15 maggio 2006

Abbiamo bisogno di tornare a leggere Pasolini e Bianciardi

Lo scrittore e critico viterbese Antonello Ricci, nostro collaboratore, dà conto di una sfortunata, piccola impresa editoriale, di cui è stato co-protagonista. Una vicenda poco commendevole sotto vari punti di vista. Senza voler giudicare chicchessia, osserviamo che la visione di un libro già stampato e pronto ad essere distribuito, che viene fermato e indirizzato al macero è una brutta immagine che evoca scene da Fahreneit 451 e anche di peggio. Osserviamo altresì che, forse, bisognerebbe cominciare a pensare a delle norme legislative che separino l’usufrutto del diritto economico d’autore dalla proprietà e cura intellettuale delle opere d’autore. Essendo acclarato che quasi mai gli eredi parentali sono i migliori giudici e amministratori del patrimonio artistico e culturale dei loro consanguinei. Ciò detto, possiamo aggiungere che Bianciardi com’era non offende né depriva alcuno. È un piacevole libretto che non ha pretese critiche o ermeneutiche, è la partecipe testimonianza di un’amicizia nata in gioventù e siglata dalle lettere che Bianciardi scrive a Terrosi in un arco temporale che va dal 1946 al 1971, anno della morte di Luciano. Come giustamente sottolinea Ricci nella post-fazione, il leit-motiv dell’epistolario sembra essere l’oscuro senso di colpa che attanaglia Bianciardi per aver abbandonato Grosseto e la comunità della sua provincia, e il continuo raffronto con la vita agra e amara che egli mena tra le nebbie padane di Milano, nonostante i suoi non disprezzabili successi professionali. Che è poi il grumo etico-esistenziale che si sviluppa nel suo capolavoro narrativo. Queste lettere ne sono un prezioso pendant, Opportunamente Ricci ne evidenzia una scritta nel giugno del 1962: «Qui continua il miracolo, dicono; tutti si comprano l’automobile, qualcuno anche il panfilo, e di tutto il resto se ne fregano. Ma non sono contenti: sono sempre incazzati. Insomma è brutta gente. Il peggio è che nel resto del paese, potendo, fanno il verso a questi di quassù. Se continua il miracolo, fra vent’anni tutta l’Italia si ridurrà come Milano». Bianciardi, al pari di Pasolini, aveva capito e avvertito in anticipo che proprio il ‘miracolo economico’, lo sviluppo neocapitalistico, il ‘boom’ consumistico stavano mettendo capo ad una mutazione antropologica di lungo corso. Al termine della quale avremmo trovato il ‘berlusconismo’ (ma questo loro non potevano, umanamente, prevederlo). Le radici del cavaliere-caimano sono lontane e profonde. Oggi ci guardiamo attorno e, secondo dice Bianciardi, vediamo tanta “brutta gente” disperatamente incazzata e grettamente avvinghiata a un malinteso materialismo. Per questo abbiamo bisogno di tornare a leggere Pasolini e Bianciardi, per continuare a dire no ad una ‘Italia agra’ che non ci piace.

Marco Palladini direttore editoriale www.retididedalus.it

5 commenti:

Anonimo ha detto...

non è un caso che Pasolini e Bianciardi siano stati profeti ed abbiano fatto una fine prematura.....

Anonimo ha detto...

ci sono anche profeti che arrivano a cento anni...

Anonimo ha detto...

in ogni caso tempi duri per i troppo profeti...e memoria corta per noi criceti...

Anonimo ha detto...

il fatto è che Pasolini e Bianciardi non ci sono più, e gran sostituti in giro non se ne vede, almeno in italia...

Anonimo ha detto...

beh, c'è melissa p...