia, senza dare niente per scontato o "naturale". Sforzarsi di studiare le lingue, "pensare extra-italiano", auto-educarsi a un uso della rete e delle reti che proietti l'immaginazione oltre le obsolete frontiere nazionali. Chi ha la possibilità di farlo deve tenere un piede fuori dall'Italia, spostarsi, viaggiare, fare periodi di lavoro e studio all'estero, approfittare di ogni progetto, partenariato, stage, borsa di studio, Erasmus, Leonardo, Comenius, quel cazzo che vi pare ma fatelo, andateci.

[NOTA BENE. Uno dei sintomi più evidenti della chiusura italiana è proprio il fatto che, dall'anno accademico 2003-2004, il numero degli universitari che effettuano soggiorni Erasmus è in calo anziché in crescita. Nel 2006, soltanto un misero 6,2% degli iscritti agli atenei italiani ha preso parte al programma. Questa percentuale esprime la media nazionale: la situazione al Nord è leggermente migliore (7,1%), mentre al Sud è decisamente peggiore (3,5%).
E' vero, c'è un problema di classe sociale, le borse di studio di cui parliamo ammontano a cifre ridicole e non bastano al sostentamento dello studente, quindi chi viene da una famiglia o da una zona più povera ha maggiori ostacoli di fronte a sé... ma questo era vero anche prima, è sempre stato vero, di per sé non basta a spiegare un simile rattrappimento. Anche perché parliamo del 94% degli universitari italiani, cioè - nell'anno accademico 2005-2006 - oltre duecentottantamila persone. Ritengo improbabile che siano tutti figli di poveri.
No, il punto è un altro: conosco persone che hanno fatto l'Erasmus negli anni Novanta, da studenti-lavoratori, lavando piatti in ristoranti tedeschi o distribuendo volantini a Londra, di fronte alle fermate del Tube. Io stesso mi sono pagato il Leonardo in Inghilterra facendo lavori improbabili. Se uno desidera andare all'estero ci va anche facendosi il culo. Se non ci si va è perché quell'opzione non è più nell'orizzonte, non viene presa in considerazione, costa troppa fatica mentale. Il problema è culturale, il Paese si imbozzola nell'abitudine, vinto, impaurito.]

Tana di talpeRipropongo il duro monito di Bettelheim, che risale al 1962 ma sembra scritto domani:

Per molti versi, il mondo occidentale stesso sembra avviato ad abbracciare la filosofia di vita del ghetto: non voler sapere, non voler capire che cosa accade nel resto del mondo. Se non stiamo attenti, l'Occidente dei bianchi, che già costituisce una minoranza, si murerà in un ghetto di sua stessa creazione, fatto dei cosiddetti deterrenti nucleari. Molti, dentro tale cintura di protezione, che è anche una cintura di costrizione, già si preparano a scavarsi i loro rifugi. Come per gli ebrei che restarono nei ghetti d'Europa anche dopo l'arrivo dei nazisti, si direbbe che per noi conti soltanto poter continuare il lavoro nel nostro enorme shtetl, e che importa ciò che succede nel resto del mondo?

Occupiamoci del mondo, allora, perché noi siamo il mondo. Vanno bene anche piccoli "esercizi spirituali", giochi per forzare l'immaginazione e corteggiare l'inatteso, come leggere ogni tanto link un quotidiano giamaicano, o link del Belize, o link della Guinea. Ricordarsi che ci sono tante e diverse comunità di umani, là fuori, tanti mondi, tanti piani di realtà.
Senza questo, tutto diventa merda: il sociale, la politica, le arti... persino l'amore, perché anche la famiglia diviene un fortino armato contro l'esterno, tana di talpe dove i "cazzi nostri" contano più di tutto, e a tutto si è disposti per difenderne il primato.
Come hanno fatto Olindo Romano e Rosa Bazzi, perfetta coppia di arci-italiani.
Perché un intero paese non si riduca come loro, guardiamo al di là dei nostri nasi.

Wu Ming 1 www.wumingfundation.com

01 febbraio 2008

Ballarò, Calabresi e Pinelli

Come morì Giuseppe Pinelli?

Testimonianza di Pasquale Valitutti

Pinelli.jpg[La settimana scorsa è andato in onda su Rai Tre un "Ballarò speciale" che aveva tra i protagonisti Mario Calabresi, corrispondente da New York de La Repubblica, figlio del commissario Luigi Calabresi e autore del libro di grande successo Spingendo la notte più in là, Mondadori, 2007. Posto che è giusto che un figlio difenda la memoria del padre, certe affermazioni, come quella relativa all'assenza di Luigi Calabresi dalla stanza da cui cadde, il 15 dicembre 1969, il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli - incolpato della strage di Piazza Fontana, di cui era innocente - sono più controverse di quanto la trasmissione facesse trasparire. Ecco, per esempio, la testimonianza resa a suo tempo dall'anarchico Pasquale Valitutti, arrestato con Pinelli. Alcune considerazioni in appendice.] (V.E.)

Io sottoscritto Pasquale Valitutti dichiaro che: giunto in questura all'ufficio politico verso le ore 11 di sabato 13 dicembre, sono rimasto due o tre ore in sala d'attesa. Spostato quindi nel salone seguente quello dove vi è la macchina del caffè ho visto Pinelli seduto vicino ad Eliane Vincileone.

In seguito, da informazioni datemi da Sergio Ardau e dallo stesso Pinelli ho saputo che Pinelli era stato fermato venerdì sera e interrogato lungamente nella stessa serata di venerdì. Nella notte di venerdì non aveva dormito. Pinelli mi è parso seccato e stanco, ma in condizioni normali. Mi ha parlato del suo alibi e mi è apparso sicuro. Più tardi gli è stata fatta una sfuriata da parte di un agente, che saprei riconoscere, perché aveva gettato della cenere per terra (numerosi i testimoni) e lui si è chinato a raccoglierla.
Più tardi, a sera inoltrata, per ordine di Calabresi siamo stati divisi nella stanza in tavoli diversi, mentre Pinelli e Moi sono stati fatti mettere nella stanza del caffè.
Verso le 24 sono stati fatti andare via tutti gli altri e siamo rimasti io, l'Eliane e Lorenzo. In seguito io e Lorenzo siamo stati portati in cella di sicurezza: non ho più visto Pinelli fino alla domenica dopo pranzo, mi ha detto che lo avevano interrogato la notte di sabato e fatto riposare qualche ora in camera di sicurezza nella giornata di domenica. Nel frattempo io ero stato interrogato e mi avevano portato nel mio abbaino per una perquisizione. Domenica pomeriggio ho parlato con Pino e con Eliane e Pino mi ha detto che facevano difficoltà per il suo alibi, del quale si mostrava sicurissimo. Mi ha anche detto di sentirsi perseguitato da Calabresi e che aveva paura di perdere il posto alle ferrovie. Verso sera un funzionario si è arrabbiato perché parlavo con gli altri e mi ha fatto mettere nella segreteria che è adiacente all'ufficio del Pagnozzi: ho avuto occasione di cogliere alcuni brani degli ordini che Pagnozzi lasciava ai suoi inferiori per la notte. Dai brani colti posso affermare che ha detto di riservare al Pinelli un trattamento speciale, di non farlo dormire e di tenerlo sotto pressione tutta la notte. Di notte il Pinelli è stato portato in un'altra stanza e la mattina mi ha detto di essere molto stanco, che non lo avevavo fatto dormire e che continuavano a ripetergli che il suo alibi era falso. Mi è parso molto amareggiato. Siamo rimasti tutti il giorno nella stessa stanza, quella del caffè e abbiamo potuto scambiare solo alcune frasi, comunque molto signicative. Io gli ho detto: "Pino, perché ce l'hanno con noi?" e lui molto amareggiato mi ha detto: "Si, ce l'hanno con me". Sempre nella serata di lunedì gli ho chiesto se avesse firmato dei verbali e lui mi ha detto di no. Verso le otto è stato portato via e quando ho chiesto ad una guarda dove fosse mi ha risposto che era andato a casa. Io pensavo che stesse per toccare a me di subire l'interrogatorio, certamente il più pesante di quelli avvenuti fino ad allora: avevo quasta precisa impressione.
Dopo un po', penso verso le 11.30, ho sentito dei rumori sospetti come di una rissa e ho pensato che Pinelli fosse ancora li e che lo stessero picchiando. Dopo un po' di tempo c'è stato il cambio di guardia, cioè la sostituzione del piantone di turno fino a mezzanotte. Poco dopo ho sentito come delle sedie smosse ed ho visto gente che correva nel corridoio verso l'uscita, gridando "si è gettato". Alle mie domande hanno risposto che si era gettato il Pinelli; mi hanno anche detto che hanno cercato di trattenerlo ma non vi sono riusciti. Calabresi mi ha detto che stavano parlando scherzosamente del Pietro Valpreda, facendomi chiaramente capire che era nella stanza nel momento in cui Pinelli cascò. Inoltre mi hanno detto che Pinelli era un delinquente, aveva le mani in pasta dappertutto e sapeva molte cose degli attentati del 25 aprile. Queste cose mi sono state dette da Panessa e Calabresi mentre altri poliziotti mi tenevano fermo su una sedia pochi minuti dopo il fatto di Pinelli. Specifico inoltre che dalla posizione in cui mi trovavo potevo vedere con chiarezza il pezzo di corridoio che Calabresi avrebbe dovuto necessariamente percorrere per recarsi nello studio del dottor Allegra e che nei minuti precedenti il fatto Calabresi non è assolutamente passato per quel pezzo di corridoio.

[Perché alla testimonianza di Valitutti - ribadita anche di recente dallo stesso Valitutti in un intervento al centro sociale Leoncavallo di Milano, non fu dato peso? In sede processuale fu contrastata da quelle degli altri poliziotti presenti nell'ufficio di Luigi Calabresi: non esattamente testi "neutri", e tuttavia dotati di un peso istituzionale che un semplice anarchico non poteva avere.
Sia questi poliziotti che il commissario Calabresi sostennero, finché fu possibile, che Pinelli si era suicidato, gettandosi dalla finestra al grido di "E' morta l'anarchia!". In pratica un'ammissione di colpa.
Uno dei poliziotti disse persino di avere cercato di trattenerlo, e che una scarpa gli era rimasta in mano. Versione che dovette essere ritrattata quando si scoprì che Pinelli aveva tutte e due le scarpe ai piedi; che era caduto non per un salto, ma rasente alla parete, rimbalzando addirittura sul frontone; e, infine, quando risultò chiaro che era perfettamente innocente.
Al processo il giudice D'Ambrosio concluse per una morte da "malore attivo". Prendiamo la versione per buona (sorvolando sul fatto che Pinelli era basso di statura, e che la balaustra della questura di Milano era più alta del suo baricentro; per cui uno svenimento non sarebbe bastato a squilibrarlo).
Proprio il "malore attivo" inficia una delle tesi di Mario Calabresi a favore del padre. Mario Calabresi dice che il commissario Luigi e Pinelli erano quasi amici, si scambiavano libri.
Be', una certa familiarità poteva instaurarsi, a quei tempi, tra forze dell'ordine e contestatori. Però dovette essere una ben strana amicizia, se l' "amico" poliziotto trattenne (per affetto?) illegalmente un innocente per tre giorni, se fu l'ultimo a interrogarlo, e se il "malore attivo" si manifestò immediatamente dopo. Secondo D'Ambrosio il misterioso malore fu dovuto al prolungato digiuno, alla mancanza di sonno e alle troppe sigarette fumate a stomaco vuoto. Ma come? L'amico Calabresi teneva a digiuno il suo vecchio compare?
Mario Calabresi dice che il padre fu il capro espiatorio scelto dai superiori. Può darsi, non è difficile credergli. E senz'altro fu un ingranaggio di un sistema. Ciò lo rese bersaglio di un delitto ingiustificabile.
Ma Mario Calabresi si spinge oltre, accusando di complicità oggettiva una serie di intellettuali, da Dario Fo, a Umberto Eco, ad Alberto Moravia, a Elio Petri. Nella trasmissione è stato omesso un nome, quello di Camilla Cederna. Accorsa sul luogo in cui si sfracellò Pinelli e tra le prime a contestare la versione fornita dalla polizia. Autrice di un libro, Una finestra sulla strage, oggi scomodissimo. Non è "militante" quanto la controinchiesta La strage di Stato, ma proprio per questo ebbe peso maggiore nell'ambito culturale italiano.
Quanto alla campagna di Lotta Continua contro Calabresi (il commissario), fu forsennata perché eccessivamente personalizzata. Grave vizio di LC e di altri groupuscules, come la Gauche Proletarienne in Francia. Tuttavia forse cercava di spezzare l'immunità totale di cui gode da sempre, in questo paese, chi uccida o conduca alla morte un militante di sinistra. Potrei partire dai braccianti di Avola e Battipaglia, ma chi li ricorda più? Mi limito a dire che, negli anni di piombo, le vittime del terrorismo di sinistra furono circa 130. I colpevoli furono colpiti con ogni rigore. Invece i militanti di sinistra uccisi - includendo terroristi, non terroristi, gente che non c'entrava nulla - furono una sessantina. Nessuno di coloro che li uccisero è mai stato punito. E qui tralascio le varie stragi, da Piazza Fontana in poi. E le violenze sui no global di Genova o Napoli.
Spero in un futuro "Ballarò Speciale" che intervisti le figlie di Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, innocente delle accuse, trattenuto illegalmente in questura dal suo amico Calabresi, colto da "malore attivo", caduto come un peso morto da una balaustra che gli arrivava quasi al petto.
Spero, ma una vocina mi dice che un "Ballarò" così non lo faranno mai.] (V.E.)

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