05 marzo 2006

The Truman (Capote) show

Mai letto nulla di Truman Capote.
Avevo visto tanti anni fa il film “Colazione da Tiffany”, e dalla storia ne avevo tratto l’idea di uno scrittore americano un po’ piacione, di quelli dall’happy end facile, pronti anche a far cantare la splendida Audrey Hepburn sul terrazzino di casa sua per ingraziarsi le folle.
Non sapevo nemmeno nulla della sua vita, almeno prima di vedere questo film, “Truman Capote- a sangue freddo”, candidato a diversi Oscar.
Ho così scoperto che era palesemente gay, che era discretamente insopportabile, a volte isterico, che collaborava con le migliori riviste americane scrivendo reportage, che è morto alcolizzato nel 1984, e che il suo romanzo più famoso è proprio questo “A sangue freddo”, scritto dal 1960 al 1964.
Suo ultimo romanzo, peraltro.
La storia narrata dal film è questa. Nel Novembre 1959 una famiglia di 4 persone in Kansas viene trovata trucidata nella sua casa. Capote, chissà perché, decide di andare sul posto per saperne di più, e si trova nei mesi a seguire il processo a due delinquenti di mezza tacca, scoperti con le mani nel sacco. Nel giro di poche settimane si arriva al verdetto: pena di morte. I due vengono trasferiti a San Quintino, in attesa dell’esecuzione, che sarebbe dovuta avvenire dopo sei settimane.
Capote, che aveva fatto amicizia con i due, e che è ormai completamente dentro la sua storia da scrivere –che sarà, dicono, il primo romanzo giornalistico della storia delle letteratura (forse dopo l’Iliade…)-, decide di trovar loro un avvocato e si installa a San Quintino, corrompendo il direttore del carcere, al fine di raccogliere in presa diretta le loro storie. I due ottengono un rinvio davanti alla Corte Suprema, poi un altro. Capote, felicissimo, entra ed esce dal carcere come se fosse la sua stanza da letto, avendo scoperto tutto o quasi dei due. Tranne il vissuto del giorno del delitto, che i delinquenti si rifiutano di raccontargli. Dopo qualche mese di queste ricerche, avendo raccolto sufficiente materiale, Capote prende e se ne va per un anno a scrivere il suo romanzo in Costa Brava col suo amante, un altro scrittore, tale Jack (Dunpy, ho poi scoperto, o qualcosa del genere), meno famoso di lui.
Dei due quasi si dimentica, tanto che questi gli scrivono lettere per sapere di lui e del romanzo, convinti che sia proprio quel romanzo a poter dar loro una speranza di fronte all’opinione pubblica. Nulla di più errato. Un anno dopo, a libro quasi finito, ma che già si preannunciava come un capolavoro, Capote organizza una lettura pubblica a New York, nella quale è evidente che considera i due più o meno come degli animali selvaggi. Ma la Corte Suprema rinvia ancora la loro esecuzione, ed è straordinaria la scena di Capote che entra per l’ennesima volta in carcere, convinto di salutare per l’ultima volta i due, ed uno dei due, quello che gli era più legato, lo abbraccia e lo ringrazia per quell’ennesimo rinvio. E’ lì che lui si incazza, ma si incazza in maniera davvero sgradevole, ed ottiene quello che fino ad allora gli era stato negato: il racconto della notte dell’eccidio. Una vera e propria mattanza senza motivo, se non la follia umana, spinta all’estremo limite.
Il suo “compito” è finito, ora può terminare il suo libro. Rimangono questi due poveracci, che continuano a chiamarlo dal carcere, sperando che lui gli trovi ancora un avvocato che li difenda in proroghe sempre più improbabili, mentre Capote è ormai arrivato al capolinea della parola “end” del romanzo, che poi lo consacrerà nella storia della letteratura americana.
Ma c’è un ultimo problema per pubblicarlo: i due sono ancora in vita. Davvero magistrale così l’ultima parte del film, con Capote in preda alla crisi di non poter ancora partorire il suo romanzo perché i delinquenti sono ancora in vita, e che comincia a bere, forse anche in preda ai sensi di colpa per aver abbandonato i due al loro destino, dopo aver spolpato loro l’anima.
Alla fine però i colpevoli vengono impiccati a San Quintino, e lui li va a trovare un’ultima volta, assistendo alla loro esecuzione. Giustizia è fatta, ora il romanzo può essere finalmente pubblicato. L’ultimo della sua vita, anche se Capote vivrà per altri 20 anni, per morire praticamente alcolizzato, dopo un cameo in “Invito a cena con delitto”. Oggi avrebbe poco più di 80 anni.
Fin qui il film, nel quale risalta l’interpretazione dell’attore principale, Philip Seymour Hofmann, nel ruolo di Capote, un ambiguo mix di fascino, sgradevolezza e egocentrico tormento. Interpretazione da Oscar, come credo fu quella di Capote nella sua vita: una vita per la Statuetta di Hollywood. Almeno a leggerla fra le righe del film.
Che scava nel rapporto, da sempre in bilico, fra artista e creazione, fra uomo e opera d’arte. Abbiamo ormai capito, dalle vite dei grandi, come non serva essere ottimi esseri umani per scrivere opere immortali, che i compromessi per l’artista siano visti solo come uno scalino in più da salire in nome della loro creazione, che quando parlano le pagine di un romanzo alla fine quello che c’è dietro conta poco. Almeno per loro. E per gli editori. E i critici. E forse anche per il grande pubblico.
Però, in effetti, Truman Capote, nel lontano 1960, scava un bel solco.
Negli anni di John Kennedy e Martin Luther King, dell’America nel pieno del suo “american dream”, che Capote si prende sulle spalle due delinquenti, aiutandoli a rimanere in vita altri 4 anni, solo per poter scrivere il suo romanzo. E poco conta una sua frase detta durante il film “Mi sento come un loro fratello, vissuto a casa con loro, solo che io sono uscito dalla porta davanti e loro da quella di dietro”: non attacca. Anche se per uno dei due, sul quale è in effetti incentrato il film, ci fu una specie di innamoramento, o comunque di reciproco “incontro di anime”, che porta anche il povero Perry alla fine del film a parlare con le stesse parole difficili di Capote, scatenando la rabbia del romanziere per essere andato oltre quella che era la sua intenzione primigenia: raccontare una storia. Nient’altro. Ma nel miglior modo possibile. Con la necessità, dunque, di avere in vita i due protagonisti il più possibile per raccoglierne le testimonianze in diretta.
Lo scrittore americano non solo entra nella storia del massacro dalla porta davanti, in questo caso, ma manipola la storia stessa, in nome del diritto di cronaca portato all’eccesso, come uno scienziato che tenga in vita artificialmente due cavie solo per fare esperimenti su di loro, all’insaputa delle cavie stesse. Qualche anno addietro ricordo un film con uno squallido Kirk Douglas cronista d’assalto, che in pratica impedì che alcuni rimasti dentro ad una caverna dopo un crollo ne uscissero, ritardando i soccorsi, solo per avere materiale sul quale pontificare. Ma quella era una sceneggiatura, questa no. Qui i due sono persone reali, forse anzi certamente felici di aver potuto vivere altri 4 anni in più solo per fare i polli in batteria dello scienziato Capote, ma del tutto inconsapevoli di questo, almeno fino alla fine, o quasi.
Capote nel film è davvero sgradevole, più o meno sempre, come del resto sono spesso sgradevoli tutte le “febbri”, almeno quando uno non c’è dentro, almeno quando il proprio termometro segna ancora 36,5 e piena salute. Sgradevolmente sopra le righe, con l’aggravante di essere lui a disegnarle queste righe sul foglio a sua immagine e somiglianza. Forse anche lui in parte inconsapevole di quello cui stava andando incontro, entrato in un gioco più grande di un uomo comunque grande come lui, che finirà per distruggere lui stesso per primo, micidiale legge del contrappasso per un fior di artista quale (comunque) era: non scrivere più.
Se non roba minore, o non terminata. Truman Capote finisce con “A sangue freddo” la sua precoce carriera di artista, ed il titolo si presta ad una doppia interpretazione, se cioè fu più sangue freddo quello dei due assassini o quello dello scrittore. Se ci voglia più sangue freddo per uccidere o per tenere in vita solo per raccontare al meglio una storia.
Sclta difficile, sono due opzioni riservate solo a Dio, almeno in teoria.
Solo che Capote le sfrutta tutte e due, prima tenendo in vita i due e poi augurandosene la morte come una liberazione, una volta finito il suo romanzo destinato all’immortalità letteraria. E Dio, in effetti, è immortale, almeno così dicono. A meno che anche lui prima o poi non finisca per morire solo e alcolizzato da qualche parte per essere andato troppo oltre anche ai suoi infiniti limiti, chissà. Ma questa è un’altra storia.
Però, a conti fatti, Capote rimane comunque nella storia letteraria anche e nonostante il racconto del suo comportamento di quegli anni, il valore morale dell’artista poco importa a molti. Anzi, a distanza di anni siamo qui a rileggere “A sangue freddo” giudicandolo, anche alla luce di tutto quello che abbiamo saputo sull’uomo Capote, come un capolavoro assoluto: cosa volete che conti, ad esempio, se la Fininvest abbia alle spalle i soldi della mafia se ha dato 20.000 posti di lavoro effettivi agli italiani? Alla fine della fiera quel che conta è che sia un’impresa florida ed affermata sul mercato e in borsa, il resto sono parole buone per i settimanali spazzatura, per le campagne elettorali o per le chiacchiere da bouvette a Montecitorio, fra una votazione e l’altra.
Così per Capote, e per il suo “sangue freddo”.
Resta solo da capire cosa ne penserà Dio, quello vero, di tutto questo.
Ma questa è decisamente un’altra storia.
Alessandro Tozzi

3 commenti:

Anonimo ha detto...

sì, mi faccio prendere dall'inserimento...scusate, è un pezzo mio

Anonimo ha detto...

non si era capito, sai....come del film e del libro, non si è capito se ti è piaciuto...

Anonimo ha detto...

è bello come documento di una storia particolare e di un'epoca.
bella l'interpretazione di Capote, che ieri notte ha vinto l'Oscar, per quel che vale.
intrigante il discorso sulla scrittura, soprattutto per chi scrive.
ma non voleva essere una recensione: andate/non andate a vederlo.
comunque nel dubbio andate...