16 febbraio 2008

Liberarsi dalla mentalità del ghetto

LIBERARSI DELLA MENTALITÀ DEL GHETTO

L'Italia è un ghetto, gated community, galera della mente. Negli sguardi il mondo è assente. Provincialismo, campanilismo, familismo, visioni sempre più anguste. Le lingue inciampano sugli idiomi forestieri, i media ufficiali alzano muri, presidiano i confini, fanno entrare in prevalenza fesserie, propaganda, mode effimere e gossip. Dentro, poi, è una nube perenne di gas, "l'onorevole ha dichiarato... il senatore ha detto... la coalizione... le riforme...". Non-eventi, commenti sui commenti, dibattiti dementi. La Rete permette di comunicare col mondo, ma nessuno insegna a usarla al meglio, in modo conscio e responsabile, e anche lì si formano ghetti, énclaves, circuiti di celle di clausura in cui s'amplifica il provincialismo.

Tra gli italiani che vanno all'estero, molti transumano in ulteriori ghetti, villaggi-vacanze, luoghi plasticosi dove si spaparanzano, senza mai conoscere nulla della società che sta intorno, finché attentati o guerre civili non fanno irrompere l'odiata realtà, e allora l'anno prossimo si cambierà destinazione, si troverà una nuova bolla in cui parlare solo italiano, tra italiani, e lamentarsi di come vanno le cose là a casa, inveire contro i negri, gli zingari, i Comuni che lasciano costruire le moschee.
Tra quelli messi peggio c'è persino chi finge di andare in vacanza, saluta i vicini e si chiude in casa, finestre sprangate, scorta di viveri, due-tre settimane modello bunker, poi "torna" con racconti di fantasia.
"Vacanze-talpa", le chiamano. Metafora perfetta, in un paese di politica da talpe, informazione per talpe, incontri tra talpe, vite da talpe.

E il peggio è che ci si abitua. Si abituano anche i migliori, cedono al disincanto, all'abitudine, alla sconfitta. Si china la testa e si va avanti, magari si tira qualche bestemmia ogni tanto, ma non si va oltre. La vita da talpe diventa normalità, corso delle cose. Fuori il mondo collassa e preme, ma le talpe se ne accorgeranno solo all'ultimo momento, quando un disastro interromperà il tran tran. E intanto: centrosinistra, centrodestra, centrosinistra, il PIL cresce dello 0,1%, il PIL cala dello 0,1%, e leggi elettorali chiamate con nomignoli, e la Confindustria dice, e l'onorevole dichiara...
La mentalità del ghetto è il peggior nemico. La mentalità del ghetto ottunde e disarma, distrugge le difese.

Il libro più famoso di Raul HilbergTorna attuale, oggi più che mai, uno scritto di Bruno Bettelheim (1903-1990), celebre e controverso psicologo ebreo. Non è un testo clinico, ma una riflessione storico-politica. Si intitola "Liberarsi della mentalità del ghetto", e chiude la raccolta di saggi La Vienna di Freud (Feltrinelli, 1990).
Bettelheim si interroga sui motivi per cui gli ebrei d'Europa opposero così poca resistenza al loro sterminio, anzi, moltissimi "marciarono consenzienti verso la propria morte", e alcuni addirittura collaborarono con zelo al disegno dei carnefici, ad esempio denunciando i tentativi di evasione dai lager o consegnando alle SS leader della resistenza come Yitzhak Wittenberg. E non si parla di perfidi kapò, ma di vittime, persone avviate alla morte, tanto fatalisticamente rassegnate da vedere nella resistenza altrui un inaccettabile affronto al destino, al corso delle cose. "Si comportavano così", scrive Bettelheim, "perché avevano rinunciato alla volontà di vivere e si erano lasciati invadere dalle loro tendenze distruttive. Di conseguenza, ormai si identificavano con le SS, che si erano poste al servizio di tali tendenze, più che con i compagni che ancora rimanevano attaccati alla vita, e che per questo riuscirono a eludere la morte."
Bettelheim parte da una constatazione di Raul Hilberg sul "ruolo che gli ebrei ebbero nel proprio sterminio", cita diversi episodi, e da essi risale al comune denominatore: la mentalità del ghetto (ghetto thinking). Furono la chiusura mentale delle comunità ebraiche (soprattutto dell'Europa orientale), il loro asfissiante conformismo, l'obbedienza al dogma religioso e la costante fuga dal mondo a impedire di capire per tempo cosa stava per accadere, quando invece era evidente a chiunque altro, in primis agli ebrei che avevano lasciato i ghetti e tagliato i ponti e si erano messi al riparo prima del punto di non-ritorno.

A scanso di equivoci: non sto aderendo alla tesi di Bettelheim (e Hilberg), che ha scatenato polemiche e accuse postume. In generale mi suona plausibile, gli esempi sono numerosi e mi è parso di trovare conferme negli studi di altri autori. E' vero tuttavia che Primo Levi, nel capitolo "Stereotipi" de I sommersi e i salvati, imposta la questione in modo molto diverso. Se mi azzardassi ad approfondire finirei fuori strada e nel mezzo di un ginepraio; lascio dunque a chi legge la libertà di confrontare i due punti di vista e trarre le proprie conclusioni.
Non intendo nemmeno operare una reductio ad hitlerum. Paragonare qualunque crisi sociale a quella che portò al nazismo e alla Shoah è uno sport fin troppo - e sempre più - praticato. Non coltivo l'osceno proposito di stabilire similitudini tra le "forze sane" (o sanabili) di questo Paese e gli ebrei sterminati nei campi. Chiunque di noi è sideralmente lontano dal subire alcunché del genere.
Quel che mi interessa è il "ghetto" come metafora utile a capire la situazione italiana, con particolare riferimento a due fenomeni interdipendenti: la "fuga dei cervelli" e il restringersi degli orizzonti. Scrive infatti Bettelheim:

Per almeno tre generazioni, tutti coloro che non erano più disposti a sottomettersi a condizioni di vita che non consentivano il minimo di rispetto di sé necessario a confrontarsi col mondo moderno, se ne andarono dal ghetto. Così come se ne andarono tutti coloro che di quel mondo volevano fare parte e tutti coloro che volevano combattere per la libertà, propria e altrui [...] E' difficile valutare quali effetti abbia su un popolo il fatto che per tre generazioni i suoi membri più attivi, quelli il cui ideale era combattere per la libertà, se ne siano andati, e siano rimasti soltanto quelli a cui mancano il coraggio e l'immaginazione per concepire un modo di vivere diverso. Il piccolo gruppo di ebrei che tanto si distingue nella vita culturale americana, per esempio, si era allontanato da almeno un secolo dalle comunità ebraiche dell'Europa orientale.

Ci sono due modi di andare oltre la mentalità del ghetto.

La fuga di cervelliIl primo consiste appunto nel sottrarvisi. Esodo, emigrazione. Per fare un esempio, l'Italia ha un mondo accademico che aborre il ricambio e sfrutta, umilia, devasta dottorandi e ricercatori. I concorsi sono truccati, i posti sono bloccati, nemmeno leccare culi dà più garanzia di alcunché.
Andarsene all'estero è un'opzione giusta, perché libera gli individui e sprigiona energie, ma a lungo termine le conseguenze sul luogo abbandonato possono essere molto negative, se non catastrofiche. Con il brain drain il panorama culturale italiano si impoverisce, cala il numero di sinapsi attive, il livello medio si abbassa sempre di più.
Si potrebbe riporre qualche speranza negli immigrati, o meglio, nel desiderio dei loro figli e nipoti di abbandonare i nuovi ghetti, le ennesime gated communities, le isole di conformismo e paranoia, ma non ci riusciranno se la situazione del Paese continua a peggiorare. Il circolo è vizioso.

L'altro modo è sfumare la distinzione fra chi parte e chi rimane, creando intersezioni, figure ed esperienze di sintesi, e soprattutto circoli virtuosi.
Da un lato, chi se ne va e riesce a lavorare bene dovrebbe compiere ogni sforzo per avere un'influenza positiva sulla situazione che si è lasciato alle spalle.
Dall'altro, ed è questo l'aspetto più importante, chi rimane deve contrastare le spinte alla chiusura, resistere a provincialismi e nuovi razzismi, guardare fuori e cercare di guardare l'Italia da fuori, con occhi non velati dalla pigrizia, senza dare niente per scontato o "naturale". Sforzarsi di studiare le lingue, "pensare extra-italiano", auto-educarsi a un uso della rete e delle reti che proietti l'immaginazione oltre le obsolete frontiere nazionali. Chi ha la possibilità di farlo deve tenere un piede fuori dall'Italia, spostarsi, viaggiare, fare periodi di lavoro e studio all'estero, approfittare di ogni progetto, partenariato, stage, borsa di studio, Erasmus, Leonardo, Comenius, quel cazzo che vi pare ma fatelo, andateci.

[NOTA BENE. Uno dei sintomi più evidenti della chiusura italiana è proprio il fatto che, dall'anno accademico 2003-2004, il numero degli universitari che effettuano soggiorni Erasmus è in calo anziché in crescita. Nel 2006, soltanto un misero 6,2% degli iscritti agli atenei italiani ha preso parte al programma. Questa percentuale esprime la media nazionale: la situazione al Nord è leggermente migliore (7,1%), mentre al Sud è decisamente peggiore (3,5%).
E' vero, c'è un problema di classe sociale, le borse di studio di cui parliamo ammontano a cifre ridicole e non bastano al sostentamento dello studente, quindi chi viene da una famiglia o da una zona più povera ha maggiori ostacoli di fronte a sé... ma questo era vero anche prima, è sempre stato vero, di per sé non basta a spiegare un simile rattrappimento. Anche perché parliamo del 94% degli universitari italiani, cioè - nell'anno accademico 2005-2006 - oltre duecentottantamila persone. Ritengo improbabile che siano tutti figli di poveri.
No, il punto è un altro: conosco persone che hanno fatto l'Erasmus negli anni Novanta, da studenti-lavoratori, lavando piatti in ristoranti tedeschi o distribuendo volantini a Londra, di fronte alle fermate del Tube. Io stesso mi sono pagato il Leonardo in Inghilterra facendo lavori improbabili. Se uno desidera andare all'estero ci va anche facendosi il culo. Se non ci si va è perché quell'opzione non è più nell'orizzonte, non viene presa in considerazione, costa troppa fatica mentale. Il problema è culturale, il Paese si imbozzola nell'abitudine, vinto, impaurito.]

Tana di talpeRipropongo il duro monito di Bettelheim, che risale al 1962 ma sembra scritto domani:

Per molti versi, il mondo occidentale stesso sembra avviato ad abbracciare la filosofia di vita del ghetto: non voler sapere, non voler capire che cosa accade nel resto del mondo. Se non stiamo attenti, l'Occidente dei bianchi, che già costituisce una minoranza, si murerà in un ghetto di sua stessa creazione, fatto dei cosiddetti deterrenti nucleari. Molti, dentro tale cintura di protezione, che è anche una cintura di costrizione, già si preparano a scavarsi i loro rifugi. Come per gli ebrei che restarono nei ghetti d'Europa anche dopo l'arrivo dei nazisti, si direbbe che per noi conti soltanto poter continuare il lavoro nel nostro enorme shtetl, e che importa ciò che succede nel resto del mondo?

Occupiamoci del mondo, allora, perché noi siamo il mondo. Vanno bene anche piccoli "esercizi spirituali", giochi per forzare l'immaginazione e corteggiare l'inatteso, come leggere ogni tanto link un quotidiano giamaicano, o link del Belize, o link della Guinea. Ricordarsi che ci sono tante e diverse comunità di umani, là fuori, tanti mondi, tanti piani di realtà.
Senza questo, tutto diventa merda: il sociale, la politica, le arti... persino l'amore, perché anche la famiglia diviene un fortino armato contro l'esterno, tana di talpe dove i "cazzi nostri" contano più di tutto, e a tutto si è disposti per difenderne il primato.
Come hanno fatto Olindo Romano e Rosa Bazzi, perfetta coppia di arci-italiani.
Perché un intero paese non si riduca come loro, guardiamo al di là dei nostri nasi.

Wu Ming 1 www.wumingfundation.com

3 commenti:

Anonimo ha detto...

l'italia del 2008 è un paese ripiegato su se stesso, invecchiato,impaurito, intristito e pure incarognito.....se non è l'anticamera di un regime ancora peggiore....spero di sbagliare.....

Anonimo ha detto...

a proposito del pezzo, condivisibile ovviamente, consiglio di andare a vedere un film italiano del 2007, a circolazione limitatissima, che ho visto stasera.
si chiama il vento fa il suo giro, ed è la storia di un pastore francese che cerca di emigrare in un paese di una delle valli occitane del piemonte

consiglio caldamente

fiore ha detto...

consiglio accolto