31 marzo 2006

"Bianciardi com'era" lo sapranno in pochi

Questa è una non-recensione di un libro che non ho ancora letto: tutto normale, direbbero in molti, quanti sono i critici che fanno così.
Ho qui il “librino” davanti a me, di colore bianco e rosso, gentilmente inviatomi da Antonello Ricci; si intitola Bianciardi com’era, di Mario Terrosi, anche se poi come sottotitolo riporta Lettere di Luciano Bianciardi ad un amico grossetano.
Inutile star qui a ricordare chi fosse Bianciardi che, come dice Moretti nel suo Caimano, è inutile cercare di spiegare cosa non va di Berlusconi a chi non vuole capire in che Italia viviamo. E quindi cosa aggiungere sull’intellettuale-scrittore-traduttore-precursore (e chissà cos’altro) grossetano, andatosene troppo presto nel 1971 dopo una vita discretamente maledetta, ma nella quale era arrivato anche fin dentro al successo, quello vero?
Ben poco, direi. Magari a chi non lo conosce diamo il consiglio di leggersi la bella biografia di Pino Corrias, dal titolo La vita agra di un anarchico, dove in copertina campeggia una sua bella foto ritratto di traverso, come quella che in fondo fu sempre la sua vita.
Di Mario Terrosi invece sapevo poco e nulla, solo che era un pittore e scrittore grossetano amico d’infanzia di Bianciardi, di quelli che non si perdono di vista. E a quel tempo due che non avevano voglia di perdersi di vista potevano solo scriversi, se abitavano a centinaia di chilometri di distanza.
Questo, dunque, è un libro di lettere di Bianciardi a Terrosi, con qua e là qualche appunto di Terrosi sull’amico, qualche notarella a margine.
Almeno così credo, sbirciandovi dentro, ma non è poi troppo importante.
Il libro fu pubblicato verso la metà degli anni ‘80 dalla casa editrice Ianua di Roma, che per le alterne vicende delle umane sorti conosco, perché il mitico editore - Antonio Porta - occupa fisicamente da sempre (credo) una delle postazioni fisse librarie nell’atrio del Tribunale di Roma, ed è una specie di Barbablù per molte delle avvocatesse che con delle vocine vanno a chiedergli cose assurde, beccandosi spesso delle sonore pernacchie.
Prima di stampare questo libro, Antonio chiese il consenso a Terrosi di pubblicare le lettere, gli riconobbe le sue provvigioni, e pubblicò.
Mai nulla, in quegli anni, gli venne rinfacciato, da parte di chicchessia.
Vent’anni dopo Marcello Baraghini, di Stampa Alternativa, che per le alterne vicende delle umane sorti conosco tramite gli amici dell’Associazione Il Fondo, ex Fondo Boccardi (e ho detto tutto, e anche qui chi vuol capire ha capito, chi no peggio per lui, magari si informi sulle vicissitudini dell’Associazione in separata sede), trova questa edizione, si ri-appassiona al personaggio Bianciardi, per lui colpevolmente chiuso in una torre d’avorio dalla Fondazione, e decide di ristampare il libro.
Contatta quindi Antonio Porta e gli chiede se gli può cedere i diritti. Porta accetta, per qualche centinaio di euro. Baraghini aspetta che l’affare decanti, tanto che Porta quando mi vede mi chiede sempre cosa aspetti Baraghini a firmare il contratto, poi alla fine si decide, il libro si farà.
Grazie anche alla collaborazione di Corrado Barontini e Antonello Ricci, altra talentuosa vecchia conoscenza dell’Associazione. I due mettono giù un’appendice su Terrosi e Bianciardi, sudando qualche camicia per scrivere cose gradite alla famiglia Terrosi, che pare rompa parecchio.
Il libro alfine si stampa. Non so in quante copie - qualche decina, immagino, almeno, ma si stampa. Ne ho la prova, è qui davanti a me, nel suo bel bianco a rosso.
Nel frattempo la famiglia Bianciardi, e precisamente la figlia, viene a sapere che si sta facendo un libro di lettere del padre, scrive a Baraghini e lo diffida dal pubblicare il libro (o qualcosa del genere), perché lei non dà il consenso necessario ai sensi della normativa sul diritto d’autore, non avendo Bianciardi o chi per lui mai fornito un consenso all’edizione Ianua, che viene definita solo “tollerata”,
Baraghini, che non conosce l’arte della mediazione, credo l’abbia insultata, e temo che vi sia poco da ricucire, forse solo qualche punto di sutura. Il suo braccio destro, peraltro, gli consiglia anche di non azzardarsi ad adire vie legali, non ha senso rischiare beghe e cause su libri così, da 500 copie, 1000 al massimo.
Nel frattempo, però, il libro - che era in uscita - arriva anche a qualche critico, come Abbiati de "Il Giornale", che una decina di giorni fa ci fa sopra una recensione.
Su un libro che, allo stato dei fatti, non uscirà mai, almeno oltre quelle rare copie da collezione che gireranno l’Italia, sperando non finiscano nelle mani di censori come quelli descritti da Bradbury in Fahreneit 451. Forse fra 35 anni verrà anche pubblicato, per carità, quando ci sarà la possibilità di averlo senza consenso.
Questa storia però ha preso corpo, è diventata reale, nella sua follia.
La storia di un libro che non c’è, che poi è anche una storia di altre storie, tutte da raccontare, magari in un altro libro, questo sì da scrivere e pubblicare.
Il libro bianco e rosso che ho qui davanti a me però è maledettamente vero, apro le sue pagine e le trovo scritte, non è una allucinazione proveniente da casa di Antonello. Una delle tante, direbbe qualche malalingua…
E’ solo un’altra storia di Maremma, di quelle che va a finir male per forza, direbbe il Pacini. O un’altra storia di diritti d’autore, di edizioni di diverso genere su cui la famiglia vuole avere ogni controllo, di incomprensioni, di mezze frasi, di incapacità agli accomodamenti, direbbe qualche altro.
Io non lo so che storia sia, forse non mi interessa nemmeno. O forse sì.
E poi il libro lo debbo ancora leggere, per me la vera storia sta là dentro. Tutta là dentro. Quella di un uomo solo come Bianciardi che, a 35 anni dalla morte, oggi sembra ancora più solo. Un uomo che, all’apice del suo successo, nel 1962, scrive da Milano all’amico “che la gente per Natale è impazzita, compra di tutto, compra, compra. Figurati che comprano perfino i libri…”: dispiace pensare che di queste lettere, della sua vita, la gente nemmeno impazzendo potrà leggere mai.
Bianciardi oggi ri-muore e nessuno se ne accorge, come fu del resto la sua prima morte, accompagnato al cimitero da poche persone, quasi di soppiatto.
Trovo in banda bianca in copertina una lettera del 1961 “Ho in mente di buttar giù una grossa pisciata in prima persona sull’avventura milanese, sul miracolo italiano, sulla diseducazione sentimentale che è la sorte nostra d’oggi. Tu non immagini l’aridità della gente che mi sta intorno…”: a questo punto bisogna proprio leggerlo questo libro, diventa troppo interessante.
Ma come si fa a recensire seriamente, come si fa a parlare di un libro che non c’è?

Alessandro Tozzi

28 marzo 2006

Donne normalmente straordinarie

Sapete chi ha inventato come simbolo dell'8 marzo il mazzetto di mimosa? Teresa Mattei, nell'immediato dopoguerra. Teresa è oggi una nonna ancora straordinariamente attiva che ama parlare con i giovani e confrontarsi con loro. Classe 1921, nata a Genova, studentessa antifascista e partigiana a Firenze, un fratello Gappista, noto chimico, morto nel carcere di via Tasso a Roma, fondatrice dell'UDI ha partecipato all'Assemblea Costituente a soli 25 anni. Radiata dal PCI ai tempi di Stalin. "Sì, ho inventato io il simbolo della mimosa. L'ho scelta perchè era un fiore povero che si trovava dappertutto in primavera, e non occorreva comprarlo, mentre i socialisti volevano proporre orchidee e violette, sul modello tedesco. Purtroppo oggi persino la mimosa è diventata commerciale, ma comunque è rimasta un simbolo. Quando scoppiò la guerra in Bosnia, per l'8 marzo, al posto delle mimose abbiamo fatto un nastrino giallo per raccogliere soldi per le donne bosniache; la Coop ci ha aiutato e per ogni scontrino ci ha dato mille lire e così abbiamo raccolto 10 milioni e abbiamo comprato una radio che permettesse ai bambini dispersi - con la loro voce - di ritrovare le loro mamme. La radio diventò l'unica maniera che avevano di ritrovarsi. E' da lì che ci è venuta l'idea di Radio Bambina, perchè la parola, la voce, è la prima comunicazione. Radio Bambina ha trasmesso da Ponsacco e da Firenze e dalle frequenze di molte radio libere, si è lavorato con migliaia di bambini, da tutte le parti. I bambini volevano fare radio perchè la parola ti dà anche un senso di responsabilità; se tu dici una cosa, come diceva Don Milani, ti senti responsabile, hai un progetto da comunicare. I bambini crescono bene se hanno progetti, non glieli devi dare tu, devono venir fuori da loro, tu puoi solo aiutarli. Il fine di Radio Bambina è creare emozioni. Un bambino ha detto - io con la radio sono più ricco perchè posso anche fare un viaggio sulla luna - Aveva capito la differenza con la televisione. Infatti il nostro slogan alla radio era - dall'immagine all'immaginazione- L'altra cosa importante è l'emozione. L'emozione deriva da una certa atmosfera, dal suono, dalla voce, che non è solo la parola; la voce è anche timbro, è un'emozione straordinaria e noi tutte queste cose le stiamo perdendo, invece è molto importante arrivare a capirle. Voi che siete giovani donne lo dovete sentire in modo straordinario perchè siete voi che potete salvare ancora il mondo da questa rovina, cioè, dire veramente ricominciamo tutto da capo, punto e a capo. E, a capo, per prima cosa ci sono i bambini". Amica di Teresa era Giulia Nocchi, una eterna ribelle, che pochi giorni prima di morire, nel marzo di due anni fa, rilasciava ancora interviste (Allora eran sberle, poi fu una primavera) scriveva libri e articoli anche per "Il Vernacoliere". Contadina, autodidatta, funzionaria del PCI e sindacalista fino a Matera dove diresse le lotte delle donne, fondatrice dell'UDI, scrittrice. "Dopo guerra noi donne ci siamo iscritte al sindacato, all'UDI, al Partito Comunista, ma mi viene da ridere a pensare il primo saluto che mi fecero i compagni quando andammo a chiedere la tessera - ah, bene, così spazzerete la sezione! - Se tornassi indietro rifarei tutto da capo. Andrei alle manifestazioni, come ho fatto sempre. Ricordo una manifestazione molto bellina per l'aborto a Roma. C'è ancora una foto con io, una ragazza grintosa ed un cartello contro il ginecologo - disgraziati! basta sfruttare le donne! -" Ricorda infine Mirella Vernizzi il suo stupore alle assemblee universitarie incontrando giovani donne che si pensavano rappresentanti della prima generazione di femminismo. Mirella, con schiettezza, domandò loro - Scusate, ma noi che ci siamo state a fare allora? -

A cura di Laura Fantone e Ippolita Franciosi dal libro (R)ESISTENZE -Il Passaggio della Staffetta, Morgana Edizioni

26 marzo 2006

Emiliano Gucci-Senza Bavaglio

Strano paese Massa di Maremma. Alle volte è privo di iniziative culturali, altre volte ne ha persino troppe. Sabato 25 di mattina ha visto lo svolgersi del convegno dei giornalisti di "Senza Bavaglio", con nomi importanti; Enzo Marzo, Sigfrido Ranucci, Giuliana Sgrena, (che ha riscosso un caldo applauso quando ha ribadito che la medaglia d'oro a Quattrocchi è un insulto a quella di Calipari ed al buon senso), Giulietto Chiesa, Martino Seniga, Giancarlo Bocchi e ospiti del calibro di Michel Colon e Peter Pophan, solo per ricordarne alcuni. In serata è stata la volta dello scrittore Emiliano Gucci. I giornalisti hanno discusso delle difficoltà di fare informazione, di arrivare semplicemente a pubblicare notizie scomode per le proprietà dei giornali, delle bugie di guerra, di un quarto potere che più potere non è. Emiliano della difficoltà per uno scrittore di arrivare a pubblicare, di dribblare gli editori a pagamento, e comunque, una volta pubblicato, ad essere distribuito e visibile nelle librerie, schiacciato dal monopolio delle 4-5 case editrici che contano e si spartiscono il 90% delle vendite in Italia. Da entrambi i fronti, quindi, cattive notizie. Fosse anche positivo l'esito del 9 aprile, quella che è in corso in Italia è, per dirla con le parole di Giulietto Chiesa, una vera e propria emergenza democratica, in un paese che vede oramai lo strapotere dell'informazione televisiva (sappiamo bene in mano a chi), un paese dove 30 milioni di persone non comprano mai un quotidiano o un libro, dove, se non si pensa a formare una tv alternativa come Telesur in America Latina, e rendere pubblica veramente la Rai, non c'è speranza per nessuno, nonostante la buona volontà, internet, e case editrici oneste e competenti che pubblicano giovani scrittori come Emiliano Gucci, che meriterebbe ben altro pubblico. Anche a Massa - bicchiere mezzo vuoto - e che pure fa quel che può e resiste con ostinazione - bicchiere mezzo pieno - Insomma, noi si continua, alla prossima Emiliano!

Il Fondo

24 marzo 2006

Canto di Buenos Aires


Canto di Buenos Aires
[nel 30° anniversario della dittatura militare argentina]

di Alberto Prunetti

Cresce di fronte a me oltre i canneti. Su terra di recupero, di riporto fangoso della Plata. Ecologia di macerie in frantumi, di cemento disarmato e bandoni d'acciaio torturati, contorti. Discarica di cadaveri e di inerti edili. Discarica ecologica su cui si rovesciano la domenica i serviti svenduti ai rigattieri. Da lì ti vedo, rosa e catarifrangente, ammasso di cemento e cristallo. Città di scritte cubitali e di marmo mitragliato. Col tuo porto che scarica merci norteamericane e trattati di libero commercio. Il tuo porto di sangue immigrato. Il tuo porto che è un eldorado di razze e miseria. Città che ti viene incontro con una topografia di quadri, di decumano e cardo, di gasolina e clacson, di carne arrostita e notti di cartone e di lotta. Città di repressori nascosti, di repressori orgogliosi delle radici cristiane, di repressori che ti lasciano il posto a sedere sulla metropolitana, encantadi. Città di esiliati che mai patirono esilio, di esuli che non trovarono asilo. Città che non dorme mai, che si risveglia col ronzio di calabroni ai semafori. Città di sangue appena oltre il muro, di milonghe che nascondono il rumore dei pianti e lo stridore dei denti. Città di marciapiedi divelti, di lavori in corso e spazzatura a spaglio. Città di immigrati boliviani all’angolo e di caffè letterari. Stratigrafie di poeti e picane a generazioni alterne, depositi di sangue e di memoria. Città di giurisprudenza e di antropologia criminale. Di ossa perforate rinvenute sotto la terra recuperata ai riporti di ossa carbonizzate e fango. Città di grandi numeri civici, di genocidi stampati sui biglietti da cento pesos. Città che mi apre i suoi quartieri per un inverno, che mi ferisce al ricordo, che sa di mate sputato perché troppo amaro.

Creative Commons License
Questo/a opera è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

23 marzo 2006

Lo stermino di una generazione

Trent'anni fa, un colpo di stato militare, nella colpevole acquiescenza internazionale, instaurava una feroce dittatura in Argentina. A differenza di quanto accaduto tre anni prima in Cile (per rassegnazione? Per assuefazione?) la portata del dramma non veniva colta in tutta la sua interezza per troppo tempo. Per lunghi anni solo le "pazze", le Madri di Plaza de Mayo, denunciavano i misfatti sempre più atroci e sistematici della giunta militare, alla disperata ricerca di notizie dei figli scomparsi, quasi tutti sui vent'anni. Addirittura nel 1978 i mondiali di calcio della vergogna venivano giocati a poche centinaia di metri dai luoghi di detenzione e tortura, mentre una intera generazione di giovani (non solo rivoluzionari o guerriglieri, bastava essere impegnati in un doposcuola per essere rapiti , torturati e spesso ammazzati...) trentamila, desaparecidos, gettati vivi da aerei militari nei fiumi e nell'oceano, ragazze incinte a cui venivano strappati i figli e dati in adozione a famiglie di militari o vicine al regime. Adesso il nuovo governo argentino ha deciso di portare davanti alla legge i torturatori, ha proposto di fare della scuola di meccanica della marina (uno dei lager simbolo di quell'orrore) un museo per non dimenticare; le Madri invece hanno proposto di farne una scuola popolare per i bambini di strada, un centro di arte per tutti, un posto vivo, come sarebbe piaciuto ai figli. Tra i numerosi libri ne è uscito uno negli ultimi mesi scritto da 5 donne sopravvissute a quel lager; Le Reaparecide ed. Stampa Alternativa, uno dei libri più belli che abbia mai letto, l'orrore sconfitto dall'umanità e persino dall'ironia femminile, dal coraggio di tornare a vivere e non dimenticare.
Trent'anni sono una vita. Forse anche per questo la Rai ha messo in onda una puntata de La Storia siamo noi dedicata all'Argentina ed alla storia di Enrico Calamai, un giovane diplomatico italiano che rischiando di persona aiutò a fuggire dal paese un centinaio di nostri connazionali ricercati dalle squadre della morte. Riscattando in parte l'onore di un paese che dava alla dittatura consiglieri della loggia P2 e Monsignori come Pio Laghi che bendicevano i generali assassini, mentre centinaia di giovani con passaporto o genitori italiani venivano fatti sparire per sempre. Enrico Calamai non a caso fu richiamato in patria, oggi un Piduista che ha fatto carriera diventando il nostro presidente del consiglio, direbbe che Calamai stava con i terroristi... Sì, la Rai ha trasmesso un buon pezzo di storia, peccato solo che l'abbia fatto tra l'una e le due di notte.

Stefano

21 marzo 2006

In Maremma gli scrittori muoiono sempre due volte

Alcuni di voi, presenti di persona o informati dai siti e dal passaparola, ricorderanno al festival della letteratura resistente di Pitigliano, l'impegno assunto da Marcello Baraghini e da Stampa Alternativa a pubblicare Bianciardi com'era. Anzi, di più, Antonello Ricci lesse, magnificamente accompagnato da un trombettista jazz mentre nel far della sera scrosciava la prima pioggia autunnale, alcune delle profetiche lettere di Bianciardi agli amici in Maremma, scritte da Milano nei primi anni '60 "... qui continua il miracolo, dicono, tutti si comprano l'automobile, alcuni anche il panfilo, e di tutto il resto se ne fregano, ma non sono contenti; sono sempre incazzati... Fra vent'anni tutta l'Italia si ridurrà come Milano..." Grande era l'attesa per queste lettere non più ristampate da trent'anni. Ma a quanto pare in Maremma gli scrittori muoiono sempre due volte. Poco tempo fa il comune di Grosseto ha annullato un convegno su Bianciardi, adesso per incomprensibili difficoltà sorte con gli eredi viene annullato anche questo libro. A noi viene anche in mente, chissà perchè, Boccardi... comunque, sia maledetta Maremma e chi l'ama...

Ulisse

18 marzo 2006

Niccioleta

Bruno Vespa, nel suo libretto Vincitori e vinti, parla di una strage consumata a "Niccioleta di Castelnuovo Val di Cecina (Grosseto), sempre a ridosso delle Apuane". Ora, già capirete che il mio rispetto per questo pennivendolo è pari allo zero assoluto. Non contento, il vespolone si mette a toccare anche il campanilismo di un toscano. Ahi. Ahi ahi. Ahi ahi ahi. Allora, parliamone: Niccioleta non "è" di Castelnuovo Val di Cecina. Castelnuovo Val di Cecina non è in provincia di Grosseto. Grosseto non è a ridosso delle Apuane.
Ma: Niccioleta è frazione di Massa Marittima. Castelnuovo Val di Cecina è in provincia di Pisa (poverini...). Grosseto è in mezzo a una palude bonificata discretamente lontana dalle Alpi Apuane.
Ergo:
1. vespolone, pulisci la penna prima di parlare dei Martiri di Niccioleta. Anzi, non parlarne per niente.
2. vespolone, urgono ripetizioni di geografia a chi ti scrive i libretti.
3. soprattutto, e per piacere... risparmiaci 'ste bischerate.
'nsomma, un po' meno d'ignoranza farebbe piacere... Ah già, ma questo è il paese di "meglio fascisti che froci"...

Ancora su Cuba......e poi ancora...

Decisamente Cuba, nel bene e nel male, suscita sentimenti forti. È di pochi giorni fa un articolo sul nostro blog di Maria, di ritorno dall'isola, che adesso viene a cercare (e la trova )ospitalità Alessandra, che ha soggiornato per studio sull'isla grande. Molti di voi ricorderanno poi la polemica sorta un mese fa con l'amico Gordiano Lupi, editore del Foglio di Piombino, grande conoscitore dell'isola e sostenitore dei dissidenti, che è andato a parlare di Cuba ad un convegno di giovani di AN, suscitando molte perplessità più che per il luogo per il merito delle critiche che Gordiano fa al sistema cubano. Insomma, nuovo round... chissà i cubani che direbbero....

La mia Cuba

Cuba, la Isla Grande!
Cuba, il Socialismo Reale!
Cuba, il Ritmo Caraibico!
Cuba, i Sigari e il Rum… quelli buoni!
Cuba, il sesso fatto con Amore e dedizione!
Cuba, la perla delle Antille… e la spina nel fianco dell’America!
Quante parole si possono usare per circoscrivere ingiustamente il patrimonio ambientale, culturale, storico e umano di quest’Isola, che a tutti può offrire qualche goccia della sua immensa e nascosta ricchezza!
Sicuramente ad un arzillo vacanziere sa offrire con grazia una pelle tinta d’oro e bagnata d’azzurro, un cibo semplice ma prelibato e un popolo radioso e disponibile!
A curiosi turisti ed avventurieri non potrà di certo negare esperienze d’altri tempi, magari a bordo di un rombante sidecar alla scoperta di spiagge vergini, coccodrilli e riserve della biosfera!
Per i più difficili ,Antropologi ed Etnologi , vi è certamente interesse verso la caratteristica mescola culturale, i creoli e i mulatti , i riti, la “santeria”, i “quinse” e le ricette di vita spagnole!
Non dimentichiamoci la categoria degli Storici e dei Politici….il popolo e l’Isola hanno impresso nel DNA una storia crudele ed infinita di eterna rivoluzione e libertà!
Insomma qualsiasi cosa si cerchi e qualsiasi veste si porti in società, Cuba ti può accontentare ed arricchire!
Ad una studente ,squattrinata e maledettamente curiosa come me, ha saputo insegnare l’umiltà di saper donare un sorriso, la voglia di ballare e il saper attendere , oltre ad una incancellabile cultura e ammirazione.
A mio parere vi sono principalmente tre caratteristiche comuni nel popolo cubano:
La Lucha, incessabile , indispensabile e interminabile!
La Salsa, sempre presente come il riso!
La Pazienza, grande amica dell’uomo (“come la carta igienica”, mi disse un’amica dell’Avana).
Per il resto ogni cubano fa da se…
Le strade dell’Avana sono un concetto di vita, non sono semplici luoghi di passaggio dove spegnere una sigaretta, ma centri di vita quotidiana, di commercio, di mercato, di contrabbando e di abile seduzione! Tutto quello che un Habanero cerca lo trova sulla strada e quello che vuole vendere, lo vende per strada! E’ un mercato permanente, fra brusii, urla e sguardi attenti, un luogo di confine e una zona franca dove tutte le dinamiche sono sconosciute ai turisti!
L’Avana è come una mulatta, bella e fiera, che ostenta la sua sensualità sdraiata su un fianco e abbraccia l’oceano con infinita eleganza. La sera cambia abito e si concede alle luci soffuse della Capitale accompagnando con un soffio le onde fino al Malecon… poi sorride per aver fatto sentire ad un passante il fresco brivido di Cuba e lo accompagna alla ricerca di sapori nascosti!
Non me la sento di dare giudizi riguardo la gestione, il governo , lo stile di vita dell’Isola perché questi sono solo esponenti di fattori che dipendono più o meno dal regolare corso della storia e dagli avvenimenti mondiali. I volti insoliti di donne e uomini maturi raccolti a discutere nelle periferie sono diventati per me l’immagine del cambiamento che avanza, degli steccati ideologici che lentamente vengono abbattuti, della società civile che anche se sola su un’isola dei tropici sta cercando di prendere la parola!
Qui non vi sono rapporti diretti e determinazione lineare tra economia, società e politica, è la società civile che coglie le risposte e osserva il fascino mobilizzante di percorsi non ancora battuti. Penso che il solo fatto di poter dire “Io sono Cubano”, sia motivo di orgoglio e grande onore per coloro che tutt’oggi vivono giorno dopo giorno lottando a Cuba portandosi addosso il peso di grandi ideali!
Per tutto questo io li stimo… e sento già la voglia di ritornare!


Alessandra

16 marzo 2006

Los tres maricones deprimidos al festival dei corti di Bologna

L'importante non è vincere, ma giocare come bambini e divertirsi! In questo siamo arrivati primi, l'esito del concorso non ci interessa, l'avventura che abbiamo vissuto, sì, invece. Abbiamo conosciuto persone straordinarie, ambienti che credevamo scomparsi, e una città molto lontana dal suo sindaco ruspista. Vi pare poco? Quando poi vedrete il corto surreale non ci avrete mai come volete voi! capirete che è già un miracolo se non son venuti a prenderci per un TSO o 118 se preferite.
Iniziò tutto nella notte... (continua nel link de los tres maricones deprimidos dal 19 marzo....)

Los tres maricones deprimidos

14 marzo 2006

Emiliano Gucci e los tres maricones deprimidos

Il 25 marzo avremo Emiliano Gucci con il suo ultimo libro Sto da cani a Massa Marittima. Alle ore 18 presentazione in centro, alle 20 cena fuoriporta, alle 22 chiaccherata e altre sorprese. Daremo particolari più precisi a giorni. Intanto anticipiamo che tra poco saremo in grado di presentare anche l'ultima impresa de los tres maricones deprimidos, che hanno presentato un corto di 4 minuti al festival dei cortometraggi di Bologna, con inquietanti risvolti tra le quinte....

Stefano

10 marzo 2006

La civiltà dell'informazione

Viviamo in un mondo globalizzato ed informato. Almeno per quello che ci vogliono e possono dire i padroni del vapore, chi guida le nostre scelte, anche quelle subliminali, e chi le asseconda non appena vengono fuori.
Ci vengono inviate mail ed sms per dirci quello e quell’altro, da parte di enti istituzionali; si avverte la necessità della trasparenza, mutuata da questo finto affermarsi di una cultura del consumatore che ricorda molto quella del marito che cornifica la moglie e poi le porta le pastorelle a casa per tenersela buona; nasce l’esigenza di andare a scovare notizie sulla rete, dove si può trovare tutto e il contrario di tutto.
In televisione assistiamo ogni giorno, in questi giorni pre-elettorali, a sfide incredibili di politici nostrani: Casini contro Bertinotti, D’Alema contro il resto del mondo, Tremaglia contro Stalin, la Mussolini contro Hiro Ito. Cose belle. Non tutte, ma questo passa il convento, se nel Colosseo scendono questi vorrà dire che sono i migliori che abbiamo, dovremo sperare che si ammazzino l’un l’altro per averne di migliori…
In tutto questo trionfo di interviste, sfide, processi, appelli e contrappelli, è fino ad ora mancato il confronto Prodi contro Berlusconi. Non che il secondo sia mancato ultimamente sul video, mancano solo due palleggi con Gullitt, una robetta di lingua con Sabrina Salerno, una canzone con Apicella sulle pensioni sociali e poi ce lo siamo visto in tutte le salse, anche se lui si lamenta che il Parlamento (quindi anche i suoi…) gli sta mettendo il bavaglio –forse perché, come tutti i piscioni, tende a sporcarsi di sugo…Di Prodi poco da dire, non credo nessuno lo voterà mai per averlo visto in tv, meno appare e meglio è per tutti.
E’ però da più di un mese che sta montando la polemica sfida sì-sfida no, come si fa-dove si fa, due parole a te-due a me, il conduttore mezzo vestito da forza italiota e mezzo ulivista, e stronzate simili. A cui nessuno in Italia si è appassionato, per la verità, sono beghe che si stanno ciucciando da soli, meno male.
Però sentire Berlusconi che accusa Prodi di volere sottrarsi al confronto, a prescindere dalle regole, fa pensare. Nel 2001, non decenni fa, Rutelli lo braccò per mesi, cercando un confronto con lui, e l’avrebbe fatto anche a casa di Emilio Fede, perché era sicuro che sarebbe il miglior modo per togliere voti a un candidato che in quel momento sembrava imbattibile, come poi fu. Lui, come scusa, trovò quella che Rutelli non era il vero leader, ma i leader erano altri: D’Alema, Veltroni, Prodi. Rutelli no, era solo una merda che era lì per sbaglio. E tanto fece e tanto disse che non ci fu verso di organizzare un confronto, al punto che Rutelli gli ultimi tre giorni di campagna elettorale gli sguinzagliò dietro uno dei suoi vestito da coniglio, che lo attendeva paziente sotto Via dell’Umiltà a ricordargli che era una merda.
Ora quel coniglio andrebbe rimesso.
A tutti e due i contendenti.
A Berlusconi, faccia di culo da competizione mondiale, perché finge di non avere memoria, e accusa Prodi di una manfrina politica che egli stesso avviò 5 anni fa; a Prodi perché si caca sotto ad affrontare il Silvione, che francamente appare abbastanza bollito, pur avendo sempre il colpo del campione che, lo capisco, può mettere ko chiunque in un testa a testa.
Chi ci rimette, forse, è il cittadino italiano, che si perde il gusto di vedere questi due imbecilli che se le cantano di santa ragione, come accade in quasi tutti i paesi democratici che si rispettino: che i leader designati ci facciano vedere di cosa sono capaci, se meritano il mio voto. Che si ammazzino, se lo vogliono, almeno tre volte nell’ultimo mese, sotto l’occhio dei giornalisti e delle telecamere, oltre che dello spettatore televisivo. Che ne escano fuori delle idee, anche fittizie, ma che possano realmente portare la sfida ad un livello più alto e migliore di “simpatici e antipatici”.
Si vorrebbe, dunque, una regola che imponga tutto questo, ma non solo per queste elezioni. Per sempre. Una regola intangibile di democrazia fittizia. E un buon modo per far vendere spot alle nostre tv…un confronto fra leader, testa a testa, non il quinto contro il terzo, anche se saranno anche più bravi e migliori.
Senza attendere che chi è in testa ai sondaggi cominci a schernirsi tirandosi indietro, sapendo che ha tutto da perdere da un confronto simile, si gettino le basi almeno per questo. Non sembra difficile. Ce la potete fare, sono due paginette di regolamento da scrivere, dettato dal buon senso, e da un minimo di rispetto per chi è chiamato alle urne, e se ne starebbe volentieri a casa, che tanto gli sembra tutto uguale.
Anche gentaglia come voi può farcela, coraggio.

aletozzi

Racconto la toscana che non sta nei depliant

Con molto piacere oggi ci occupiamo di Emiliano Gucci (e di una band di vecchie conoscenze) come si evince dall'articolo uscito ieri su "La Repubblica" di cui qui riportiamo ampi stralci:

Le librerie non fanno bene solo ai lettori, ma anche agli scrittori. Culicchia ha venduto migliaia di libri prima di pubblicarne uno, e per quella militanza oscura in mezzo agli scaffali ha conservato sempre una speciale gratitudine. Emiliano Gucci, che come Culicchia fa il commesso in una libreria, è d'accordo con lui "Stare in mezzo ai libri prima di pubblicarne uno mi ha aiutato a capire i meccanismi editoriali e a vivere meglio le mie aspettative di scrittore. E' come stare nella giungla insieme agli altri animali, invece che sognare chissà che." E a forza di stare nella giungla ci si è conquistato un posto tutto per sè. Trent'anni, molti mestieri alle spalle, chitarrista in gruppo punk rock, lo scrittore fiorentino ha appena pubblicato il suo secondo romanzo, Sto da cani (Ed. Lain-Fazi), una storia corale di amicizia e di amori, di scelte sbagliate e piccola criminalità, che David Fiesoli, Marco Vichi e Bobo Rondelli hanno presentato il 9 marzo alla Feltrinelli di Firenze. Intanto il suo libro d'esordio Donne e topi sta per diventare un film, "Ombre Rosse ha opzionato i diritti, sto scrivendo la sceneggiatura insieme a Jean P. Pearson, un regista canadese che vive in Italia" - prosegue Gucci - "scrivo racconti da una decina d'anni, alcuni hanno vinto alcuni piccoli premi che mi hanno incoraggiato ad andare avanti, ma esordire con una raccolta è difficile, così sono passato al romanzo. Rileggendo i miei racconti, che all'epoca mi sembravano bellissimi, mi sono accorto che dovevo ancora trovare un mio stile, liberarmi dall'influenza di certi maestri, quando ci sono riuscito il resto è venuto da sè. Gli autori che mi hanno fatto capire che poteva esserci uno spazio anche per me sono quelli che usano un linguaggio simile al mio, informale, immediato: Bukowskj, Hemingway, Fante, tra gli italiani Fenoglio, Bianciardi. Ma ricordo che quando uscì Tutti giù per terra di Culicchia mi sembrò una ventata di aria fresca. Racconto da sempre il mondo che conosco, come suggeriva Hemingway. È un mondo molto poco idilliaco e molto poco raccontato. Della Toscana si raccontano le sinuose curve del Chianti ma non della zona industriale di Prato. E in questo pezzo di provincia fiorentina un pò mediocre e marginale ci sento anche tanta ingenuità e buonsenso, un tipo di ignoranza mossa da sentimenti non cattivi. Quello che mi sta a cuore non è giudicare l'umanità che racconto, ma chiedermi quali possibilità le ha offerto la vita."

Fin qui l'articolo di Beatrice Manetti. A noi piace ricordare anche uno degli incipit che Emiliano ha messo in prima pagina. "Un bambino non è mai tutto suo padre, anche questo è un passo avanti". (Daniele Boccardi)

La redazione

07 marzo 2006

Un gran libro, due grandi donne


Il libro è Il mio nome dimenticato - Vita di Gerolamo Lazzeri. L'autrice è Annalisa Ferrari, insegnante alle scuole medie e madre di tre figli che, frequentando un corso di scrittura presso l'archivio di Lodi, si è imbattuta in un carteggio, datato 1928, in cui un certo Gerolamo Lazzeri si rivolgeva al podestà della città dichiarando che non avrebbe iscritto la figlia alle Giovani Italiane come richiesto pressantemente dal convitto. Gerolamo Lazzeri, e chi era costui? Annalisa ha scoperto che Gerolamo non era un personaggio qualsiasi all'epoca, anzi. Emigrato da Massa Carrara a Milano nel 1913, amico di Mussolini direttore rivoluzionario dell'Avanti, autodidatta eppure fine autore e critico letterario, socialista senza tentennamenti, pur esponendo così, come nel caso del convitto di Lodi, la moglie Hanny ed i quattro figli, a persecuzioni e privazioni da parte del regime diretto dal suo ex amico. Gerolamo, intellettuale puro così lontano dal conformismo e trasformismo italico del "tengo famiglia", muore a soli 47 anni nel 1941, prima di poter vedere il crollo del fascismo che tanto aveva avversato, senza mai piegar la testa. La famiglia si disperde, il suo nome viene dimenticato rapidamente, in un'Italia che è maestra in questo, come dice Mino Milani nella bella prefazione del libro. Poi è arrivata Annalisa, e la storia nella storia, la genesi di questo libro, tra viaggi in Lunigiana, telefonate oltreoceano, rintracciamenti fortunati come quello del figlio Dante, lucido 82enne appollaiato in cima ad un monte nel Trentino, meriterebbe un libro a parte. Basti dire che per due anni Annalisa è stata alla ricerca di riscontri e testimonianze, e per altri due ha assistito al balletto si pubblica-anzi no-ci siamo quasi- finchè il comune di origine, Bola di Tresana, ed un editore coraggioso (Chiappini, pure collezionista di libri, tra cui alcuni di Gerolamo) hanno permesso un lieto fine alla storia, con tanto di presentazione e l'intitolazione di una piazza a Lazzeri "intellettuale antifascista".
Come dice il Tozzi nostro inviato all'epoca, "ed è stato un bell'epilogo della presentazione una signora sorridente che, a microfoni spenti, inseguendo un suo pensiero, è andata a chiedere all'autrice se è vero che anche in questo caso le poteva confermare che dietro un grande uomo vi era una grande donna. Se cioè, la moglie di Gerolamo, Hanny, di cui nel libro c'è anche una bella foto, fosse una grande donna. E la risposta senza alcun dubbio è stata sì. Questo libro è dedicato anche a lei."
Noi lo dedichiamo a tutte le donne, che fino a poco tempo fa (qualcuna anche adesso) facevano dell' 8 marzo un giorno di mobilitazione per l'altra metà del cielo. Prima che arrivassero le cene e gli spogliarelli maschili.

La redazione

05 marzo 2006

The Truman (Capote) show

Mai letto nulla di Truman Capote.
Avevo visto tanti anni fa il film “Colazione da Tiffany”, e dalla storia ne avevo tratto l’idea di uno scrittore americano un po’ piacione, di quelli dall’happy end facile, pronti anche a far cantare la splendida Audrey Hepburn sul terrazzino di casa sua per ingraziarsi le folle.
Non sapevo nemmeno nulla della sua vita, almeno prima di vedere questo film, “Truman Capote- a sangue freddo”, candidato a diversi Oscar.
Ho così scoperto che era palesemente gay, che era discretamente insopportabile, a volte isterico, che collaborava con le migliori riviste americane scrivendo reportage, che è morto alcolizzato nel 1984, e che il suo romanzo più famoso è proprio questo “A sangue freddo”, scritto dal 1960 al 1964.
Suo ultimo romanzo, peraltro.
La storia narrata dal film è questa. Nel Novembre 1959 una famiglia di 4 persone in Kansas viene trovata trucidata nella sua casa. Capote, chissà perché, decide di andare sul posto per saperne di più, e si trova nei mesi a seguire il processo a due delinquenti di mezza tacca, scoperti con le mani nel sacco. Nel giro di poche settimane si arriva al verdetto: pena di morte. I due vengono trasferiti a San Quintino, in attesa dell’esecuzione, che sarebbe dovuta avvenire dopo sei settimane.
Capote, che aveva fatto amicizia con i due, e che è ormai completamente dentro la sua storia da scrivere –che sarà, dicono, il primo romanzo giornalistico della storia delle letteratura (forse dopo l’Iliade…)-, decide di trovar loro un avvocato e si installa a San Quintino, corrompendo il direttore del carcere, al fine di raccogliere in presa diretta le loro storie. I due ottengono un rinvio davanti alla Corte Suprema, poi un altro. Capote, felicissimo, entra ed esce dal carcere come se fosse la sua stanza da letto, avendo scoperto tutto o quasi dei due. Tranne il vissuto del giorno del delitto, che i delinquenti si rifiutano di raccontargli. Dopo qualche mese di queste ricerche, avendo raccolto sufficiente materiale, Capote prende e se ne va per un anno a scrivere il suo romanzo in Costa Brava col suo amante, un altro scrittore, tale Jack (Dunpy, ho poi scoperto, o qualcosa del genere), meno famoso di lui.
Dei due quasi si dimentica, tanto che questi gli scrivono lettere per sapere di lui e del romanzo, convinti che sia proprio quel romanzo a poter dar loro una speranza di fronte all’opinione pubblica. Nulla di più errato. Un anno dopo, a libro quasi finito, ma che già si preannunciava come un capolavoro, Capote organizza una lettura pubblica a New York, nella quale è evidente che considera i due più o meno come degli animali selvaggi. Ma la Corte Suprema rinvia ancora la loro esecuzione, ed è straordinaria la scena di Capote che entra per l’ennesima volta in carcere, convinto di salutare per l’ultima volta i due, ed uno dei due, quello che gli era più legato, lo abbraccia e lo ringrazia per quell’ennesimo rinvio. E’ lì che lui si incazza, ma si incazza in maniera davvero sgradevole, ed ottiene quello che fino ad allora gli era stato negato: il racconto della notte dell’eccidio. Una vera e propria mattanza senza motivo, se non la follia umana, spinta all’estremo limite.
Il suo “compito” è finito, ora può terminare il suo libro. Rimangono questi due poveracci, che continuano a chiamarlo dal carcere, sperando che lui gli trovi ancora un avvocato che li difenda in proroghe sempre più improbabili, mentre Capote è ormai arrivato al capolinea della parola “end” del romanzo, che poi lo consacrerà nella storia della letteratura americana.
Ma c’è un ultimo problema per pubblicarlo: i due sono ancora in vita. Davvero magistrale così l’ultima parte del film, con Capote in preda alla crisi di non poter ancora partorire il suo romanzo perché i delinquenti sono ancora in vita, e che comincia a bere, forse anche in preda ai sensi di colpa per aver abbandonato i due al loro destino, dopo aver spolpato loro l’anima.
Alla fine però i colpevoli vengono impiccati a San Quintino, e lui li va a trovare un’ultima volta, assistendo alla loro esecuzione. Giustizia è fatta, ora il romanzo può essere finalmente pubblicato. L’ultimo della sua vita, anche se Capote vivrà per altri 20 anni, per morire praticamente alcolizzato, dopo un cameo in “Invito a cena con delitto”. Oggi avrebbe poco più di 80 anni.
Fin qui il film, nel quale risalta l’interpretazione dell’attore principale, Philip Seymour Hofmann, nel ruolo di Capote, un ambiguo mix di fascino, sgradevolezza e egocentrico tormento. Interpretazione da Oscar, come credo fu quella di Capote nella sua vita: una vita per la Statuetta di Hollywood. Almeno a leggerla fra le righe del film.
Che scava nel rapporto, da sempre in bilico, fra artista e creazione, fra uomo e opera d’arte. Abbiamo ormai capito, dalle vite dei grandi, come non serva essere ottimi esseri umani per scrivere opere immortali, che i compromessi per l’artista siano visti solo come uno scalino in più da salire in nome della loro creazione, che quando parlano le pagine di un romanzo alla fine quello che c’è dietro conta poco. Almeno per loro. E per gli editori. E i critici. E forse anche per il grande pubblico.
Però, in effetti, Truman Capote, nel lontano 1960, scava un bel solco.
Negli anni di John Kennedy e Martin Luther King, dell’America nel pieno del suo “american dream”, che Capote si prende sulle spalle due delinquenti, aiutandoli a rimanere in vita altri 4 anni, solo per poter scrivere il suo romanzo. E poco conta una sua frase detta durante il film “Mi sento come un loro fratello, vissuto a casa con loro, solo che io sono uscito dalla porta davanti e loro da quella di dietro”: non attacca. Anche se per uno dei due, sul quale è in effetti incentrato il film, ci fu una specie di innamoramento, o comunque di reciproco “incontro di anime”, che porta anche il povero Perry alla fine del film a parlare con le stesse parole difficili di Capote, scatenando la rabbia del romanziere per essere andato oltre quella che era la sua intenzione primigenia: raccontare una storia. Nient’altro. Ma nel miglior modo possibile. Con la necessità, dunque, di avere in vita i due protagonisti il più possibile per raccoglierne le testimonianze in diretta.
Lo scrittore americano non solo entra nella storia del massacro dalla porta davanti, in questo caso, ma manipola la storia stessa, in nome del diritto di cronaca portato all’eccesso, come uno scienziato che tenga in vita artificialmente due cavie solo per fare esperimenti su di loro, all’insaputa delle cavie stesse. Qualche anno addietro ricordo un film con uno squallido Kirk Douglas cronista d’assalto, che in pratica impedì che alcuni rimasti dentro ad una caverna dopo un crollo ne uscissero, ritardando i soccorsi, solo per avere materiale sul quale pontificare. Ma quella era una sceneggiatura, questa no. Qui i due sono persone reali, forse anzi certamente felici di aver potuto vivere altri 4 anni in più solo per fare i polli in batteria dello scienziato Capote, ma del tutto inconsapevoli di questo, almeno fino alla fine, o quasi.
Capote nel film è davvero sgradevole, più o meno sempre, come del resto sono spesso sgradevoli tutte le “febbri”, almeno quando uno non c’è dentro, almeno quando il proprio termometro segna ancora 36,5 e piena salute. Sgradevolmente sopra le righe, con l’aggravante di essere lui a disegnarle queste righe sul foglio a sua immagine e somiglianza. Forse anche lui in parte inconsapevole di quello cui stava andando incontro, entrato in un gioco più grande di un uomo comunque grande come lui, che finirà per distruggere lui stesso per primo, micidiale legge del contrappasso per un fior di artista quale (comunque) era: non scrivere più.
Se non roba minore, o non terminata. Truman Capote finisce con “A sangue freddo” la sua precoce carriera di artista, ed il titolo si presta ad una doppia interpretazione, se cioè fu più sangue freddo quello dei due assassini o quello dello scrittore. Se ci voglia più sangue freddo per uccidere o per tenere in vita solo per raccontare al meglio una storia.
Sclta difficile, sono due opzioni riservate solo a Dio, almeno in teoria.
Solo che Capote le sfrutta tutte e due, prima tenendo in vita i due e poi augurandosene la morte come una liberazione, una volta finito il suo romanzo destinato all’immortalità letteraria. E Dio, in effetti, è immortale, almeno così dicono. A meno che anche lui prima o poi non finisca per morire solo e alcolizzato da qualche parte per essere andato troppo oltre anche ai suoi infiniti limiti, chissà. Ma questa è un’altra storia.
Però, a conti fatti, Capote rimane comunque nella storia letteraria anche e nonostante il racconto del suo comportamento di quegli anni, il valore morale dell’artista poco importa a molti. Anzi, a distanza di anni siamo qui a rileggere “A sangue freddo” giudicandolo, anche alla luce di tutto quello che abbiamo saputo sull’uomo Capote, come un capolavoro assoluto: cosa volete che conti, ad esempio, se la Fininvest abbia alle spalle i soldi della mafia se ha dato 20.000 posti di lavoro effettivi agli italiani? Alla fine della fiera quel che conta è che sia un’impresa florida ed affermata sul mercato e in borsa, il resto sono parole buone per i settimanali spazzatura, per le campagne elettorali o per le chiacchiere da bouvette a Montecitorio, fra una votazione e l’altra.
Così per Capote, e per il suo “sangue freddo”.
Resta solo da capire cosa ne penserà Dio, quello vero, di tutto questo.
Ma questa è decisamente un’altra storia.
Alessandro Tozzi

Femmine folli


Dal blog di Manuela Ardingo mardin.blogs.com (vedi il suo blog al nostro link Mardin)

Le femmine che amo io

Vorrei che certo livore per sempre smettesse di scorrermi. vorrei che semplicemente se ne uscisse. come tutto quello che non serve, con la pipì. vorrei che la mia pipì fosse ogni giorno di un colore diverso. così che io educativamente possa capire quello che mi inquina e non berne mai più. la televisione mi intristisce, ad esempio: lo so da sempre. ma anche il professionismo fine a se stesso, l'autoesaltazione propagandistica, la vuota vanità.vibro di rappresaglie senza volto, questioni passate e senza possibilità di evolversi. quella dell'eterno femminino, su tutte: questa squallidissima crociata rosa che portiamo avanti. senza niente di rivoluzionario alla base, se non questo misero discutibile vantaggio di poter fare quello che fanno gli uomini fingendosi uomini ma rimanendo donne. e poi discorsi in una direzione, parole in un'altra, interviste in un'altra ancora e noia. tanta noia, a soffocare il tutto. sembra impossibile ma ancora non abbiamo capito che il giro è finito, che siamo tornate al punto di partenza: mia nonna, davanti a me, mi guarda e ride. mi dico che quello che mi distingue da lei sia solo una certa abusata consapevolezza. non di più. non l'emancipazione emotiva, né quella fisica: partorisci quattro figlie, vivi per altri cinquant'anni e poi ne riparliamo. siamo governate dalle stesse dinamiche sciacquette di sempre. l'unica differenza è che noi, per farci accettare, siamo costrette a mascolinizzarci. nel corpo, nello stile di vita, negli atteggiamenti... e, si sa: semina un pensiero e raccoglierai un'azione, semina un'azione e raccoglierai un'abitudine, semina un'abitudine e raccoglierai un carattere, semina un carattere e raccoglierai un destino. nel bene e nel male. le vedo, più preoccupate di sembrare grasse che di sembrare stupide. le vedo e come scriveva simone de beauvoir: compiango il mio sesso. in palestra, armate di spazzola domano fiotti di capelli davanti allo specchio, con una furia che sembra avere i contorni di una malattia. poi escono e assumono l'aria civettuola che sanno, come se quello che sembrano fosse il risultato casuale di un insieme di situazioni del tutto indipendenti dalla loro volontà. le vedo truccarsi prima di andare in piscina. le vedo asciugarsi i capelli nude, spiando le altre che spiano spiate. le vedo cercare con ogni gesto di imporre il modello che rappresentano, sempre gli stessi: la maliarda, la signorina silvani, la lolita, l'intellettuale, il maschiaccio, la madre di famiglia, la rubamariti, la grandama dell'alta società... le sento sghignazzare su battute agghiaccianti. affermare con sicurezza che, al giorno d'oggi, conviene sposarsi un militare e sperare che non torni: perché l'indennità di guerra prevede cifre esorbitanti... discorsi da maschio bruto del ventennio. discorsi che non hanno niente di quella grazia che, altrove e quando è il caso, pretendono di incarnare. le osservo fare quello che sempre paga di più. trascurando chi sono e forse nemmeno sapendolo. vengono in palestra col trolley. dentro: un delirio di flaconcini e boccette delle firme più prestigiose, creme e detergenti in bottigliette tanto costose quanto piccole, spugnette e arricciacapelli come quelli della pubblicità. e io mi chiedo cosa significhi, esattamente, la parola vanità. dev'essere qualcosa di terribile, a guardarle. spalmano la crema su seni rifatti e tatuaggi tribali, si abbandonano a complicatissime alchimie cosmetiche pur di sembrare semplici. naturali. tutto per gli uomini, tutto per il successo con gli uomini. perché a loro importa solo che il mondo pensi che sono belle. esserlo conta già meno. giocano il gioco delle liberate ma sono più incatenate delle schiave più schiave. si comportano in modo da testimoniare, purtroppo, la presunta inferiorità del sesso femminile. perché per essere alla pari occorre, innanzitutto, accettarsi. e accettarsi non vuol dire essere sciatte, né trascurarsi. vuol dire equilibrio, come sempre.io adoro la femminilità nei vestiti, le cose sciantose e un po' antiche, i tacchi. io mi lavo, mi pettino, mi trucco. ma sono sempre io. non cerco di sembrare altro. non cerco di sembrare un'altra. seguo uno stile istintivo e perfettamente aderente alla mia anima. so già quello che mi piacerà tra un anno, tra dieci anni, tra venti. voglio rappresentare un'alternativa agli occhi di un uomo, non voglio essere come lui. né come i maghi dell'estetica dicono che una donna debba essere. mi sento alla pari di ogni essere vivente, ma diversa. profondamente diversa. soprattutto dagli uomini.per essere alla pari non servono le quote rosa, perché imporre per legge la quantità di uguaglianza di un sistema deprime la qualità del sistema tutto. dovrebbero aprire la strada i valori, le scelte personali, i meriti. dovrebbero essere premiati questi, liberamente e senza decreti. non le differenze di natura, non i trucchi imposti al gioco perché riescano a vincere anche i più deboli, non i salti mortali per sembrare quella che non sei. se continuiamo così, tra qualche anno, proporranno una legge che preveda quattro scambisti al parlamento ogni tre deputati omosessuali... continuando a coltivare l'equivoco che il sesso e la vita personale c'entrino qualcosa con la politica e la serietà. mi chiedo come sia possibile non accorgersi che le quote rosa sono un'enorme sconfitta, un'ammissione di inferiorità. l'unico modo per giocare al tavolo dei grandi. come quando, da bambini, gli altri ti escludevano per qualche motivo e tu lo raccontavi a casa e poi tornavi accompagnata da tuo padre. e la maestra chiamava i tuoi compagni che, ovviamente, negavano tutto e ti riaccoglievano - finti, pentiti e servili fin dall'infanzia. così, oggi. ci accettano perché la legge li obbliga a farlo. siamo diventate un numero da sbandierare, al di là di quello che possiamo o non possiamo dire, una merce di scambio: noi ne candidiamo trenta, noi trentacinque, noi quarantadue... che pena, non pensate? invece di fare un po' di autoanalisi, invece di capire cosa abbiamo che non va... abbiamo che siamo donne! abbiamo che siamo diverse! in televisione, tranne poche mascolinissime eccezioni, la donna si distingue dall'uomo per la profondità delle scollature e per la sapienza con cui imbastisce a forma di abito quel poco che ha. donne che fanno del proprio corpo l'unico messaggio, donne che si nascondono dietro mariti e amanti, donne manichino che si umiliano, donne che passano il proprio tempo a cercare di convincerci che la loro vita è solo il frutto di virtuose virtuosissime scelte. le femmine folli che amo io non sono così. loro sbagliano, cadono, inciampano, corrono senza motivo, tornano indietro, si bloccano. di alcune non so neanche se sono innamorate di qualcuno. di molte non so neanche immaginare di che sesso possa essere questo qualcuno. ma non importa, quello che ci lega percorre altri binari. di tutte amo il modo come guardano al momento. il modo come lo inseguono, quello in cui lo acchiappano. sono golose le femmine folli che amo io, e non se ne vergognano. non vanno in giro a fare le emancipate ma semplicemente s'offrono. s'offrono al mondo e a chi le vorrà amare. dolorosamente, quasi. fosse solo per un minuto, fosse anche per la vita. ieri una di loro si lavava nella doccia davanti alla mia, con la porta spalancata. era una donna enorme e nera, era madre natura, era la dea terra. insaponava il suo corpo con una grazia senza aggettivi. aveva enormi braccia pendule e fianchi rotondi e materni. il nero della sua pelle luccicava sotto l'acqua e illuminava tutti gli scheletrini tristi taglia quaranta barricati nelle altre docce. piega dopo piega si profumava il ventre. sollevava con la mano le sue grosse mammelle e le amava, si vedeva. usava un bagnoschiuma in una grande bottiglia formato convenienza. aveva in testa un telo colorato con stampe africane. era quello che era e c'era, fortissimamente. sono vive le femmine folli che amo io. ridono delle scritte sui muri di un bagno in un locale gotico a genova, con gli occhi biondissimi e pieni di gioie scapigliate. mi scrivono quattro parole quattro da una giornata difficile in giro per milano, per fare a metà. e io, non so come né perché, riesco a camminare con loro. mi inviano influssi poetici dal nordest, ogni giorno. lo so, ti rispondo, anche senza commenti. scivolano con me sui sedili di una volante della polizia rapita a mo' di taxi e ridono chiacchierano raccontano inventano creano. sono intelligenti, come solo una donna sa, parlano di potenza e debolezza del mio approccio col mondo. osservano quello che c'è e disegnano quello che manca. mi guardano pensose e dolci da un piedistallo al primo piano del colosseo. e a me basta sapere che esistono e che posso incontrare il loro sguardo antico e calmo, quando voglio. non si risparmiano le femmine folli che amo io. anche se il giorno dopo devono lavorare, anche se è tardi, anche se sono tristi, anche se hanno già bevuto troppo: continuano, loro. avvolte di arancione, anche quando sono vestite di nero. prendono quello che c'è con le mani se non, direttamente, con la bocca. non sapendo neanche a cosa servono le forchette.soffrono tanto le femmine folli che amo io. perché quaggiù non è facile e non hanno nessuna voglia di far finta che sì. troppo vecchie a sentir le nonne, troppo giovani a sentire i papà, troppo avanti a sentire il cuore, troppo indietro a sentire i giornali. le femmine folli che amo io sorridono pensando al come e non al quanto. e se una sera piangono è a causa di una sfumatura impercettibile, di un non so che di storto, non piangono mai perché è poco: sanno accontentarsi, loro. le femmine folli che amo io sanno svestirsi di tutto, generosamente. come dolcissime cipolle, pur avendo fatto dello scalogno il baluardo della propria cucina, si sfogliano, velo dopo velo e senza preoccuparsi: dimenticando con allegria che sotto l'ultimo strato non c'è niente e l'insieme delle foglie è tutto ciò che sono. le femmine folli che amo io non sono pagate per prestare il loro corpo ai più grandi stilisti italiani e fingere che sia diverso dal prostituirsi. se ci fosse un nome per questa epoca sarebbe l'epoca della prostituzione, scriveva boll. tutte prostitute, senza scampo. più o meno legali, non importa: il concetto cambia poco. cambia la velocità nell'io spendo quindi pretendo. cambiano gli sfondi: le donne rosa, oggi, operano nelle ambientazioni più insospettabili. cambiano i toni, forse: un po' più espliciti, quindi più onesti, quelli sulla cristoforo colombo. immagino. cambiano le modalità di pagamento: pagobancomat e carte di credito non sono ancora universalmente accettate, è vero. e cambia anche certa fedele sincerità, il non raccontarsela: le prostitute per strada sanno quello che fanno e perché, quelle arrampicate sulle varie scalinate aziendali no. il punto è che ognuno vive come vuole e nessuno deve giustificarsi di quello che fa o che non fa. così, vuoi diventare famosa per dimostrare ai tuoi parenti che sei bella e ce l'hai fatta pur non sapendo fare niente? sei disposta a tutto pur di riuscirci? bene, ma mentre ti rendi disponibile a tutto non rilasciare interviste in cui ti mostri stridulamente entusiasta: è lì che diventi insopportabile. di' che il tuo scopo è solo sapere che gli altri ti ritengono bella e invidiabile, raccontaci quanto è difficile non avendo niente della bellezza più autenticamente dionisiaca. non travestire la prima tappa da traguardo, è un trucchetto da bambini. dài. apprezzerei qualcosa tipo: - allora, signorina xxx, miss canottiera strappata duemilaquattro, fidanzata del bomber della yyy zzz, come sta vivendo questa prima esperienza televisiva? - male, mi sto prostituendo... non lo vede? ma continuo perché ho un sogno: gestire una casa di appuntamenti tutta mia! ecco, le femmine folli che amo io sono così: se ne accorgono quando si prostituiscono, e lo dicono.

Scritto da Mardin alle 13:51 del 3 marzo

03 marzo 2006

Dalla nostra amica all'Avana


Cuba,che dire?! Mi è piaciuta, altro che! Cuba la bella mulatta che cammina fiera. Come primo impatto, appena arrivata, mi sono sentita male, l'odore di nafta era insopportabile, mi sono detta subito non mi piacerà, ma quando ho cominciato a camminare per le strade dell'Avana sono rimasta incantata,dai colori delle persone,dalle parole sussurrate in un orecchio da un passante un po' troppo tenace,dai sorrisi e dagli occhi stupendi marrone scuro, intensi di questo popolo festaiolo. Ho deciso da subito che non avrei vissuto questo viaggio da spettatrice, ma mi ci sarei tuffata nel suo interno: panataxi ciao, taxi collettivi, gagua, o km a piedi, in questo modo entri in contatto con le persone. Han tutti qualcosa da raccontarti dopo che han chiesto. L'Avana vieja è stupenda nella sua fatiscenza,case che cadono eppure dentro ci vivono, all'inizio non volevo crederci, ma ci vivono,ci ballano pure, la parte restaurata ti fa capire quanto bella era questa città. Ma la cosa che più mi ha colpito camminando per le strade è il senso di adattamento di questa gente.Vedi aggiustare macchine vecchie di 50 anni che non ti capaciti come possano andare, eppure le aggiustano e ripartono, fanno code di ore per prendere un autobus stracolmo, fanno code per il pane, per prendere il poco cibo con la tessera, vivono in case spaventose, che ti chiedi come stanno in piedi, insomma lo sai, hanno un sacco di problemi, ma loro vivono tutto con calma, con ironia, con un sorriso. Noi impazziremmo dopo due giorni.Per me è stato facile con i soldi in tasca, ma una pazienza come la loro non ce l'hanno nemmeno i santi.E ti viene da pensare se ne vale la pena, se è giusto che per una situazione politica, per l'ignoranza di pochi (embargo), che per non cedere, si debba vivere di stenti, perchè è di quelli che vivono. Ma nessuno se ne vuole andare da Cuba, andarsene si ma per poi tornare a vivere nella grande isla. Diversi ragazzi ni hanno detto che i loro problemi li devono risolvere i cubani, senza vendersi; mi chiedo se è possibile in questo mondo globalizzato.Vedono noi che arriviamo carichi di dollari e ci permettiamo cose che loro sognano.Vendono il loro corpo allegramente, è l'unica merce di scambio che possiedono e sono anche bravi imprenditori di se stessi, visto l'eleganza con cui lo fanno,chissà che pensano veramente di certi babbioni che credono di essere amati e che loro rigirano tra le dita con arte felina, perchè è questo che sono fondalmentalmente:dei felini che ballano con sorprendente voluttà.Ho visitato tutto il possibile riguardante la revolucion, io digiuna di tutto e, capisci che è nel loro DNA non essere discepoli di nessuno tranne che delle loro convinzioni.Ho camminato così a lungo a l'Avana che ho perso 4 kg, è così piena di stimoli che non ti puoi fermare, sono andata anche a teatro a vedere il balletto della compagnia cubana di danza, bellissimo. Una sera sono andata al cinema a vedere Barrio Cuba, drammatico, però in sala (strapiena) tutti ridevano come pazzi, alla Zorra e il Cuervo ho visto un concerto jazz-latino, suonato benissimo a parte il fatto che dopo un'ora è andata via la corrente; mica hanno smesso, no, hanno continuato al buio, eliminata la tastiera gli altri strumenti potevano benissimo suonare acusticamente, i turisti dopo un po' se ne sono andati, sono rimasti i pochi cubani accompagnati e moi.Un giorno ho preso un taxi collettivo, una macchinona americana, ho sbattuto la portiera pensando non si chiudesse, il taxista si gira e mi dice:soave que se rompe.Sono così i cubani, non han niente ma è come se avessero tutto perchè se lo inventano giorno per giorno.Come fai a non amarli?

Maria

02 marzo 2006

Il Blog de Il Fondo

Berlusconi ha messo come proposta nel programma una serie di cose gratis agli ultrasettantenni: treni, cinema, stadi, autobus, zoccole, viagra, plastiche facciali e tutto quel che serve per una vecchiaia dignitosa. ma non sarà, mi chiedo, che compiendo 70 anni fra tre mesi si sta preparando un'altra leggina a suo favore? che grande omo...

2 marzo, un giorno in Italia

C'è qualcosa di pervicacemente malato in questo paese. Un giovane detenuto nel carcere di Livorno muore improvvisamente, viene tirato in ballo un malore, peccato il suo corpo sia coperto di lividi, la madre cerca di far aprire un' inchiesta, i giudici la negano, gli unici che le danno ascolto sono i tifosi della curva ed "Il Vernacoliere". La battaglia è ancora in corso, ma l'esito appare già scritto. Un ragazzo, incensurato, all'alba del 25 settembre a Ferrara, viene fermato dalla polizia, dicono che si sente male, muore, anche qui la madre vede un corpo con lividi molto sospetti, agita il caso, che ancora non è stato archiviato, ma quello che colpisce è il silenzio intorno all'episodio. Pochi giorni fa un vigilantes a Milano ammazza a colpi di pistola un marocchino che abitava nel palazzo a cui era di guardia (un palazzo con mini appartamenti affittati agli emigrati a 800-900 euro al mese) con altri colleghi, che identificavano chiunque entrasse e uscisse, una galera in pratica, e a pagamento. Dei carabinieri invece pestano saltandoci pure sopra un altro marocchino dopo l'arresto; il caso ha dieci minuti di notorietà perchè finisce in internet ed in tv per via del filmato che lo documenta. Prontamente i cittadini si mobilitano con una raccolta di firme per... esprimere solidarietà ai cc. Viene approvata una sciagurata legge sulla legittima difesa su input dei forcaioli leghisti, e subito un commerciante spara e ammazza un ladruncolo di un'azalea nel suo giardino... Che paese è questo? Che paese è un paese che non solo non si indigna più, ma volta le spalle e fa finta di nulla, quando va bene? Un paese impaurito, rancoroso, in cerca di qualche disgraziato che faccia da capro espiatorio, un paese sempre più americano, nel senso che è in mano ad una banda di mafiosi, bigotti, razzisti e fascisti, che bombardano di paure e aizzano ai peggiori istinti un popolo non più di cittadini ma di clienti, attraverso i media che controllano quasi integralmente. Un paese che censura la satira, in cui non si può nemmeno più rappresentare in tv Moliere all'una di notte, che chiama culattoni i gay e considera concubini chi convive fuori dal matrimonio. Che promette un milione di nuovi carcerati per droga, ed un poliziotto di quartiere e di condominio per tutti (e se non basta si privatizza, con i vigilantes, come a Milano). E che ha pure il coraggio di ergersi a difensore della civiltà e democrazia da esportare in Irak, sulla punta delle baionette.
Sono lontane anni luce le campagne di stampa per esigere giustizia per Pinelli o per le tante stragi impunite. Il comportamento dei media francesi, spagnoli o inglesi in casi simili, è diametralmente opposto. La primavera si avvicina, forse porterà un cambio di governo, ma il marciume, la miseria spirituale che ha ammorbato la nostra coscienza è penetrato in profondità, non sarà facile lavarlo via.
Oggi comunque è il 2 marzo; Margherita e Orlando si vogliono bene da tredici anni. E' bello come il sole il loro sentimento. Speriamo ci portino un pò di luce e tepore anche a noi.

Stefano

01 marzo 2006

Il PORCATE

Il nome descrive in maniera perfetta il gioco.
Un modo di essere già grandi anche da piccoli.
Lo “praticavo”, se mi si passa il termine, in un condominio della Roma bene, quartiere Balduina, dentro ad un bel giardino al centro di una decina di palazzi, poco sopra una piscina dove abbiamo trascorso parecchi scorci della nostra gioventù.
C’erano, in verità, altri due giochi molto gettonati in piscina, che potrebbero essere anch’essi spunti per parecchi racconti.
Uno era quello del calcio a bordo vasca, con una sedia come porta e palla piccola, si segnava solo sotto la sedia, quante vesciche rimediate giocando su quel maledetto asfalto…
Il secondo, entusiasmante, lo avevamo chiamato “Piscinetta”, e veniva ovviamente giocato nella piscina dei bambini, un portiere a difendere un lato della piscina quadrata, la palletta piccola, un centravanti in vasca (a volte due, quando si era in tanti), e ai lati quattro cinque persone a fare i cross per questo sciagurato, che di piede o di testa doveva infilarla nello spazio fra l’acqua e il bordo della piscina.
Gioco straordinario, davvero.
Io quando c’ero ero il portiere, e stazzavo già quasi cento chili tuffandomi a destra e a sinistra come un matto per parare questa palletta a volte impazzita, tanto che un giorno un’inquilina si lamentò dicendo che c’era una specie di rinoceronte che faceva degli schizzi molesti ed insopportabili dentro alla piscina dei bambini, ma quell’anno per fortuna il bagnino era appassionato di calcio e lasciava fare, anzi a fine serata si metteva a giocare anche lui insieme a noi.
Ma questi sono giochi forse più banali e che molti hanno alle loro spalle, qui siamo partiti da ben altro, da un gioco che già rendeva adulti a quindici anni, e forse insegnava ad affrontare la vita stessa.
O, quanto meno, a capire come doveva essere da grandi: dura, molto dura.
Il gioco, dal nome “Porcate”, che era tutto un programma, era più o meno questo: uno spazio rettangolare di un centinaio di metri quadri, con ringhiere su quasi tutti i lati, diviso per terra in lastroni anch’essi rettangolari di circa ottanta centimetri per un metro. Qua e là piante, anch’esse in vasi rettangolari, a creare disturbi, ed a movimentare le sfide.
Si giocava finché c’erano rettangoli disponibili, ho visto sfide anche con venti persone a volte.
Regole banali, ma categoriche: si giocava con una palletta piccola (sempre quella della piscinetta), solo con le mani, volendo anche colpendola al volo ma più facilmente dopo un rimbalzo, quello consentito.
Ognuno doveva semplicemente rimetterla nel campo di un altro, nulla di più. Ogni giocatore aveva tre vite (a volte, quando si cominciava a giocare sul far del tramonto solo due, chè il gioco doveva essere più veloce). Mano mano che i giocatori venivano eliminati, ci si stringeva abbandonando i rettangoli periferici, per stare comunque tutti vicini.
In teoria, detta così, un gioco banale e di interminabile durata, si trattava di palleggiare fino a che qualcuno non avesse sbagliato, o di tirarsi fortissimo l’uno con l’altro, cercando così di far sbagliare qualcuno.
In pratica, era un gioco che aveva in sé tutti i crismi del grande gioco che è da sempre il nostro Parlamento italiano.
La grandezza di Porcate, nome assolutamente calzante rispetto alla filosofia del gioco, era tutta nell’intreccio, nell’inciucio, nel cercare di stringere una rete di alleanze con i vicini di campo per evitare che qualcuno, prima o poi, ti tirasse una botta da un metro durante un banale palleggio, sottraendoti così una delle tue tre vite.
E, spesso, persa la prima vita, il passo era breve per morire definitivamente, gli altri giocatori erano lì come sciacalli che odoravano il tuo sangue, pronti a farti fuori appena ti mostravi loro più debole.
C’era in porcate non meno tattica di quella che possiamo trovare nel Risiko, ma senza alcuna componente di fortuna, che era data solo dalle piante in mezzo al campo, che a volte davano strane traiettorie alla palla, e ti facevano perdere anche quando nessuno aveva cercato di toglierti la vita in quel frangente, tanto che in una versione successiva del gioco, più legata a regole e certezze, si passò a ripetere ogni scambio nel quale la palla comunque toccava una di queste piante, che a quel punto venivano viste come salvifiche.
Quante polemiche mi ricordo per una palla sulla riga o giù di lì, per una pianta sfiorata dall’uno o dall’altro durante uno scambio, per una “palla accompagnata”; quanti musi, quante litigate, anche feroci, fra amici fraterni. Ma quanta voglia di ricominciare il giorno dopo, per vendicarsi dell’amico che ti aveva eliminato, per rimanere in gara il più a lungo possibile, per divertirti anche tu facendo porcate a quello del rettangolo accanto che da uno come te proprio non se l’aspettava.
Il gioco, alla fine, premiava i tattici, quelli che rimanevano nell’ombra, gli attendisti per definizione, mentre puniva inesorabilmente quelli che si volevano solo divertire nel gioco (tapini…) o chi si metteva da subito in guerra con i vicini, che prima o dopo restituivano la pariglia.
I primi a saltare erano sempre gli anelli più deboli della catena: o i più giovani, o i meno simpatici, o quelli che non erano del condominio, e dunque avevano meno possibilità di stringere alleanze importanti.
Poi fra quelli che rimanevano iniziava la partita vera.
Titic, e totoc, e titic, e titoc, fino a che qualcuno sbagliava, per colpa sua o perché qualcuno aveva fatto una porcata, inducendolo all’errore fatale.
Se qualcuno aveva fatto una porcata, siccome chi sbagliava aveva poi diritto alla battuta, come nel tennis, e questa poteva essere letale se ben sfruttata, si assisteva spesso ad una pantomima del “colpevole”, che si trincerava dietro a un “non l’ho fatto apposta, mi è scappata la mano, non vorrai mica metterti lì a cercare di farmi una porcata, eddai”, arrivando perfino a volte ad implorare il tizio (o la tizia, visto che porcate era giocato anche dal gentil sesso, sebbene non si ricordano nella storia del condominio affermazioni di una ragazza) di non mettersi lì a fare la guerra.
Anche perché, e qui era il bello, avendo quell’altro, il tipo in battuta, già una vita in meno in partenza, era chiaro che se si fosse andati al muro contro muro, e ognuno avesse sfruttato il suo turno di battuta, il primo ad uscire sarebbe stato proprio il tizio che si apprestava a battere.
Che, quindi, spesso si faceva convincere a non muovere guerra, e altrettanto spesso veniva immediatamente punito da colui il quale gli aveva inflitto la prima porcata, che spesso nel giro di pochi secondi gliene infliggeva un’altra.
Scatenando così il suo immediato risentimento e la inevitabile guerra, ma partendo da tre vite contro una sola.
A quel punto l’odore del sangue era fortissimo, e i pescecani accanto si moltiplicavano, e non bastava saper nuotare per uscirne vivi, una botta da un metro e via, eri fuori.
Gli ultimi due a rimanere in gara se la giocavano, sempre con la regola delle tre vite, ma ricominciando da capo, sempre a tennis con le mani, utilizzando i due campi centrali. Lì, a quel punto, ma solo a quel punto, sopravvissuti a tutte le porcate possibili e immaginabili, contava solo la bravura. Ma la finale era decisamente il lato meno interessante del gioco, l’importante era arrivarci.
La cosa divertente, a parte il gioco in sé, era anche l’aspetto strettamente sociologico di Porcate, e chi usciva di solito rimaneva per vedere come sarebbe andata a finire, si era curiosi di sapere chi sarebbe stato il vincitore di quella partita, quali strategie avrebbe usato, per poi cercare di metterle a frutto durante la partita dopo.
Quando però già non servivano più, ogni partita –proprio come la vita, e forse anche ogni singola legislatura del nostro Parlamento- faceva storia a sé, era un universo a parte, difficilmente riproducibile a comando, anche perchè i campi ed i giocatori cambiavano, e quindi si dovevano stringere nuove alleanze con persone diverse.
Il gioco non aveva arbitri, regnava la legge del più forte e quella del gruppo, raro esempio di democrazia popolare, autoritarismo e oligarchia, da fondersi tutto insieme in una strana miscela, spesso esplosiva, ma comunque divertente ed istruttiva.
Ho visto gente che aveva ragione da vendere vedersi togliere in maniera spudorata una vita, e gente che aveva torto farsi forte degli amici che aveva vicini per non morire.
Pure, nonostante il libero arbitrio assoluto, nessuno ebbe veramente mai a che ridire del gioco e di chi abitualmente ne dettava le regole: chi entrava, anche solo per una partita, ne accettava immediatamente tutte le regole, nessuna esclusa. E, se era bravo, a volte vinceva anche, non era affatto obbligatorio che vincesse uno del condominio, anche perché non c’erano due squadre contrapposte, e tutto sommato non ci voleva un’abilità particolare per giocare.
Si trattava di essere tattici, un po’ sociologi, e molto politici.
Probabilmente un piccolo Berlusconi sarebbe risultato spesso vincitore, mentre più facilmente un piccolo D’Alema sarebbe più facilmente risultato antipatico, e tirato fuori a furia di porcate dagli altri contendenti.
Ma erano regole che saltavano ad ogni partita, a volte erano proprio quelli più tattici ad essere eliminati per primi, proprio perché più pericolosi, spesso odiati per il loro nascondersi dietro una pianta periferica, rimanendo lì ad osservare gli altri che si battagliavano.
Ricordo che si rimaneva a giocare anche dopo il tramonto, alla luce di un paio di lampioni, che rendevano ancora più discutibili le righe, e rendevano ogni vittoria ancora più polemica, e per questo più bella per chi la otteneva.
Poi, ogni sera, arrivava un richiamo da casa, la cena era pronta.
Tutti sudati spesso si faceva una doccia di sotto, se era estate e la piscina era aperta, si salutava la compagnia e ci si dava appuntamento al giorno seguente, altrimenti si tornava a casa così, come capitava, pronti a sorbirsi qualche lamentela dei genitori, che vedevano in tutto questo niente altro che una inutile perdita di tempo.
Non avevano capito niente.
Ora molti di quei protagonisti sono affermati professionisti, qualcuno anche politico. Gente importante, realizzata, con vestiti da mille euro nell’armadio, che nella vita ha il fido in banca, e fa le vacanze al mare d’estate e in montagna d’inverno.
Forse non lo sanno, ma Porcate loro ce l’hanno nel sangue, è cresciuto insieme a loro, anche se non ci giocano più da dieci e passa anni. E li vedi, quando stanno per farne una nella loro professione, nella vita quotidiana, che si mettono lì proprio come avrebbero fatto su quel rettangolo di gioco, con un sorriso sardonico, che preannuncia la porcata.
Che puntuale arriva, a chi tocca tocca, c’è poco da fare.
Tornano bambini, chissà; forse si sentono vivi, o forse è una cosa che è nel loro Dna, vai a capire, ma il gusto della Porcata è rimasto.
Solo che è cambiato il mondo circostante: non tutti accettano le regole, non tutti sono pronti a calarsi in quel contesto, tutti o quasi se la prendono per una Porcata.
Non hanno capito che non c’è cattiveria dietro, c’è solo un gioco, un bambinone in giacca e cravatta che caccia una botta alla palla con le mani in quel rettangolo d’asfalto solo con il sano divertimento di farlo, in attesa che prima o poi i tuoi ti chiamino per quel piatto di pasta al sugo già a tavola, senza rancori che durino più di tre minuti contati, anche se si erano combinate porcate belle grosse, e degne di essere ricordate nei giorni a seguire da tutti gli amici del condominio.
Lo vedo ora quel bambinone che alla fine della partita lascia il campo tutto sudato, in giacca e cravatta, e si dirige verso casa nella notte buia, meditando sulla bella giornata appena trascorsa.
Ha il viso di uno di noi, forse sono io stesso.
In faccia, chiunque egli sia, ha stampato un sorriso: oggi è stata una bella giornata e la vita, domani, è un libro tutto da scrivere.
L’importante è che si possa giocare anche domani.

Blog de Il Fondo