22 dicembre 2007

Auguri dal Fondo del cuore e dal cuore del Fondo

Come è noto, nel settembre di quest'anno al festival di Pitigliano, è stato ripresentato da Stampa Alternativa il primo ed ormai introvabile libro di Luciana Bellini Racconti Raccontati. Ci pare bello festeggiare il Natale e soprattutto l'Anno nuovo con voi con uno di questi racconti da leggere o rileggere nel canto del fuoco o vicino ad una persona cara (magari senza gettarla nel camino al posto del ceppo di Natale, eh!) "... io pensavo che i Racconti garbassero alle donne del vicolo mio e a qualche altro paesano e basta. Mai e poi mai mi sarei immaginata che venissero letti a scuola dai ragazzi delle superiori, nè che ai cittini di tre o quattro anni interessasse Il Mare di Orbetello - ...e quando riscappai, chissà perchè, pensavo di avè i piedi macchiati di celeste - Oltre a Biancaneve e a Heidi volevano che le loro mamme gli leggessero di quella ragazzina che per la prima volta vide il mare. A loro quei piedi celesti quanto gli garbavano..." (Dalla introduzione di Luciana Bellini alla nuova edizione)

21 dicembre 2007

Luoghi comuni......

Luoghi comuni contro rom e sinti. Parte quarta: porrajmos (4 di 4)

di Alberto Prunetti

sintirom4.jpgForse l’unico popolo che non ha mai dichiarato una guerra. L’unico popolo che non ha mai preteso un territorio da governare, che non ha mai innalzato dei “sacri” confini da difendere a suon di mitraglia.
Hanno continuato a camminare, spingendosi da oriente a occidente.
Li hanno massacrati i nazisti negli zigeunerlager e nessuno ha riconosciuto il loro olocausto.
Oggi, più che mai, sono circondati dai sospetti e da pratiche che rendono le loro esistenze sempre più marginali.

Lessico veltroniano“Bonificare”. “Sanare”. Chi usa questi lemmi da esperto di profilassi sociale? Il sindaco di Roma, citato in una nota Ansa del 6 dicembre. Non contento di aver “demolito”, “sgomberato”, “spostato”, “ricollocato” e “delocalizzato”, commenta i risultati raggiunti nell’urbanistica del disprezzo: “un lavoro grandissimo, senza paragoni”. Con altri occhi, ai rom rimane il diritto di usare il termine “porrajmos”, che in rromanì significa sia “distruzione” che “olocausto”.

Dai verbi ai nomi propri…
Sembravano lontani gli anni in cui gli italiani si scoprirono figli del ceppo di Ario e la persecuzione dell’ebreo era atto meritorio sancito dai codici della patria. A quell’epoca non mancava chi, per nascondere le proprie origini, cambiava il proprio nome. “Mai più!”, giurarono i padri della repubblica. E invece succede ancora. Casi di rom costretti a cambiare nome per nascondere la propria identità succedono sempre più spesso. Gli ultimi casi di cui mi è giunta voce sono registrati a Pescara.

Dai nomi alle cifre…
Ogni giorno siamo storditi da cifre che ci ricordano quanto sono criminali i cosiddetti “extracomunitari”. Ragioniamo un po’ su queste cifre "criminali". Consideriamo…
- che le cifre riportate da tanti media con abbondanza di zeri non si basano sulle sentenze ma sulle denunce, che sono statisticamente più elevate e meno verificabili;
- che queste cifre conteggiano i detenuti in attesa di giudizio. Ora, è vero che molti stranieri stanno in carcere (nell’attesa, non sempre breve) di un giudizio, ma è solo qui che si manifesta la loro superiorità numerica. Prendiamo alcuni dati esposti in uno studio della Fondazione Michelini, riferiti al carcere fiorentino di Sollicciano. A Sollicciano i detenuti stranieri sono la maggioranza tra quelli in attesa di giudizio, ma diventano una minoranza se si considera la popolazione con una pena passata in giudicato. Questo significa che spesso vengono arbitrariamente arrestati e solo dopo il processo riescono a dimostrare la propria innocenza. Di fatto, nell’affollatissimo carcere di Sollicciano, al 4 ottobre 2007 solo il 14,7 degli stranieri stava scontando una pena definitiva, gli altri erano lì ad aspettare un processo.
- ancora: gli immigrati di Sollicciano stanno in carcere per pene detentive molto brevi (spesso per aver commesso un solo reato, laddove i residenti italiani espiano pene molto più lunghe e scontano la violazione di più fattispecie penali). Questo dimostra che gli immigrati non delinquono più degli italiani: solo subiscono, checché se ne dica nel becero qualunquismo dei giornali, un trattamento più severo, senza godere di arresti domiciliari o sanzioni amministrative alternative, senza l’applicazione di benefici condizionali e spesso senza un’assistenza forense decente (nessun patrocinio gratuito — per cui serve residenza e lavoro regolare, anche se mal pagato — e quindi il ripiego sull’avvocato d’ufficio che, nel minimo sforzo, cerca sempre il patteggiamento): tutto questo permette, ai tanti che agitano lo straccio della “tolleranza zero” di sostenere l’equazione criminale=immigrato.
A questo va aggiunto:
- che è in azione una tendenza persecutoria e paranoica che spinge chi ha subito un furto a denunciare di principio uno straniero;
- che questa tendenza è rafforzata spesso dagli agenti di pubblica sicurezza che raccolgono le denunce;
- che infine le cifre sui cosiddetti crimini degli immigrati sono ingigantite da un elemento chiave: il fatto che essendo gli immigrati stati dichiarati illegali, in quanto obbligati in tanti alla clandestinità, sono ipso facto criminali, e delinquono per il fatto stesso di respirare dentro all'italico suolo.

Visto tutto ciò si può affermare che, in genere, gli immigrati non delinquono più degli italiani. E, se anche accadesse, sarebbe comprensibile che comportamenti illegali siano più diffusi in quei gruppi sociali che soffrono di una situazione di disuguaglianza di accesso alle risorse economiche e di riconoscimento sociale.

Ripassiamo adesso alcuni luoghi comuni contro i rom e i sinti, in maniera un po’ affrettata (non sono comunque più ragionati i luoghi comuni di chi stigmatizza gli “zingari” tra un aperitivo e un altro).

Non mandano i loro figli a scuola
Si può anche discutere l’ipotesi che la scuola, come la conosciamo, sia l’unico modo per creare un percorso educativo, ma non è questo il luogo adatto. Di certo esiste una corrente di pensiero che parla di descolarizzazione (si pensi agli scritti di Ivan Illich e alle vie alternative al sistema-scuola nella costruzione di un percorso educativo), mentre altre ipotesi valorizzano le culture orali e non letterate, evidenziando alcune facoltà cognitive che la scrittura e l’alfabetizzazione in qualche modo fanno appassire.
Ma non voglio parlare di questo. Voglio parlare di quei bambini che si trovano la casa sfasciata dalle ruspe, con i cingoli che passano sopra i loro quaderni. Coi loro genitori costretti a sbaraccare, a raccattare tra le lamiere qualche misero bene. Costretti a traslocare ogni tre mesi in qualche posto sempre più lontano dalla tangenziale che cinge la città. Sempre più lontani dalla scuola. Una domanda. Riuscireste a mandare i vostri figli a scuola senza una macchina, vivendo a 15 km dalla scuola, costretti a un trasloco coatto ogni pochi mesi, e coi vostri cocci distrutti dalle ruspe? Riuscireste? E se anche ci riusciste, che ne dite se i vostri figli tornassero a casa imbronciati perché gli altri non rivolgono loro la parola? Perché i maestri sono stressati dato che i genitori degli altri bambini hanno minacciato di cambiare scuola solo perché in quella classe ci sono gli “zingari”… Allora… sono i rom che non mandano i bambini a scuola, o è la società italiana che fa di tutto perché i bambini rom non riescano neanche a arrivarci a scuola? (per non parlare dei progetti di scuole dentro ai campi, che sono delle scuole-ghetto che servono solo a mantenere l’apartheid tra rom e non rom).


Devono parlare italiano se vogliono stare qui… (con la variante: sono stranieri…)

Non si capisce perché. Nessuno va a dire una cosa del genere per esempio ai cittadini americani che vivono nel centro di Firenze. Una colonia di circa 5mila persone, molte delle quali vivono in Italia per un periodo di almeno sei mesi senza fare neanche lo sforzo di parlare italiano (non basta frequentare i corsi di lingua: è noto che le lingue si imparano per strada, mescolandosi con gli indigeni). A Firenze in centro parla inglese il giornalaio, il trippaio, anche il trombaio (non spaventatevi: è solo l’idraulico). Bene, ormai in centro a Firenze si parla innanzitutto inglese. E nessuno si lamenta.
Si lamentano invece dei rom, che di solito parlano almeno due lingue (cioè il rromaì e l’italiano, più in molti il rumeno, o il serbo, o altre lingue del loro paese di origine): essendo i primi veri europei, i primi ad avere una coscienza multiculturale, la loro lingua sembra cominciare ad ospitare tante lingue diverse, quasi fosse un esperanto (o almeno a me, che certo non sono un esperto di rromanì, e quindi può darsi che mi sbaglio, ha fatto questo effetto ascoltare per alcune ore di seguito alcune conversazioni di rom).

Sul fatto di essere stranieri. Beh, non è mica una colpa. Per me anzi è un pregio. Ricordo ancora quei bei vecchietti internazionalisti che si vantavano d’esser stati “stranieri in ogni luogo” (variante libertaria) o “cittadini del mondo” (variante comunista). Beh, adesso gli stranieri (poveri) sono visti come barbari invasori… ma siete sicuri che i sinti siano stranieri? Guardate che in Italia non ci sono solo i siciliani, i romani, i piemontesi e via dicendo… in Italia — anche se le istituzioni tardano a riconoscerlo (o forse proprio per questo) — la gente non si rende conto che si parlano lingue non italiane che non sono immigrate: sono lingue di italiani che vivono da secoli nella penisola. I sinti sono italiani quanto i piemontesi o i toscani… sono italiani da sempre, almeno dal cinquecento,quando anche i miei avi probabilmente erano arabi o normanni. Ci sono rom che parlano l’italiano come lingua seconda e sinti e rom che parlano l’italiano come lingua madre, anzi, neanche un italiano regionale, ma parlano dialetto veneto stretto. Eppure è comodo non riconoscere questa minoranza linguistica, parlare di loro come se fossero degli stranieri (al punto che a farsi carico di loro, anche in Veneto e nonostante le loro carte d’identità, in certi casi è l’ufficio stranieri!).

Sono nomadi… non vogliono una casa…
In realtà pochi rom sono nomadi ai nostri giorni. Molti vivono in case, facendosi spennare ogni mese con affitti sempre più esosi, come noi. Altri vivono in quei ghetti che si chiamano campi nomadi. Più che nomadi, questi ultimi sono concentrati in ghetti. Molti rom, soprattutto quelli rifugiatisi in Italia dopo i conflitti nella ex-Jugoslavia, prima di arrivare in Italia avevano una casa. Adesso li chiamano nomadi, alimentando l’idea che non siano sedentari. Invece sono solo degli sfollati a cui l’Italia non riconosce il diritto di un tetto. Sono stati “nomadizzati” in maniera coatta. Molti in realtà non sono affatto nomadi: sono semplicemente senza fissa dimora (secondo alcune stime le persone senza fissa dimora in Italia sono tra i 65 e i 100mila).
Oggi solo pochi continuano la vita veramente nomade del tempi andati, coi camper che sostituiscono i carretti d’un tempo. E hanno tutto il diritto di farlo. L’umanità ha un passato lungo e meraviglioso di nomadismo alle spalle. Ma non si può agitare l’etichetta di nomadi solo per giustificare i continui traslochi. Questo non è nomadismo: è deportazione.

Non hanno voglia di lavorare…
Oggi i rom possono accedere solo ai lavori pagati peggio, ai lavori più duri, in nero, nelle condizioni di sicurezza meno garantite. (E non so se nelle loro condizioni gli onesti italiani avrebbero tanta voglia di lavorare). Spesso per continuare a lavorare devono nascondere il fatto che vivono in un campo nomadi. Altri sono in Italia come richiedenti l’asilo politico, e secondo una legge paradossale non possono lavorare mentre attendono il riconoscimento della loro domanda: a volte devono aspettare anche due anni, e al massimo possono ottenere una borsa lavoro di qualche euro. Spesso non trovano lavoro perché i datori di lavoro hanno paura di loro.
Infine faccio presente che non aver voglia di lavorare non significa essere disumani. Direi che è un comprensibile comportamento umano. Molti popoli di cacciatori e raccoglitori dedicano al lavoro una parte minima della loro vita quotidiana. Ma anche qui finirei per aprire un altro margine di discorso, e quindi mi fermo.

Infine… chi difenderà i sacri confini?
Il problema se l’è posto anche Beppe Grillo, spaventato da troppa televisione (non basta non andarci, a volte è anche meglio non guardarla: sennò si finisce a credere che il mondo sia pieno di invasori alieni di lingua romena, e poi bisogna leggersi Carmilla, che è anche una rivista fantascienza, per farsi dire che non è vero). Gli rispondo con le parole dell’antropologo David Graber. A chi difende il diritto di circolazione delle merci, limitando il diritto di circolazione delle persone, Graeber obietta: “se dobbiamo essere globalizzati, facciamolo fino in fondo: eliminiamo i confini nazionali. Lasciamo che la gente vada e venga come vuole, e viva là dove più desidera”

Paura? Arriveranno i barbari ad abbeverarsi a San Pietro, come sognava quel romantico di Coerderoy? Ma facciamo ancora parlare Graeber, che secondo me coglie il nocciolo della questione: “ Nel momento in cui un abitante della Tanzania o del Laos non avrà più problemi legali per andare a vivere a Minneapolis o a Rotterdam, i governi dei paesi ricchi e potenti faranno di tutto per assicurarsi che la gente della Tanzania o del Laos preferisca starsene a casa propria.” Sostituite Laos con Romania e Rotterdam con Milano: il gioco è fatto. Se non volete essere invasi, finite di invadere. Fino a quando gli uomini d’affari italiani creeranno povertà nei paesi più deboli, non potranno ottenere altro che flussi di sventurati che vengono a bussare alle loro porte.

Eppure questo non basta. Perché se anche non ci fossero invasori nei due sensi di marcia, anche allora bisognerebbe difendere il diritto alla mobilità della gente. Perché non si può lasciare la mobilità ai viaggiatori con la VISA e la Lonely Placet. E’ bello anche gettare la propria vita nell’ignoto, spostarsi in un altro paese, anche a costo di balbettare una lingua estranea, anche solo per inventarsi un’altra vita. E’ questo che cercano tanti ragazzi rumeni. Farsi un’esperienza di vita e lavoro in Italia. Come abbiamo fatto tutti noi a Londra. E’ tanto strano?

Dedica
Dedico questa serie di articoli a P.N., una bambina rom che un giorno, mentre si trovava su un’auto coi suoi genitori, si è ritrovata con un proiettile conficcato in testa. Era il 22 maggio 1998 quando i carabinieri di Montaione, 40 km a sud-ovest di Firenze, ricevettero una chiamata che segnalava la presenza di un’automobile sospetta con alcuni “zingari” a bordo. Secondo la versione officiale l’auto non si è fermata all’alt e i carabinieri hanno sparato. Questa versione è stata accolta dagli inquirenti e i militari sono stati prosciolti da ogni addebito. La bambina, a quasi dieci anni da questo episodio, è ancora in coma.

Pubblicato Dicembre 21, 2007 10:05 AM www.carmillaonline.com

Luoghi comuni contro Rom e Sinti

Luoghi comuni contro rom e sinti. Parte terza: il caso L.S.C. (3 di 4)

di Alberto Prunetti


bambinirom4.jpgFirenze, piazza della stazione di Santa Maria Novella. Sono circa le 23 del 5 ottobre 2007. I vigili urbani che pattugliano la zona, abituale ritrovo di tanti immigrati costretti a dormire all’aperto, identificano una coppia di rom rumeni, D.S. e D.S., e la loro bambina, L.S.C. La polizia municipale diffida il padre “a tenere la propria figlia L.S.C. in uno stato di disagio costringendola a dormire, durante tutto l’arco della giornata, all’aperto e allevandola conseguentemente in luoghi insalubri e pericolosi.” Il padre della piccola rom viene anche avvisato che “nel caso la bambina fosse rintracciata dagli organi di polizia continuamente in uno stato di disagio gli stessi, ai sensi dell’ art. 403 c.c., provvederanno a collocare la minore L.S.C. in un luogo sicuro[…]”

Ma qual è la storia di questa coppia di rom che è costretta a vivere per strada?

D.S. e D.S. — padre e madre hanno nomi diversi ma le stesse iniziali — arrivano un giorno a Firenze dalla Romania. Una coppia di trentenni in fuga dal loro paese, stanchi di soffrire la fame, di lavorare per i vari padroni di turno, molti dei quali italiani, un mese sì e tre no, in cambio di quattro spiccioli. Un giorno preparano sacchi e valigia e coi loro due bambini, il maschio più grandicello e la piccola, nata nel 2002, arrivano nel capoluogo toscano. Comincia una vita ancora più difficile, appoggiati a situazioni di fortuna, nella periferia fiorentina. Le loro condizioni attirano l’attenzione degli assistenti sociali, che invece di darsi da fare per fornire, come si fa nella maggior parte dei paesi europei, un aiuto all’alloggio e un sussidio, cominciano a togliere alla coppia il figlio maggiore, che viene trasferito in una comunità in provincia di Arezzo.
Intanto il padre, attraverso il tam-tam dei migranti, riesce a inserirsi nel giro dei lavavetri. Il lavoro ai semafori è integrato da un’altra attività precaria: D.S. è bravo con la fisarmonica, e la sera gira per i ristoranti per ottenere qualche euro dai turisti. Ma, in attuazione dell’ordinanza del sindaco Domenici contro i lavavetri, i vigili urbani gli sequestrano lo spazzolone col secchio. Gli rimane ancora la fisarmonica e con questa continua per un po’ a suonare per i ristoranti. Peccato che a Firenze ci sono tanti intrattenitori di successo e un intrattenitore abusivo non serve a niente: gli portano via anche la fisarmonica.
Eccolo qui il sogno italiano di questo rom rumeno, costretto a vivere ormai di elemosina con moglie e figlia appoggiate contro il muro della stazione. Finora gli italiani gli hanno portato via un figlio, lo spazzolone, la fisarmonica. Ma non è finita. Dopo quella sera del 5 ottobre, gli portano via anche L.S.C., la bambina più piccola: prima “tradotta” presso il Centro Sicuro di Firenze e in seguito spostata in un luogo segreto.

Nonostante il dolore e i pochi mezzi, i genitori non si danno per vinti. Devono sbrigarsi ed evitare altri colpi della sfortuna: dovessero ricevere in base al decreto Amato un’ingiunzione di allontanamento dal territorio nazionale, i servizi sociali avviserebbero il Tribunale dei Minori del fatto che i genitori non si sono curati di ricercare la bambina e dopo cinque o sei mesi L.S.C. verrebbe data in adozione. Attivano alcuni canali. Grazie a una associazione di volontariato vengono a sapere che la bambina è stata trasferita in provincia di Grosseto. Si muovono anche dei loro amici rom che vivono sul territorio maremmano. Alla fine scoprono che L.S.C. si trova in un istituto nei pressi di Follonica.
A questo punto l’associazione di volontariato aiuta i genitori a ottenere un colloquio col Tribunale dei Minori. Per ora il primo risultato è stato che la bambina, accompagnata dal personale dell’Istituto, è stata condotta a Firenze, per un colloquio coi genitori di due ore. Poi via: ritorno nella prigione maremmana.

“Troppo bella per essere una zingara”
Questo caso non è una eccezione. Potrei citarne altri, ma sarebbe un elenco lungo. Rimando alla casistica indicata in due rapporti sulla discriminazione di rom e sinti in Italia, che cito in coda a questo articolo. Cito solo un caso, perché paradossale, contenuto in un articolo pubblicato sul sito dell’European Roma Rights Center, e visibile qui in inglese. E’ il caso di una bambina rom, Elvizia M., cresciuta nel campo Casilino 700, che il 14 giugno del 1999 fu tolta ai genitori - sulla base del presupposto che l’avessero rubata - per il colore degli occhi della bambina: “troppo bella per essere una zingara”, dissero le autorità, guardando gli occhi celesti della bambina, lontani dallo stereotipo del rom scuro. Il padre dovette correre dalla Romania e presentarsi al tribunale per far vedere un paio di occhi, celesti, belli e sicuramente più umani di quelli che lo circondavano nell’aula. A quel punto la bambina poté tornare ad abbracciare i suoi genitori. Il fatto che essere belli significhi non essere rom, o che solo questo basta a togliere un bambino ai suo genitori, dimostra allo stesso tempo i pregiudizi degli italiani e la debolezza dei rom nella nostra società.

Pratiche di deziganizzazione
Già prima della seconda guerra mondiale, i figli dei rom venivano sottratti ai loro genitori per consegnarli a famiglie sedentarie, al fine di disperdere la continuità culturale ed etnica del loro popolo. La difficoltà sta (come nel caso della Pro Iuventute svizzera degli anni '50, che allontanò qualche centinaio di bambini jenish dalle loro famiglie) nel fatto che l'operazione passa sempre per caritatevole ed i genitori per criminali. Si tratta di una situazione paradossale, ingiusta, che nasce dall’idea di proteggere i bambini, ma che non comprende né le ragioni del disagio né si interessa delle sofferenze dei genitori. Anzi: diciamo che gli stessi promotori di queste azioni sono spesso i principali protagonisti della repressione ai danni dei rom, ovvero collaborano fattivamente ai traslochi forzati, agli sgomberi, alle distruzioni periodiche degli accampamenti di fortuna dei rom. Ovvero: sono loro a creare il disagio che poi si riflette sui bambini. Si può anche pensare che magistrati, assistenti sociali, polizia e vigili urbani agiscano in buona fede quando si preoccupano della sorte dei piccoli rom: è umano preoccuparsi del fatto che una bambina di tre anni dorma per strada alla stazione. Ma non capisco chi ipocritamente dice di preoccuparsi, quando poi è lo stesso che il giorno prima l’ha sfrattata, lei e la sua famiglia, o le ha distrutto la roulotte, sbattendola per strada, o ha negato a suo padre la possibilità di racimolare qualche spicciolo, col sequestro di una fisarmonica e dello spazzolone lavavetri. Questo non è una preoccupazione morale per la sorte dei bambini. Anzi. Si fa un uso ipocrita della loro sorte: producendo la miseria che permette poi di gridare allo scandalo, si fa solo campagna contro i rom, favorendo la deziganizzazione dei loro bambini e alimentando uno stereotipo negativo.


Continua

[Ringrazio Piero Colacicchi per la conversazione telefonica e il fotografo Stefano Pacini per le splendide foto. Devo spendere qualche parole per questo taciturno fotografo che da anni si trascina la sua 35mm, caricata con una pellicola ad alta sensibilità, per cogliere la “grana grossa” del mondo che lo circonda] A.P.

[Fonti: OsservAzione (centro di ricerca azione conto la discriminazione di rom e sinti); ERRC (European Roma Rights Center); ERRC, Il paese dei campi, Roma, Carta, 2000; Sigona N., Monista L. (a cura di), Cittadinanze imperfette, Santa Maria Capua Vetere, Edizioni Spartaco, 2006.]

Pubblicato Dicembre 19, 2007 11:16 www.carmillaonline.com

14 dicembre 2007

I Ladri di bambini......

Luoghi comuni contro rom e sinti. Parte prima: i ladri di bambini (1 di 3)

di Alberto Prunetti

bambinirom2.jpg[Pubblico la prima parte di questo articolo mentre i telegiornali lanciano l’ennesimo scoop su una presunta organizzazione rom dedita allo sfruttamento dei bambini. Non conosco ancora la vicenda nel merito, ma sappiamo, da altri episodi, qual è la manipolazione sensazionalistica che si cela dietro a operazioni di polizia di questo tipo. Non posso nascondere il fatto che le condizioni in cui molti bambini rom vivono siano obiettivamente negative e disumane. Il problema è che le istituzioni per queste condizioni incolpano i rom e la loro cultura, e non se stesse, che di queste condizioni sono responsabili. Se avremo notizie sugli episodi di cui oggi parlano i telegiornali – e per notizie intendo qualcosa di più del frettoloso rimpasto delle veline della questura – interverremo anche nel merito dell’episodio in questione. Per ora basterà leggere le righe che seguono per vedere come lanci giornalistici simili si sono dimostrati operazioni di criminalizzazione volte ad alimentare lo stereotipo del rom ladro, infingardo, sporco e pericoloso per il benessere dei suoi stessi figli.]A.P.

Lo scopo di questo articolo è quello di rimettere in discussione e confutare alcuni luoghi comuni su rom e sinti. In particolare verranno esaminati alcuni asserti che il senso comune dà per assodati e che i media contribuiscono a radicare. Si vedrà che molti di questi giudizi nascono dalla necessità di creare un allarme sociale e da un diffuso pregiudizio e non sono confermati da dati concreti. Più avanti vedremo anche che una serie di paletti giuridici permettono di sovrarappresentare statisticamente i medesimi luoghi comuni. Ho diviso questo articolo in tre parti. Nella prima parte analizzerò il luogo comune secondo cui i rom rubano i bambini. Vedremo che questa asserzione è decisamente confutabile nella prima parte del mio intervento e si vedrà nella seconda parte che la verità è — purtroppo e molto spesso — il contrario di questa menzogna: andando per generalizzazioni, sarebbe più realistico dire che gli italiani “rubano” i bambini dei rom. Infine, nella terza parte prenderemo in discussione altri luoghi comuni: il fatto che i rom delinquono più degli italiani, che non mandano i bambini a scuola, che vogliono vivere come nomadi nei campi.


Prima di tutto voglio spiegare quale coincidenza mi ha spinto a scrivere queste righe. Mi ritrovo una sera in una cena a casa di un amico, ci sono altri conoscenti e alcune persone mai viste. Arriva Teresa, una ragazza piccola e scura, dall’aria fricchettona, con capelli ricci e abiti molto colorati. Con lei c’è anche una bambina: biondissima e cogli occhi azzurri, sembra nordeuropea. So che la ragazza fa l’educatrice e penso che la bambina sia la figlia di qualche amica o una delle bambine con cui lavora. Invece rimango sorpreso quando la bambina la chiama mamma. Ovviamente la genetica gioca a dadi, ma i carabinieri scherzano di meno. Teresa intuisce le ragioni del mio stupore e mi racconta di aver passato un brutto quarto d’ora con le forze dell’ordine: l’hanno fermata in auto per un normale controllo. Ovviamente non aveva i documenti della bambina: prima di quindici anni non si fanno di solito i documenti, se non si viaggia all’estero. I carabinieri hanno incalzato la ragazza, accusandola di essere una “zingara” e di aver rubato la bambina. L’equivoco alla fine è stato risolto, ma rimane un dubbio inquietante: cosa sarebbe successo se la mamma scura, ricciola e fricchettona, fosse stata veramente una rom? In assenza di un certificato di nascita della piccola (elemento comune a tanti genitori rom), la bambina sarebbe stata probabilmente portata via dalla propria mamma e Teresa sarebbe stata sbattuta sulle prime pagine dei giornali come ladra di bambini. Certo, il fatto sarebbe forse stato spiegato dopo qualche giorno, e allora avrebbe goduto del risalto che può dare un trafiletto in una cronaca locale. Nelle convinzioni delle persone, rimarrebbe confermato lo stereotipo: i rom rubano i bambini.

Cominciamo a ragionare su questa asserzione, a partire dai dati ufficiali: non esiste alcun riscontro, nei dati diffusi dalla polizia di stato, di casi di minori italiani rapiti da rom. È una bufala, una leggenda metropolitana, come quelle diffuse durante il ventennio sugli ebrei e serve solo per alimentare l’odio nei confronti di questa minoranza. Da fonti Reuter, e sulla base dei dati forniti dalla polizia di stato, i minori scomparsi in Italia nel periodo 1999-2004 (nella fascia dei minori di 10 anni) sono stati “portati via” da uno dei genitori per dissidi coniugali o, soprattutto nel caso di bambini stranieri, sono casi di bambini affidati dal Tribunale dei Minori a istituti, bambini che vengono “prelevati” da un genitore che si rende poi irreperibile assieme al figlio. (vedi qui)
Per quanto riguarda i minori di età tra i 10 e i 14 anni e tra i 15 e i 17 anni, prevalgono tra gli italiani i casi di ragazzi allontanatisi volontariamente da casa per dissidi familiari, mentre rimangono presenti tra gli stranieri le fughe, assieme a un genitore, dalle strutture in cui i minori sono affidati, in maniera coatta, dai Tribunali dei minori (in questi ultimi casi qualche romantico parlerebbe non di rapimento, ma di evasione, per intenderci).

A questo punto l’obiezione classica è questa: “”ma io mi ricordo di almeno un caso visto al telegiornale di una rom che si è portata via un bambino sotto la gonna”… del resto, si sa, ce l’hanno insegnato a scuola le maestre: “Bambini, state attenti, ci sono gli zingari…. portano via i bambini”. Beh, prendiamo in esame alcuni casi recenti, che hanno un valore esemplare.

_Lecco, 14 febbraio 2005. Tre donne rom rumene sono accusate di aver tentato di rapire un bambino. Una donna le ha denunciate: secondo le sue dichiarazioni due rom si sono avvicinate mentre lei camminava per strada spingendo il passeggino. La donna dice di aver sentito dire a una “prendi bimbo, prendi bimbo”. A quel punto la madre italiana si è messa a gridare, ha preso il bambino in braccio e ha dato un calcio a una rom per allontanarla. Le tre rom sono state arrestate poco dopo, mentre passeggiavano tranquillamente vicino alla Caritas. Due erano maggiorenni e sono state immediatamente portate davanti a un giudice, l’altra, minorenne, non può secondo l’ordinamento italiano essere giudicata per direttissima. Le due donne avevano due opzioni, secondo l’avvocato d’ufficio: dichiararsi innocenti, rimanere in carcere e aspettare a lungo un processo, per poi provare a chiarire le circostanze, col rischio di ricevere comunque una pesante condanna; in alternativa, dichiararsi colpevoli, chiedere il patteggiamento della pena (una pratica tipica di molti immigrati che non possono ottenere avvocati a pagamento o aspettare i processi fuori dal carcere) e sperare in una condanna leggera, ammortizzata dalla condizionale. Le due rom hanno patteggiato, sono state condannate a otto mesi: pena sospesa con la condizionale in assenza di precedenti.
Questa condanna ha scatenato un’eco di sdegno patrio: giornali e telegiornali hanno riportato le dichiarazioni di politici, di Presidenti di istituzioni, di rappresentanti di Osservatori per i minori. Tutti inferociti per il lassismo della giustizia italiana, invocavano a pieni polmoni la famosa Tolleranza zero, mentre la Lega Nord ricopriva di volantini la Lombardia, sotto la consegna “giù le mani dai nostri bambini”.

Peccato che le donne erano innocenti, e la loro innocenza è stata dimostrata nel momento in cui la terza rom, quella minorenne, ha subito un processo senza dichiararsi colpevole davanti al Tribunale dei minori. Secondo quanto dichiarato dal PM, “…il contesto in cui si è svolto, […], il fatto che la piccola nomade che ha allungato le mani verso il passeggino tenesse in una un bicchiere per le elemosine, che le zingare non siano scappate…[…] ci fa ipotizzare ad (sic) una forma di minacce e nulla più”. Nessuno si è scusato per quello che le donne rom hanno passato, o per il fatto che le due che hanno patteggiato non hanno ricevuto una difesa legale decente.

_Mazara del Vallo, settembre 2004. Denise Pipitone, tre anni, scompare misteriosamente. Il fatto ha una enorme eco mediatica e si fanno ipotesi diverse. Un mese dopo a Milano una guardia giurata vede al mercato una bambina che gli ricorda Denise (vista in foto sui giornali), assieme ad alcune “nomadi”. L’uomo scatta alcune foto col suo cellulare e sporge denuncia. Dopo qualche tempo la polizia identifica la bambina della foto con l’aiuto di alcuni rom rumeni. Si tratta neanche di una bambina, ma di un bambino rom, figlio di una coppia che vive in un campo milanese. La notizia (anzi: la smentita) non viene passata ai giornali, perché riservata a fini investigativi. Nonostante questo nel marzo 2005 i giornali scrivono ancora che la madre di Denise è sicura del fatto che la bambina fotografata dalla guardia giurata sia Denise. Sulla base di una notizia che la polizia conosce come falsa, i campi nomadi italiani sono di nuovo perquisiti (Cfr. L’Arena, 24 marzo 2005).

_Milano, 21 aprile 2005. Giornali e televisioni lanciano la notizia del rapimento di un bambino rom rumeno, prelevato da alcuni rom dall’interno del Centro per i Bambini Maltratti (CBM) di via Spadini. Stefan, questo il nome del bambino, era stato preso sei mesi prima dai carabinieri, che lo avevano trovato mentre dormiva sotto un albero. I genitori non avevano potuto vederlo e secondo i giornali il bambino era oggetto “di violenze subite in famiglia” (Repubblica, 23 aprile 2005). Il 28 aprile Stefan viene individuato dalla squadra mobile in casa di una persona che si è offerta come mediatore. Il ragazzo è tranquillo e vicino ai familiari, ma i giornali titolano: “Fine dell’incubo” (Il Corriere della sera, 29 aprile 2005). Il Tribunale dei Minori stabilisce il 5 maggio che il bambino dovrà tornare al CBM, ma che può vedere con regolarità i genitori, secondo i suoi desideri. Infatti Stefan, – ci ricorda il legale della famiglia, Stefano Cozzetto — “non ha mosso alcun addebito ai genitori, né di natura sessuale né di altro genere”.

_Palermo, luglio 2007 La notizia dell’arresto di M. F., una “nomade” di 45 anni, compare su tutti i telegiornali italiani come lancio d’apertura. La donna è accusata del tentato rapimento di un bambino di tre anni su una spiaggia siciliana. Interrogata, in un primo momento si rifiuta di rispondere alle domande (forse mal consigliata dagli avvocati), e questo fatto alimenta i sospetti su di lei. In pochi giorni la situazione viene chiarita. La principale testimone a suo carico è una donna che stava in spiaggia e che ammette candidamente agli inquirenti “di essere terrorizzata dagli zingari”. La donna italiana ha visto la rom, ha avuto paura e si è messa a strillare. In seguito ha ammesso di aver avuto solo “la sensazione” che M.F. volesse portar via il bambino. In realtà il bambino stava correndo, M.F. si è piegata verso di lui e la sua gonna si è un po’ aperta. Interrogata dagli inquirenti, la testimone (e unica accusatrice), ha ritratto l’accusa. La stessa azione, compiuta da una bagnante italiana, sarebbe stata considerata come un atto di premura e gentilezza: compiuta da una rom, è diventata un tentativo di rapimento che è finito sulle prime pagine dei giornali. Ancora oggi, a distanza di qualche mese, ho provato a citare vagamente l’episodio parlando con alcuni conoscenti: tutti si ricordano il “tentato rapimento”, ma la notizia della scarcerazione di M.F. e la sua innocenza è stata trasmessa con minore enfasi e quasi nessuno ha saputo raccontarmi l’episodio in tutta la sua integrità. Nell’immaginario collettivo, un altro bambino è stato rapito dagli zingari. Eppure non è vero.

Episodi come questi sembrano utilizzati ad arte per rinsaldare stereotipi negativi e per creare campagne d’allarme che radicalizzano l’odio contro i rom e preparano degli scenari dal punto di vista giudiziario e repressivo sempre più pesanti: per gli immigrati come per i cittadini italiani.

In questa prima parte abbiamo riportato alcuni casi importanti e noti, oggetto di campagne mediatiche allarmistiche e approssimative. In questi casi si è data enorme evidenza all’ipotesi del rapimento da parte dei rom – spacciato come una verità incontrovertibile – e si è dedicato solo uno spazio minore (privo di valore euforizzante: nei trafiletti della cronaca locale, ad esempio) alle smentite. In questo modo l’opinione comune, invece di destrutturare il pregiudizio sui rom ladri di bambini, ha visto rinsaldata quest’immagine anche in presenza di evidenze contrarie.

Nella seconda parte dell’articolo, che sarà on line tra alcuni giorni, prenderemo in considerazione l’altra metà del problema, quella che forse è la verità celata dai media. Il fatto che molti bambini rom sono “portati via” dagli italiani.

Prima vorrei tornare a parlare della bambina bionda e della mamma scura, incontrate per caso in una cena. Mentre tutti sono rimasti scandalizzati per la mancanza di sensibilità dei carabinieri, a me è venuto da dire che questo era un esempio di una tremenda prassi di criminalizzazione dei rom. Non l’avessi mai fatto: un tipo che non conoscevo ha iniziato a dire che i rom sono gente che non hanno né patria né bandiera e che – pertanto? - rubano i bambini. Ora: al di là del fatto che almeno una bandiera ce l’hanno, e al di là del fatto che di solito è proprio chi ha una patria e una bandiera che poi commette i peggiori crimini contro l’umanità, aldilà di tutto questo a me sembrava evidente che l’episodio appena raccontato a tavola fosse un esempio di una costruzione immaginaria di un crimine. Una montatura insomma mal riuscita, perché l’indiziata aveva un alibi che reggeva: era italiana. Eppure, proprio di fronte a un’evidenza contraria, quell’episodio ha infiammato gli astanti e non è mancato chi si lamentava della cattiveria “degli zingari”. Neanche l’evidenza, o il disvelamento della menzogna, riesce a dissipare le nebbie del pregiudizio razziale e i luoghi comuni consolidati. Vediamo se la realtà ci fornisce qualche elemento per raccontare una storia interessante: gli italiani “rubano” i bambini dei rom. È un paradosso, perlomeno rispetto al luogo comune che inverte i poli del crimine, sicuramente una generalizzazione. Eppure, secondo alcune stime, ci sono stati almeno 500 casi di bambini rom “portati via” negli ultimi venti anni, in Italia. Ne parleremo tra qualche giorno, su Carmilla, nel seguito di questo articolo.


Fonti: OsservAzione (centro di ricerca azione conto la discriminazione di rom e sinti); ERRC (European Roma Rights Center); ERRC, Il paese dei campi, Roma, Carta, 2000; Sigona N., Monista L. (a cura di), Cittadinanze imperfette, Santa Maria Capua Vetere, Edizioni Spartaco, 2006.

[Ringrazio gli attivisti rom e gagé che mi hanno fornito materiali, documentazione, osservazioni e suggerimenti. Ringrazio il fotografo Stefano Pacini per l’uso della sua foto a corredo dell’articolo.] A.P.

Continua

Pubblicato Dicembre 11, 2007 05:22 PM

01 dicembre 2007

Lettere al Manifesto

Leggo "Il Manifesto", ad intermittenza, dall'aprile del 1971. Avevo 15 anni, più o meno, in spirito ed entusiasmo, quelli che avevano i suoi lettori ed i suoi autori.

Valentino Parlato scrive che il quotidiano, come le sinistre un pò ovunque, non passa un buon momento. Poco ma sicuro se, come qui al bar dove lavoro, ho avuto modo di apprezzare l'unica iniziativa di successo intrapresa da tempo; quella delle figurine dell'album di famiglia. Iniziativa simpatica, e non priva direi di metafore, che forse è giunta l'ora, una volta completato l'album, di chiudere e voltare pagina. Perchè la domanda vera è più che mai quella se ha un senso andare avanti così. Spesso mi accorgo di comprare il giornale per pura testimonianza, per sottoscrizione, ma non per il piacere di leggerlo e di sorprendermi nel leggerlo.Ieri addirittura pensavo che se devo comprarlo per sostenervi non sarebbe male che lasciaste bianca la prima pagina, almeno ognuno di noi se la immagina o ci scrive quel che vuole, che bei titoli a parte, le idee ed i racconti latitano.

Che poi non è questione neppure delle poche pagine o del prezzo sempre più alto e disperato per cercare di pagare i giornalisti che ci si fanno un culo così, senza venderselo come hanno fatto alcuni approdati a tutt'altra sponda dopo esser stati a lungo in via Tomacelli. Non è neppure il fatto che manchi di Luigi Pintor, di mordente, inchieste, notizie dal mondo, pure grande e variegato che va dai cattolici pacifisti ai centri sociali più oltranzisti. Non è nemmeno la scelta alle volte incomprensibile di eliminare rubriche ( "Storie" ) che avevano un largo gradimento.

E' che forse oggi il Manifesto riflette i tempi grami, miserevoli direi, del livello culturale, della memoria, dellla lotta, dell'utopia (scusate la parola). Tutto sommato lo specchio di un paese che sogna di emigrare da se stesso, di fare santo subito Zapatero (non Zapata) e che vive l'enorme delusione del governo "amico" di Prodi.Che scende in piazza il 20 ottobre ma poi ingolla qualsiasi tipo di rospo sotto ricatto; o così o Berlusconi.

Comunque sia, o si cambia veramente o si prolunga malamente l'agonia del giornale a noi caro da una vita.

Scusatemi, ma a me dell'espressione pessimismo dell'intelligenza e ottimismo della volontà mi è rimasta solo la prima parte

Con affetto

Stefano

Caro Stefano,

il marito (e io al seguito) il Manifesto abbiamo definitivamente smesso di comprarlo (anche se ho
l'album delle figurine, perché volevo imparare qualcosa di sinistra, che oggi è così difficile
sapere che cosa sia, la sinistra).

Acquistato, per molto tempo, da mio marito, per convinzione, poi per testimoniare qualcosa.
Quando il marito ha cominciato a sbuffare, sono arrivata io, che con le foto e le copertine e i
titoli del manifesto ci facevo lezione a scuola, e per la guerra in Afghanistan ci abbiamo anche
fatto una mostra, con quelle foto, con quei titoli.

Adesso, basta. Smesso per gli stessi motivi che elenchi tu: perché mancano cose da leggere,
perché non dà notizie, "il Manifesto", ma non dà più nemmeno idee, tranne quelle nascoste e
paludate dietro paginate di 'cultura' riservata a pochi eletti. Leggevo Robecchi, che mi faceva ridere, oltre che pensare. C'è ancora? Accettavo le cantonate 'religiose' (io sono cattolica, e ho scoperto di saperne molto più dei molti che sul cattolicesimo scrivevano un po' a vanvera, ma vabbè...).
Leggevo Carlini, chiaro, netto, comprensibile anche quando parlava di argomenti a me estranei. Ora, non c'è più nemmeno lui.

Che dispiacere, eh?

Ma sono al punto in cui anche l'acquisto di un quotidiano conta nel bilancio famigliare. E se non mi dà abbastanza pane per la mente, beh, che dire?, mi rassegno a comprare solo pane per i denti...

Ciao (un abbraccio)

Annalisa

Polvere e sudore nelle palestre di Buenos Aires

di Alberto Prunetti

palestracosenza.jpg








Segnalo sul numero di novembre di Fotografia Reflex uno splendido servizio fotografico di Dante Cosenza, fotografo argentino di origine italiane. Cosenza, nato 43 anni fa a Buenos Aires, registra la luce naturale di scantinati scrostati, in cui robusti machos di periferia versano sudore su attrezzi arrugginiti o accendono ceri davanti alle icone di bodybuilders anonimi su altari improvvisati.

Cosenza è stato un fotoreporter di strada e adesso è l’editor fotografico di un noto quotidiano portegno, ma la sua opera fotografica — basata su un bianco e nero rigoroso e sull’uso spiccato della luce naturale — è ancora tutta da scoprire.
Le sue foto fanno venir voglia di buttar via la macchina fotografica: con un’attrezzatura minima e senza preoccuparsi troppo di tecniche sofisticate, Cosenza ha realizzato degli scatti che sono semplicemente meravigliosi. Quest’uomo ha un colpo d’occhio e una sensibilità incredibili e prima o poi tutta la sua opera fotografica sarà riconosciuta per quel che vale. Oltre a queste foto, Cosenza tiene nel cassetto un servizio inquietante sugli ospedali geriatrici di Baires, che a me ha ricordato gli scatti di Diane Arbus. Ha anche realizzato delle foto meravigliose in Bolivia e sono superlativi i suoi scatti sulle strade di Buenos Aires, tra militari accigliati e disoccupati in rivolta. Mentre in Italia tanti fotografi si sbattono a spendere tempo, soldi ed energie in stupide querelle sulla superiorità del digitale o dell’analogico, o sulla resa ottica del tale o talaltro obiettivo, c’è un tipo che se ne va a giro per le avenidas e le stamberghe di Buenos Aires, a impressionare di luce e poesia un rotolo di pellicola sensibile. Grandissimo.

da www.carmillaonline.com

23 novembre 2007

Silvana Premiata!!!

È con grande piacere che salutiamo la notizia che ci arriva direttamente da Silvana Bigongiari, autrice del bel libro Fili. Silvana è risultata vincitrice del premio di letteratura per libro edito relativo al Premio di scrittura "Il Paese delle donne" promosso dalla "Casa Internazionale delle donne" di Roma. Il concorso è a livello internazionale, e forse per l'Italia è il più importante per la scrittura femminile e femminista. Il premio ha anche il patrocinio dell'Associazione Femminista Internazionale (AFFI) e dall'associazione Vita quotidiana. L'altra notizia bella che riguarda Silvana e il suo libro è che le copie stampate finora (450) sono quasi finite.

Non nascondiamo la nostra felicità come "editori" ma l'abbraccio più grande è tutto per Silvana. E che questo sia solo l'inizio!

17 novembre 2007

Tutti a Genova

Lettera aperta - Tutti a Genova il 17 novembre!

Aderisci all’appello scrivendo a lastoriasiamonoi@sanbenedetto.org
Aggiornamenti adesioni qui
Sostieni la manifestazione del 17 novembre

Facciamo appello a tutti e tutte coloro che erano a Genova il 19, 20, 21 luglio 2001.
Ci rivolgiamo a tutti quelli che oggi lottano contro le guerre e la precarietà, contro la devastazione del territorio e dei beni comuni.
A chi si batte nell’università, sui posti di lavoro e nei quartieri contro lo sfruttamento. A chi combatte l’aberrazione dei centri di denzione per migranti. A chi non ha mai rinunciato a sognare un mondo diverso.
I PM Canepa e Canciani hanno richiesto 224 anni di carcere per i 25 manifestanti la cui unica colpa è quella di essere stati a Genova a contestare il G8 in quei giorni. Questa richiesta getta la maschera su che tipo di giustizia si vorrebbe imporre. Quella che assolve sempre il potere per i suoi crimini, e colpisce con la violenza, con l’omicidio come nel caso di Carlo Giuliani, con il carcere chi osa disobbedire e ribellarsi.
Questa vergognosa richiesta è semplicemente inaccettabile. L’obiettivo vero di questo processo è riscrivere la storia, stravolgendola, perché essa mette in difficoltà il potere.
Ci parla, la nostra storia, di coraggio nello sfidare tutti insieme i potenti del G8 che decidono guerre e massacri.
Ci parla di disobbedienza alle leggi ingiuste, ai divieti ad esprimere il dissenso, come quando Genova fu trasformata in una enorme zona militarizzata e sottratta alla democrazia.
Ci parla, la storia che questi PM vorrebbereo seppellire con due secoli di carcere a chi manifestava, delle torture a Bolzaneto, delle cariche e dei pestaggi nelle strade, del massacro della Diaz compiti dalle forze dell’ordine.
Dell’unico capo della polizia, che comandava tutte le operazioni di Genova, mai promosso nella storia di questo paese, direttamente a membro di governo.
Ci rivolgiamo a tutti perché il vero obiettivo di questo processo è quello di colpire i movimenti di oggi e quelli di domani. La vendetta di stato che rischia di abbattersi sui 25 imputati, è anche il tentativo di chiudere definitivamente in questo paese lo spazio del dissenso e della democrazia diretta che si contrappone spesso a quella fasulla di palazzo.
Noi, primi firmatari dell’appello "Noi, quelli di via Tolemaide", proponiamo a tutti, di tornare a Genova il prossimo 17 novembre, per ribadire insieme che la verità non si cancella, né con la violenza, né con il carcere.
Per gridare insieme che vogliamo la libertà di coloro che stanno pagando per una colpa che tutti abbiamo, quella di esserci ribellati all’ingiustizia. Chiediamo a tutti di mobilitarsi, di riempire quelle strade che il potere teme così tanto da ricorrere al terrore per tentare di tenerle vuote e mute. Chiediamo anche a quelli che allora non c’erano di venire, perché il futuro è ciò che ci costruiamo ora.
A chi era a Genova e ora siede in cariche istituzionali o di partito, chiediamo di farsi garante pubblicamente perché siano garantiti i treni per chi vuole manifestare, e le stazioni non siano militarizzate come accade sempre più spesso. Invitiamo tutti alla grande manifestazione che ribadirà che disobbedire è giusto difronte ad un mondo come questo, che il diritto a resistere esercitato a Genova è stato sacrosanto e naturale, che tutti gli imputati devono essere liberati dalla spada di damocle dei processi politici condotti contro i movimenti.

Partiremo alle ore 15.00 sabato 17 novembre dalla Comunità di San Benedetto al Porto, Marina di Genova, per giungere in Piazza De Ferrari, il luogo dove il G8 ha tenuto il suo vertice insaguinato di allora.

Don Andrea Gallo (Fondatore Comunità San Benedetto al Porto-Genova) | Valeria Cavagnetto (Genova) | Vladia Grillino (Genova) | Milena Zappon (Genova) | Domenico Chionetti (Genova) | Simone Savona (Genova) | Luciano Bregoli (Genova) | Luca Oddone (Genova) | Paolo Languasco (Genova) | Matteo Jade (Genova) | Luca Daminelli (Genova) | Maurizio Campaga (Genova) | Luca Casarini (Marghera - imputato a Cosenza) | Tommaso Cacciari (Venezia) | Michele Valentini (Marghera) | Max Gallob (Padova) | Vilma Mazza (Padova) | Duccio Bonechi (Padova-imputato a Genova) | Federico Da Re ( Padova-imputato a Genova) | Cristian Massimo (Monfalcone) | Donatello Baldo (Trento) | Domenico Mucignat (Bologna) | Gianmarco De Pieri (Bologna) | Manila Ricci (Rimini) | Daniele Codelupi (Reggio Emilia) | Claudio Sanita (Alessandria) | Luca Corradini (Milano) | Silvia Liscia (Milano) | Francesco Raparelli (Roma) | Francesco Brancaccio (Roma) | Emiliano Viccaro (Roma) | Luca Blasi (Roma) | Antonio Musella (Napoli)

www.sanbenedetto.org

16 novembre 2007

Il Triangolo Nero

Il triangolo nero / Nessun popolo è illegale

Violenza, propaganda e deportazione. Un manifesto di scrittori, artisti e intellettuali contro la violenza su rom, rumeni e donne

Non è che come paese siamo proprio immuni

[La scintilla è partita un gruppo di scrittori e intellettuali, stanco di assistere alla deriva razzista che attraversa l'Italia, purtroppo aggravata dalla morte violenta di Giovanna Reggiani.
Da questa stanchezza, l'esigenza di condividere una presa di posizione forte. È nato così "Il triangolo nero", appello elaborato da Alessandro Bertante, Gianni Biondillo, Girolamo De Michele, Valerio Evangelisti, Giuseppe Genna, Helena Janeczek, Loredana Lipperini, Monica Mazzitelli, Marco Philopat, Marco Rovelli, Stefania Scateni, Antonio Scurati, Beppe Sebaste, Lello Voce e il collettivo Wu Ming nella sua totalità. A questo gruppo si sono presto aggiunti altri nomi importanti della cultura che hanno deciso di aderire all'appello. Tra questi Gad Lerner, Erri De Luca, Bernardo Bertolucci, Massimo Carlotto, Carlo Lucarelli, Moni Ovadia, Nanni Balestrini, Franca Rame, Stefano Tassinari, Marcello Flores, Andrea Bajani, Lisa Ginzburg, Lanfranco Caminiti, Ugo Riccarelli, Enrico Brizzi, Marco Mancassola, Simona Vinci, Raul Montanari, Giulio Mozzi, Andrea Porporati, Sandro Veronesi e moltissimi altri si vanno aggiungendo di minuto in minuto, per ribadire che delitti individuali non giustificano castighi collettivi. Qui, la possibilità di aderire all'appello. Di seguito, il testo.]

La storia recente di questo paese è un susseguirsi di campagne d'allarme, sempre più ravvicinate e avvolte di frastuono. Le campane suonano a martello, le parole dei demagoghi appiccano incendi, una nazione coi nervi a fior di pelle risponde a ogni stimolo creando "emergenze" e additando capri espiatori.

Una donna è stata violentata e uccisa a Roma. L’omicida è sicuramente un uomo, forse un rumeno. Rumena è la donna che, sdraiandosi in strada per fermare un autobus che non rallentava, ha cercato di salvare quella vita. L'odioso crimine scuote l'Italia, il gesto di altruismo viene rimosso.

Il giorno precedente, sempre a Roma, una donna rumena è stata violentata e ridotta in fin di vita da un uomo. Due vittime con pari dignità? No: della seconda non si sa nulla, nulla viene pubblicato sui giornali; della prima si deve sapere che è italiana, e che l’assassino non è un uomo, ma un rumeno o un rom.

Tre giorni dopo, sempre a Roma, squadristi incappucciati attaccano con spranghe e coltelli alcuni rumeni all'uscita di un supermercato, ferendone quattro. Nessun cronista accanto al letto di quei feriti, che rimangono senza nome, senza storia, senza umanità. Delle loro condizioni, nulla è più dato sapere.

Su queste vicende si scatena un'allucinata criminalizzazione di massa. Colpevole uno, colpevoli tutti. Le forze dell'ordine sgomberano la baraccopoli in cui viveva il presunto assassino. Duecento persone, tra cui donne e bambini, sono gettate in mezzo a una strada.

E poi? Odio e sospetto alimentano generalizzazioni: tutti i rumeni sono rom, tutti i rom sono ladri e assassini, tutti i ladri e gli assassini devono essere espulsi dall'Italia. Politici vecchi e nuovi, di destra e di sinistra gareggiano a chi urla più forte, denunciando l'emergenza. Emergenza che, scorrendo i dati contenuti nel Rapporto sulla Criminalità (1993-2006), non esiste: omicidi e reati sono, oggi, ai livelli più bassi dell'ultimo ventennio, mentre sono in forte crescita i reati commessi tra le pareti domestiche o per ragioni passionali. Il rapporto Eures-Ansa 2005, L'omicidio volontario in Italia e l'indagine Istat 2007 dicono che un omicidio su quattro avviene in casa; sette volte su dieci la vittima è una donna; più di un terzo delle donne fra i 16 e i 70 anni ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita, e il responsabile di aggressione fisica o stupro è sette volte su dieci il marito o il compagno: la famiglia uccide più della mafia, le strade sono spesso molto meno a rischio-stupro delle camere da letto.

Nell'estate 2006 quando Hina, ventenne pakistana, venne sgozzata dal padre e dai parenti, politici e media si impegnarono in un parallelo fra culture. Affermavano che quella occidentale, e italiana in particolare, era felicemente evoluta per quanto riguarda i diritti delle donne. Falso: la violenza contro le donne non è un retaggio bestiale di culture altre, ma cresce e fiorisce nella nostra, ogni giorno, nella costruzione e nella moltiplicazione di un modello femminile che privilegia l'aspetto fisico e la disponibilità sessuale spacciandoli come conquista. Di contro, come testimonia il recentissimo rapporto del World Economic Forum sul Gender Gap, per quanto riguarda la parità femminile nel lavoro, nella salute, nelle aspettative di vita, nell'influenza politica, l’Italia è 84esima. Ultima dell'Unione Europea. La Romania è al 47esimo posto.

Se questi sono i fatti, cosa sta succedendo?

Succede che è più facile agitare uno spauracchio collettivo (oggi i rumeni, ieri i musulmani, prima ancora gli albanesi) piuttosto che impegnarsi nelle vere cause del panico e dell'insicurezza sociali causati dai processi di globalizzazione.

Succede che è più facile, e paga prima e meglio sul piano del consenso viscerale, gridare al lupo e chiedere espulsioni, piuttosto che attuare le direttive europee (come la 43/2000) sul diritto all'assistenza sanitaria, al lavoro e all'alloggio dei migranti; che è più facile mandare le ruspe a privare esseri umani delle proprie misere case, piuttosto che andare nei luoghi di lavoro a combattere il lavoro nero.

Succede che sotto il tappeto dell'equazione rumeni-delinquenza si nasconde la polvere dello sfruttamento feroce del popolo rumeno.
Sfruttamento nei cantieri, dove ogni giorno un operaio rumeno è vittima di un omicidio bianco.
Sfruttamento sulle strade, dove trentamila donne rumene costrette a prostituirsi, metà delle quali minorenni, sono cedute dalla malavita organizzata a italianissimi clienti (ogni anno nove milioni di uomini italiani comprano un coito da schiave straniere, forma di violenza sessuale che è sotto gli occhi di tutti ma pochi vogliono vedere).
Sfruttamento in Romania, dove imprenditori italiani - dopo aver "delocalizzato" e creato disoccupazione in Italia - pagano salari da fame ai lavoratori.

Succede che troppi ministri, sindaci e giullari divenuti capipopolo giocano agli apprendisti stregoni per avere quarti d'ora di popolarità. Non si chiedono cosa avverrà domani, quando gli odii rimasti sul terreno continueranno a fermentare, avvelenando le radici della nostra convivenza e solleticando quel microfascismo che è dentro di noi e ci fa desiderare il potere e ammirare i potenti. Un microfascismo che si esprime con parole e gesti rancorosi, mentre già echeggiano, nemmeno tanto distanti, il calpestio di scarponi militari e la voce delle armi da fuoco.

Succede che si sta sperimentando la costruzione del nemico assoluto, come con ebrei e rom sotto il nazi-fascismo, come con gli armeni in Turchia nel 1915, come con serbi, croati e bosniaci, reciprocamente, nell’ex-Jugoslavia negli anni Novanta, in nome di una politica che promette sicurezza in cambio della rinuncia ai principi di libertà, dignità e civiltà; che rende indistinguibili responsabilità individuali e collettive, effetti e cause, mali e rimedi; che invoca al governo uomini forti e chiede ai cittadini di farsi sudditi obbedienti.
Manca solo che qualcuno rispolveri dalle soffitte dell’intolleranza il triangolo nero degli asociali, il marchio d’infamia che i nazisti applicavano agli abiti dei rom.

E non sembra che l'ultima tappa, per ora, di una prolungata guerra contro i poveri.

Di fronte a tutto questo non possiamo rimanere indifferenti. Non ci appartengono il silenzio, la rinuncia al diritto di critica, la dismissione dell’intelligenza e della ragione.
Delitti individuali non giustificano castighi collettivi.
Essere rumeni o rom non è una forma di "concorso morale".
Non esistono razze, men che meno razze colpevoli o innocenti.

Nessun popolo è illegale.

Proposto da: Alessandro Bertante, Gianni Biondillo, Girolamo De Michele, Valerio Evangelisti, Giuseppe Genna, Helena Janeczek, Loredana Lipperini, Monica Mazzitelli, Marco Philopat, Alberto Prunetti, Marco Rovelli, Stefania Scateni, Antonio Scurati, Beppe Sebaste, Lello Voce, Wu Ming.
Tra i firmatari: Fulvio Abbate - Maria Pia Ammirati - Manuela Arata - Bruno Arpaia - Articolo 21 - Rossano Astremo - Andrea Bajani - Nanni Balestrini - Guido Barbujani - Ivano Bariani - Giuliana Benvenuti - Silvio Bernelli - Stefania Bertola - Bernardo Bertolucci - Sergio Bianchi - Ginevra Bompiani - Carlo Bordini - Laura Bosio - Botto&Bruno - Silvia Bre - Enrico Brizzi - Luca Briasco - Elisabetta Bucciarelli - Franco Buffoni - Errico Buonanno - Lanfranco Caminiti - Rossana Campo - Maria Teresa Carbone - Massimo Carlotto- Lia Celi - Maria Corbi - Stefano Corradino - Mauro Covacich - Erri De Luca - Derive Approdi - Donatella Diamanti - Jacopo De Michelis - Filippo Del Corno - Mario Desiati - Igino Domanin - Tecla Dozio - Nino D'Attis - Emergency - Francesco Forlani - Enzo Fileno Carabba - Ferdinando Faraò - Marcello Flores - Marcello Fois- Gabriella Fuschini - Barbara Garlaschelli - Enrico Ghezzi - Tommaso Giartosio - Lisa Ginzburg - Roberto Grassilli - Andrea Inglese - Franz Krauspenhaar - Kai Zen - Nicola Lagioia - Gad Lerner - Giancarlo Liviano - Claudio Lolli - Carlo Lucarelli - Marco Mancassola - Gianfranco Manfredi - Luca Masali - Sandro Mezzadra - Giulio Milani - Raul Montanari - Giuseppe Montesano - Elena Mora - Gianluca Morozzi - Giulio Mozzi - Moni Ovadia - Enrico Palandri - Chiara Palazzolo - Melissa Panarello - Valeria Parrella - Anna Pavignano - Lorenzo Pavolini - Giuseppe Pederiali - Sergio Pent - Santo Piazzese - Tommaso Pincio - Gabriella Piroli - Guglielmo Pispisa - Leonardo Pelo - Gabriele Polo - Andrea Porporati - Alberto Prunetti - Laura Pugno - Serge Quadruppani - Christian Raimo - Veronica Raimo - Franca Rame - Lidia Ravera - Jan Reister - Enrico Remmert - Marco Revelli - Ugo Riccarelli - Anna Ruchat - Teresa Sarti - Roberto Saviano - Sbancor - Clara Sereni - Gian Paolo Serino - Nicoletta Sipos - Piero Sorrentino - Antonio Spaziani - Gino Strada - Subsonica - Carola Susani - Stefano Tassinari - Annamaria Testa - Laura Toscano - Emanuele Trevi - Filippo Tuena - Raf Valvola Scelsi - Francesco Trento - Nicoletta Vallorani - Paolo Vari - Giorgio Vasta - Maria Luisa Venuta - Grazia Verasani - Sandro Veronesi - Marco Vichi - Roberto Vignoli - Simona Vinci - Yo Yo Mundi

03 novembre 2007

Un'altra sicurezza è possibile (appello dell'ARCI)

Il tema della sicurezza ha assunto una crescente centralità nella discussione politica italiana e influenza sempre più le scelte e gli orientamenti delle amministrazioni pubbliche, degli enti locali e dei governi. I mezzi di informazione hanno riservato a questo tema uno spazio enorme, determinando vere e proprie campagne di allarme sociale che, partendo da singoli episodi, descrivono le nostre città come invivibili e insicure. L'insicurezza e la paura viene quasi sempre ricondotta alla presenza di emarginati, poveri e migranti, associando in maniera discutibile i comportamenti illegali alle categorie socialmente più deboli e ai soggetti che vivono in condizioni di disagio abitativo e sociale. Siamo molto preoccupati per la tendenza a individuare nei più emarginati, rom e migranti in primo luogo, i facili capri espiatori di questo crescente sentimento di insicurezza. Da anni le organizzazioni sociali laiche e religiose partecipano con impegno e competenza alla individuazione e alla sperimentazione di percorsi di inclusione sociale per superare in maniera positiva le tante situazioni di disagio nelle città, collaborando con le amministrazioni pubbliche e mettendo a disposizione il proprio radicamento territoriale e il lavoro di tanti operatori e di tante operatrici.
Occorre costruire opportunità e spazi di cittadinanza per tutte e tutti. Un welfare adeguato significa rendere i diritti esigibili e universali, indipendentemente dalle condizioni sociali, dai comportamenti e dalle possibilità di ogni individuo C'è bisogno di un intervento che metta al centro le persone, con i loro percorsi e i loro diritti, senza rinunciare a dare risposte alle paure di tante e tanti nostri concittadini, ma ricercando soluzioni concrete, seppur più difficili e complesse, anziché limitarsi a fare semplici dichiarazioni. La repressione di comportamenti illegali non può tradursi in persecuzione del disagio sociale. Accanto a una giusta attività di repressione, che deve però svolgersi nel rispetto dell'art.3 della nostra Costituzione e prevedendo le giuste garanzie per le persone più deboli, va messa in campo una attività diffusa e radicata, di mediazione sociale e accompagnamento per la risoluzione dei conflitti, che impedisca la crescita di razzismo e frammentazione sociale.L'impegno straordinario di personale di pubblica sicurezza per affrontare il disagio sociale e abitativo si traduce in minori forze impegnate contro la grande e la piccola criminalità e un progressivo intasamento del sistema giudiziario.
Chiediamo alle forze politiche, al Parlamento, al Governo e a tutti coloro che hanno responsabilità di governo del territorio di riportare la discussione sul disagio sociale e sulla sicurezza su un terreno costruttivo e di confronto che veda protagoniste tutte le forze sociali, i cittadini e le cittadine, compresi migranti e minoranze, ricercando soluzioni condivise e sostenibili che abbiano il segno della giustizia e della solidarietà.
Le città aperte sono più sicure.
Il razzismo rende tutte e tutti più insicuri.
Primi firmatari: Paolo Beni (ARCI), Stefano Rodotà, Don Luigi Ciotti (Libera), Livio Pepino (MD), Lorenzo Trucco (ASGI), Sergio D'Angelo (DROM), Angelo Caputo (MD), Vincenzo Castelli (On the road), Pia Covre, Filippo Miraglia (Arci), Susanna Ronconi (Forum droghe), Gigi Sullo (Carta) On. Carlo Leoni (Vicepresidente Camera dei Deputati), Sen. Giovanni Russo Spena (Capogruppo PRC Senato), Andrea T. Torre (Centro Studi Medì-GE), Pina Rozzo (Vicepresidente della Provincia di Roma), Silvia Buzzelli (docente università di milano- bicocca), Dino Bruno (insegnante),Nazzarena Zorzella (ASGI), Dott.ssa Paola Balbo, Ferruccio Pastore (Cespi), Comunità cristiana di base Oregina di Genova, Giuseppe Faso (Centro interculturale empolese-valdelsa), Marina Veronesi (Centro interculturale empolese-valdelsa), Guido Savio (avvocato, socio ASGI)Per informazioni e adesioni: Eva Fratucello - tel. 0641609503; fratucello@arci.it
Oltre a questo è doverosa anche una visita al sito dell'Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione - http://www.asgi.it/
È tardi ormai, troppo tardi. Ma un tentativo si può sempre fare...
Uvaozio

02 novembre 2007

Giorni e nuvole

"... Vanno vengono ritornano e magari si fermano tanti giorni che non vedi più il sole e le stelle e ti sembra di non conoscere più il posto dove stai"
(Nuvole, Fabrizio De Andrè)

Difficile pensare che Soldini non abbia, più o meno consciamente, dedicato questo film girato a Genova a Fabrizio De Andrè.
La città fa da sfondo, malinconico nella bellezza dei suoi scorci, alla vicenda di Albanese e della Buy, bravissimi, una coppia come ce ne sono tante in Italia. Lui che lavora come dirigente in un'azienda, dove è socio; lei che, dopo aver cresciuto la figlia, approfittando della tranquillità economica si sta prendendo una laurea in Lettere, indirizzo Beni Culturali. Improvvisa arriva la mazzata, il giorno dopo la laurea di lei: Albanese ha da due mesi perso il lavoro, fatto fuori dal socio-amico insieme al nuovo socio-cattivo, coalizzati insieme contro di lui per salvare la baracca e loro stessi.
Da lì inizia un lungo viaggio, che porta lui sempre più in fondo in una scala sociale di cui non si vede la fine, e lei a trovare lavori per ovviare alle esigenze economiche della famiglia. Di contorno una figlia con un apporto conflittuale con il padre, le amicizie della coppia sempre più lontane (per convenienza, ma anche per scelta di fuggire lontano, come i cani quando stanno male e si rifugiano in un angolo nascosto, il più possibile), lavori sempre più irragiungibili (diceva già Flaiano 40 anni fa che non bisognava chiedere 50.000 Lit al mese per un lavoro, di quelli non ce n'era. Bisognava chiederne 200.000 Lit, di quelli si trovavano...). E ancora nuovi e strani compagni di viaggio/sventura per lui, il rapporto con il padre che continua a mantenere in una clinica nonostante tutto, un'avventura per lei sul posto di lavoro, dopo mesi di fatica, piccole e grandi umiliazioni.
Una coppia di brave persone, alle prese con una cosa più grande di loro. Il problema dell'alcolismo del film di Edwurds degli anni Sessanta I giorni del vino e delle rose, qui è diventato il problema della disoccupazione, ma ugualmente coinvolge e sconvolge la vita della gente. Come cornice un affresco, di tale Bonaventura da Barga, che lei aveva contribuito col suo lavoro (e, capiremo alla fine, con una intuizione) a rimettere alla luce in una vecchia soffitta genovese, davanti al quale i due protagonisti si trovano nell'ultima scena, dopo un litigio che poteva essere decisivo per proseguire ognuno per la propria strada, prendendosi per mano e decidendo di rimanere insieme, qualunque cosa accada.
Fin qui il film, storia plausibile nel panorama italiano di chi si trovi, nel corso della propria vita, a perdere un lavoro, e ad annaspare per trovarne un altro, per capire che ogni vita lavorativa spesso fa storia a sè, e che è inutile guardarsi troppo indietro. Storia "di pancia", dove i due protagonisti viaggiano a braccetto per tutto il film, da coppia modello, fino a che piano piano si cominciano a vedere le crepe che quella bomba ad orologeria ha provocato nella loro vita.
"Tutto sarà come prima", continua a ripetere lui per la prima parte del film, incessantemente, credendo che quel fatto sia come un monsone passeggero, destinato a lasciare posto al sole. Solo per accorgersi, dopo aver sceso diversi gradini della propria autostima, e di quella del mondo esterno, che non sarà così, che quel fatto ha cambiato per sempre le loro vite.
Abbiamo una strana concezione del lavoro, nella nostra società. Legata a diverse variabili: il denaro, il ruolo sociale, il tempo. Non uguali per tutti, ovviamente: chi mette al primo posto i soldi, chi il tempo a disposizione, chi il ruolo sociale. Ma nella concezione tradizionale, quella medio-borghese che guarda al conto corrente, Albanese può solo perdere: soldi, prestigio, considerazione della propria famiglia, fino a quel momento felice quasi in maniera atipica. Da guadagnare ha in tempo libero, possibilità di guardarsi intorno e decidere dove indirizzare il timone della propria esistenza, ma è troppo preoccupato per godersi quel momento, troppo solo per consigliarsi con qualcuno, troppo bloccato per osare qualcosa, qualunque cosa; al più è talmente disperato che un giorno va a fare il pony-express, incontrando la propria figlia che viene a sapere del licenziamento.
Perchè è così che ti frega il lavoro: tu pensi di dominarlo, ma è lui che ti stritola, alla fine. Che tu l'abbia o meno, siamo tutti nel fiume che annaspiamo, in pieno terzo millennio, a lavorare male per guadagnarci da vivere, quando un tempo si pensava che le macchine ci avrebbero del tutto sostituito. Anzi, per andare avanti sulla flessibilità, sul necessario adattamento, abbiamo perso in sicurezze, siamo sempre lì che ci guardiamo alle spalle in attesa di un nemico che forse nemmeno c'è, nemmeno fossimo di ronda sulla Fortezza Bastiani.
Dov'è il nemico, saranno i nostri capi che portano le produzioni in giro per il mondo, o gli extracomunitari che bussano alle nostre frontiere e vengono a domicilio ad occupare spazi lavorativi, che peraltro nessuno vorrebbe più?
La storia di Albanese è una storia di grave disagio perchè la storia di una caduta, ma quante ce ne sono di vicende di precariati di vario genere, che vanno avanti per decenni in uno stato di calma piatta, senza consentire
sogni, aspirazioni, illusioni a chi le vive, e quante ce ne saranno nel prossimo futuro?
Il film si chiude sulla considerazione che il privato sconfigge le brutture del mondo. Forse.
Bisogna avere fortuna, talento, spirito di sacrificio, saper valutare le priorità. Conoscere queste priorità, che già non è da tutti.
Perchè in mezzo alle nuvole, alla fine, non è mica facile capire dove stai andando.
Alessandro Tozzi

21 ottobre 2007

Le capitali d'Italia

Questo libro è il frutto del terzo viaggio in Italia... Ogni venti anni in Italia cambiano i linguaggi e con quelli i valori. Come nel ' 68 e nell'88, l'impressione è che in questi anni l'Italia si trovi alla vigilia di una svolta importante. Una svolta politica, certo. La stagione che abbiamo chiamato Seconda Repubblica, vissuta per 15 anni sul duello tra Berlusconi e Prodi, l'Italia dell'uno e quella dell'altro, è alla fine. Le parole, i discorsi, le polemiche infinite che accompagnano il tramonto hanno l'aria dei saldi di fine stagione. Fra pochi anni o pochi mesi, il dibattito che riempie le pagine dei giornali e i notiziari televisivi ci sembrerà archeologia. Qualcosa sta crescendo, avanza nell'aria e non si sa ancora se sia il peggio o il meglio. Non si capisce se alle porte c'è il salto verso la modernizzazione che il paese finora ha evitato, passando da un'illusione di miracolo all'altra, oppure se incombe un'altra e definitiva restaurazione. Perchè le città? Perchè sono le nostre patrie. L'Italia non è mai riuscita ad essere per gli italiani quello che Venezia, Genova, Roma, Firenze, Napoli, Palermo, Torino, Milano, sono state e sono ancora per veneziani, genovesi, romani, fiorentini, napoletani, palermitani,torinesi , milanesi e per il resto del mondo. L'italiano, diceva Ennio Flaiano, quando si ricorda di essere italiano, diventa subito fascista. Oppure non se ne ricorda - accade più spesso - e allora parla laconicamente del nostro paese, con distacco, scetticismo, diventa banale, e in genere lagnoso. Ma appena lo zoom si restringe al borgo natio, si tratti di Roma o Petralia, si accende la passione, la frase si colora, lo sguardo diventa originale. Il Comune è stata la prima e l'unica nostra vera invenzione politica. Nella dimensione cittadina - dove perfino l'architettura chiama alla partecipazione, con la piazza centrale che armonizza la divisione dei poteri, con il municipio, la curia e il palazzo di giustizia equidistanti - gli italiani tornano protagonisti e non sudditi.

Curzio Maltese dal libro I padroni delle città Ed. Feltrinelli ("La Repubblica" 19 ottobre 2007)

12 ottobre 2007

La seconda morte di Daniele Boccardi

Della seconda morte, quella culturale, di Luciano Bianciardi ho parlato senza remore ogni volta che ho potuto, e adesso ne parla anche Ettore, e non scherza mica.

Invece della seconda morte di Daniele Boccardi, quella civile e culturale, si è parlato poco. Io stesso ho scelto di starmene buono finchè, qualche giorno fa, ho letto che il concorso letterario a suo nome, patrocinato ed organizzato dalla Biblioteca Comunale di Massa Marittima è stato affidato ad un intellettuale (intellettuale?) meglio noto per essere tra i becchini culturali della fondazione Bianciardi. Non ne faccio il nome perchè nemmeno se lo merita.

Daniele Boccardi: non ho mai avuto il minimo dubbio di avere a che fare con un grande, grandissimo scrittore, per qualità, per provocatorietà, per passione civile, per tutto. La troppa passione e forse la fragilità esistenziale in un ambiente (il “paese ufficiale” dei politici e degli amministratori) ottuso ed a lui ostile, lo spinsero al suicidio, circa quindici anni fa.

Un velo di pietà e di silenzio fu steso su di lui e sulla sua opera, rotto solo dalla determinazione del padre di far venire alla luce i suoi scritti. Dopo aver bussato invano a varie case editoriali, bussò alla mia e fu accolto a braccia aperte. Nacque un sodalizio che produsse, oltre ad una sincera amicizia, testimoniata da decine di lettere e di incontri, numerosi libri: vari millelire speciali ed un volume Eretica “Vite minime/Racconti diseducativi” orgoglio del mio catalogo.

La passione per Daniele Boccardi si estese tra gli amici ed i compagni che frequentavano una sperduta e favolosa osteria alle porte di Massa Marittima. Lì nacque e prese corpo il “Fondo Daniele Boccardi”, con gli stessi intenti che oggi io e Ettore ci proponiamo per l’Antifondazione Bianciardi. Tra le numerose iniziative del Fondo, quella di un concorso letterario nazionale per opere inedite di qualità, appunto patrocinato dalla Biblioteca Comunale.

Poi, un paio di anni fa, il colpo di scena. Il padre di Daniele buttò nella spazzatura tutta l’amicizia e la solidarietà e s’inventò, ispirato da una Signora spuntata dal nulla e autoprocalmatasi fidanzata di Daniele Boccardi (ma Daniele non doveva portare all’altare un’altra fidanzata, proprio i giorni del suicidio?), nonchè sua erede culturale.

Fatto sta che sotto la regia della Signora spuntata dal nulla il Fondo viene portato in tribunale, e dopo un umiliante patteggiamento, decide di togliere il nome Boccardi e di chiamarsi semplicemente Fondo. Che il Fondo abbia fatto poco o nulla di iniziative alla vecchia maniera è tutt’altra storia, tutta da scrivere e magari qualcosa bolle in pentola che io non so (almeno mi piace pensarlo). Che i Boccardi abbiano sepolto per la seconda volta Daniele, almeno culturalmente, è certo. Che poi questi nuovi funerali vengano officiati da uno dei becchini della fondazione Bianciardi, è certo anche questo. Come è certo che ci sia una morale in tutta questa orribile storia, tipica di quella palude grossetana buona a celebrare funerali culturali piuttosto che far vivere cultura viva e vera.

La morale è che bisogna diffidare gli eredi degli scrittori (almeno di quelli di qualità, perchè degli altri poco importa), a mettere i loro artigli sulle eredità culturali. Altrimenti succede quello che è successo a Daniele e quello che è accaduto a me, reo di voler pubblicare “Bianciardi com’era” di Mario Terrosi: esser diffidato a farlo dall’erede Luciana.

Meno male che c’è ancora chi, come Ettore, vuole fermamente interrompere questa rapina (culturale, s’intende)

Marcello Baraghini


Baraghini,
dato che si proclama conoscitore, nonchè grande estimatore, di mio fratello Daniele, le consiglio vivavamente - onde evitare le pessime figure che sta facendo - di informarsi prima sul suo conto e la sua vita che, mi pare, le è tutt’ora ignota.
Prima di tutto, la sua morte risale a 14 anni fa e non 15 , brutto errore per un caro amico…ma forse lei è stato amico di Daniele quanto quegli”amici e compagni che frequentavano quella sperduta e favolosa osteria”, cioè, non l’avete neanche mai visto, o comunque a nessuno di voi ha mai degnato una parola!!!!
E poi, cari buoni vecchi amici di Daniele, ma come potete aver dimenticato la sua storica fidanzata, quella splendida persona che ha condiviso con lui più di 15 anni della sua vita e che voi chiamate “la signora spuntata dal nulla autoproclamatasi fidanzata”? Non pensate che Daniele, che dite di conoscer tanto bene, ne rimarrebbe offeso?
Temo che non sappiate proprio di che cosa parlate, altrimenti evitereste certe orride figure..ma forse, chi vi legge, non è migliore di voi!!!
Per quanto riguarda la seconda morte che noi familiari avremmo inflitto a mio fratello, la trovo sì una calunnia degna di trbunale, quello dove NOI abbiamo UMILMENTE patteggiato, perchè NOI affetti dal dolore e dalla disperazione, ci siamo dovuti accontentare.
Mi permetta un’ultima cosa, in fondo lei di cose assurde ne dice tante, se ci volesse così poco per seppellire (sempre culturalmente, dico)una persona, lei crede che voi esistereste ancora?
La lascio su questa profonda riflessione e un consiglio: si rilegga gli appunti prima di parlare.

Michela Boccardi

Michela,
mi verrebbe voglia di dirti “Cara Michela”. Ma potresti offenderti e magari chiamarmi a risponderne penalmente. Purtroppo non sono stato amico di tuo fratello Daniele, Non l’ho mai conosciuto e quindi non l’ho frequentato e non avevo letto nulla scritto da lui, nemmeno sulle riviste che pure ogni tanto leggevo. Fino al giorno in cui tuo padre mi ha cominciato ad inondare, letteralmente inondare, di materiali e poi, non molto dopo, inondare ancora di ricordi, di desideri. Primo fra tutti il desiderio che l’opera di Daniele, tutto quello che era possibile reperire, venisse alla luce. Subito, prima possibile. Così è scoppiato l’amore, la stima, la passione, quella stessa che mi trasmetteva tuo padre. E l’ansia, quasi, di pubblicare. Tuo padre, il padre di Daniele, è stato mio complice al cento per cento, possono testimoniarlo le decine di lettere, tenere, appassionate, oltre che istigatrici a pubblicare: tutte rigorosamente scritte di suo pugno. E anche qualche banconota da 50 per contribuire alle spese tipografiche, in cambio di copie.
In ragione di questo afflato e di questa complicità, ho pubblicato, ho curato “Vite minime”, e perfino ne ho scritto, per la prima volta in vita mia, la prefazione, E poi, io, tuo padre e nuovi complici abbiamo dato vita al Fondo Boccardi (posso nominarlo ancora così, o rischio la querela?).
Fino alla sera in cui (io non c’ero) a Grosseto, in una sala affollata, alla lettura di alcuni aforismi di Daniele, è saltata su la fidanzata (vera o falsa che fosse stata) a dichiarare guerra al Fondo Boccardi e ad intraprendere azione giudiziaria.
Rivendico il diritto ad essere innamorato dello scrittore Daniele Boccardi.
Nessuno, nemmeno tu Michela, me lo puoi negare. Puoi soltanto contestarlo.
Aggiungo che mi batterò fino alla fine della mia attività pubblica affinchè agli eredi venga negata la possibilità di disporre, in modo esclusivo e discrezionale, delle opere di loro parenti.
Le opere, specialmente quelle straordinarie, come quelle di Daniele, appartengono all’Umanità.

Lo dico senza retorica

Marcello Baraghini (dal sito di Ettore Bianciardi riaprireilfuoco.org)