02 gennaio 2008

La Spoon River di Torino

Antonio è morto in fabbrica, subito, mangiato dal fuoco. Gli altri sei dentro letti di ospedale, tutti fasciati, tranne gli occhi, corpi bruciati dall'80 al 90 %.
Bruno si sarebbe licenziato il giorno dopo per aprire un bar con la sua fidanzata, era entrato di turno a mezzanotte, per l'ultima volta, mandando un sms ad Anna, - ciao amore, a domani-. Rocco, che era salvo, è accorso nella tempesta per aiutare gli altri, a un mese dalla pensione. Antonio aveva provato a cambiare turno, inutilmente. Angelo si era fatto trasferire a Terni ma poi era ritornato, non era vita con la famiglia a Torino. Roberto viveva di straordinari, perchè è dura tirare su i figli, aveva implorato i medici di salvarlo per loro. Rosario aveva fatto un favore ad un compagno ed aveva preso il suo posto, suo padre aveva lavorato nell'acciaieria 33 anni.Giuseppe ha lottato come una tigre per 24 giorni, ventisei anni, una tempra formidabile ha retto a quattro interventi chirurgici, ma poi non ce l'ha fatta.


CHE COSA CI INSEGNA LA MORTE DEGLI OPERAI
ADRIANO SOFRI La Repubblica
31-12-2007

Il settimo, l´ultimo, è morto anche lui. Aveva anche lui 26 anni. L´agonia di Giuseppe Demasi, la più lunga, è finita: la cifra da incidere per lui sarà la stessa dei suoi sei compagni, quel 2007 che se ne va. Che ci fosse un superstite, anche uno solo, era l´estremo appiglio della speranza degli altri. «Sa, io sono vescovo e ai miracoli credo»: aveva detto così il cardinal Poletto, già prete operaio, a Paolo Griseri per queste pagine. Il miracolo non c´è stato. Ci sarà un ultimo funerale. Bisognerà improvvisare ancora qualcosa, per i discorsi, le omelie, le interviste. Che cosa, che non sia stato detto ancora? Che i sette operai morti, e i loro compagni che intanto abbiamo imparato a conoscere, i padri e i figli di un mestiere tramandato – le qualifiche da chiave a stella che ha raccontato qui Jenner Meletti, lo scriccatore, il fiammellista, il martellatore, il carropontista, e l´officina di Vulcano e l´inferno e il titanismo delle urla, delle colate gigantesche, dell´incandescenza – erano la vera aristocrazia operaia, a 1100 euro al mese, 1050 gli interinali, 1.300 dopo dieci anni. Aristocrazia operaia fu più di un secolo fa la dizione escogitata per bollare gli operai provetti, preziosi alla produzione, sicuri del proprio posto, che, secondo l´intransigenza leninista, i superprofitti imperialisti permettevano di comprare e corrompere separandoli dalla massa dei lavoratori proletari. Quante dispute attorno al privilegio corporativo o all´orgoglioso socialismo dei produttori, ai tornitori che sapevano «fare i baffi alle mosche». Nell´arco di una generazione a miccia corta, la mitologia della classe operaia è stata buttata via assieme alla dignità umana e sociale degli operai.Alzi la mano chi, nei giorni scorsi, non è restato sorpreso e in soggezione ad ascoltare quegli operai vecchi e giovani e i loro famigliari, chi non si è indotto a paragonarne fisionomie e parole a quelle degli ospiti fissi della conversazione pubblica e televisiva. Un caposquadra dei loro spiegava, senza lasciarsi interrompere, che i nomi tedeschi dei padroni non dovevano impedire di riconoscere le responsabilità di dirigenti italianissimi, attenti a fare il massimo conto della produzione e il minimo della vita. Tuttavia quei nomi tedeschi sono stampati nell´immaginazione nostra a caratteri più cubitali di quelli che campeggiano sui cancelli delle loro acciaierie. Nomi di vera altisonante aristocrazia. L´ennesimo discorso funebre rinuncerà a filare questa assonanza? La Germania ha fatto conti col passato assai migliori dei nostri, che anzi abbiamo riparato il nostro grigio all´ombra del suo nero. Tuttavia, il nome Krupp, quando per giorni non si trova nemmeno il tempo e la voglia di farsi vivi con le famiglie di lavoratori bruciati, non riesce a eludere le infami memorie. E quel nome Thyssen, appena rinverdito dal diario di una notte brava della baronessa Margit von Thyssen Bornemisza, nel castello di Rechnitz, il 24 marzo 1945, nascosta per più di sessant´anni. Al colmo di quella festa danzante vennero ammazzati centottanta prigionieri ebrei, per il divertimento della castellana e dei suoi amanti e cavalieri serventi. Raccontata da David Lichtfield in un libro, anticipata sull´«Independent» e ripresa con risalto dalla «Frankfurter Allgemeine Zeitung», la storia era finora nota ma ignorata. La più esauriente versione italiana è stata data sull´«Espresso» da Wlodek Goldkorn. Due aristocrazie, per così dire. Cattiva retorica, direte, cattiva demagogia. Può darsi. Ma il silenzio o la distratta evocazione che in Germania si sono riservati alla strage torinese fanno impressione, e inducono in tentazione. Non era, dopotutto, anche una tragedia tedesca? Per spiegare quell´indifferenza, intervistato dal Corriere, Giuseppe Vita, un italiano di nascita che ha raggiunto posti di altissima responsabilità in Germania, e presiede oggi le edizioni Axel Springer, ha detto, in sintonia con i giudizi di tanta autorevole stampa internazionale sul declino nostro: «Il mondo si disinteressa ancora una volta dell´Italia». Però qui non era genericamente il mondo. Era puntualmente la Germania, con quel marchio unificato, ThyssenKrupp. Se l´opinione pubblica tedesca fosse stufa della decadenza italiana – come darle torto? – dovrebbe tuttavia prendere a cuore la cafonaggine dei propri grossi nomi. Può darsi che il gioco di parole sull´estinzione della classe operaia e gli estintori in malora, che il raffronto fra l´aristocrazia operaia a tanto al mese di salario e l´aristocrazia industriale al più 27 per cento di profitti all´anno – e fra la linea gemella di Essen e i suoi dispositivi di sicurezza e la linea di Torino in via di dismissione – vi paiano espedienti troppo spericolati per l´ennesima orazione funebre che non voglia soltanto ripetersi: ve ne fornirò uno ancora più torbidamente eloquente. Se c´è stata a Torino una terribile tragedia italiana e insieme tedesca in Italia, ci fu nell´agosto scorso una orribile tragedia italiana in Germania, capace di riempire le cronache loro e nostre, e di farci vergognare di essere italiani. Successe a Duisburg, costò sei morti ammazzati – giovanissimi italiani, calabresi, come i loro assassini. I nomi grossi impressi come un marchio di esportazione su quella strage erano quelli di famiglie di ´ndrangheta di paese, la faida di San Luca, la nostra imprenditoria più rampante e globale, il nostro equivalente delle baronie dell´acciaio speciale. Un giovane tedesco depose davanti al ristorante alla cui porta era avvenuto l´eccidio, con dei fiori, un cartello con la scritta: «Warum?», «Perché?». I cartelli sono simili in tutti i luoghi del delitto. Come accostare una disgrazia sul lavoro, benché così tremenda, a un assassinio multiplo premeditato e incurante di ogni frontiera? – direte voi scandalizzati. Certo, non si deve fare, nemmeno alla vigilia dell´ultimo funerale: a meno di non cedere solo per una volta, solo per un pelo, alla demagogia, a meno di non ricordare il vecchio demagogo Bertolt Brecht: «Che cos´è una rapina in banca a confronto della fondazione di una banca?». E finalmente, visto che ci siamo, cederei per una volta, per un pelo, a un altro raffronto – alzi la mano chi non ci ha pensato: fra questi solenni funerali di operai ancora italiani, ancora giovani, ancora titolari di un mestiere e di una cultura propria, bruciati vivi in una fabbrica nel centro della città, e la processione interminabile che andò a rendere omaggio alla salma di Gianni Agnelli. Si sentì che Torino dava allora l´addio alla propria storia e a tutte le proprie dinastie: può darsi, e le memorie che si raccolgono in morte sono sempre significative di molto più che la loro occasione. Tuttavia la Torino che questa volta è rimasta a casa, benché non meriti d´essere sospettata di indifferenza e tanto meno di cinismo, ha dato una prova malinconica di stanchezza e di dimissione che le cronache generose, quelle sì, di retorica facile – «Duemila persone ai solenni funerali, la folla fin sul sagrato del Duomo...» – non sono riuscite a dissimulare. I sette sono morti tutti: tutti entro lo stesso anno. Arriva l´anno nuovo. Partita chiusa? Chissà. Ci saranno, nel 2008, milioni di operai che continueranno a lavorare con le mani e la testa, scriccatori e fiammellisti, e manovali edili romeni e albanesi, metalmeccanici senza contratto, raccoglitori arabi di carciofi a Castelvetrano e coltivatrici romene e ucraine di serre a Vittoria e pastori d´alpeggio senegalesi. Molti moriranno sul lavoro, di lavoro: morti bianche, rosse, incandescenti. Più di mille, ci potete scommettere. Ma la cifra più istruttiva è quella giornaliera: fra i 2,5 e i 3. Rende più l´idea, che muoiano ogni giorno due persone e mezza persona – o tre, netti. E i compagni dei sette di Torino? Hanno imparato molte cose, e molte ne possono insegnare: a condizione di non andare ancora troppe volte in televisione. Così, per non perdere la faccia, loro che ce l´hanno.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

per la prima volta dopo trent'anni sono in sintonia con Adriano Sofri, brutto segno....

Anonimo ha detto...

Il fatto è che passato il lutto tutto torna come prima....mille morti l'anno, mille omicidi sul lavoro, ma nessun tg strillerà all'insicurezza sociale per questo, è il sistema baby, produci, consuma, crepa! E se proprio te lo vuoi prendere con qualcuno fai espellere il romeno criminale...quando il ragazzo rom ubriaco ha travolto e ucciso 4 ragazzi nelle marche c'è stato sollevamento, i media che ne hanno dato immagini e nome, interviste dove si invocava pena di morte altro che l'arresto e la condanna a sei anni....quando l'altro giorno un bergamasco ubriaco con il suo gippone ha sterminato una famiglia, nè nome nè arresto, che la legge e l'intolleranza dei miserabili è uguale per tutti.....cazzi vostri, io resto in Spagna

Anonimo ha detto...

niente paura ci penserà il futuro governo veltrusconi