07 luglio 2006

Dalla nostra inviata in Canada

Di Manuela Ardingo


Il di piu' che noi siamo ancora in grado di intravedere tra i sogni, qui non ha piu' alcuna possibilita' di risolversi simbolicamente. Perche' tutto e' gia' in atto, tutto e' gia' stato espresso. Tutte le possibilita': sviluppate, digerite, assimilate.

E, invece, attraverso la privazione si capisce. Attraverso il sacrificio si cresce. Sempre di piu' sono convinta che la verita' sia nella sottrazione. Una sottrazione scelta e consapevole che nulla ha a che vedere con certi integralismi di facciata che si vedono in giro. Anche l'integralismo pauperista, infatti, e' un sintomo dello stesso male. Una sfida alla normalizzazione del mondo. Solo incidentalmente l'uomo moderno e' indotto al sacrificio, salvo poi accorgersi di quanto tale sacrificio sia nutriente. E l'inerzia sottesa a una tale mancanza di coscienza risulta, ormai, insopportabile. E triste.

Tutto sembra viaggiare verso il risolto, il prodotto, il realizzato. Passare dalla potenza all'atto sembra tutto cio' di cui abbiamo bisogno. Invece la vita sta nel divenire e solo la morte e'. Noi, al piu', ci accontentiamo di esistere. Vogliamo tutto e subito. Vogliamo poche deviazioni e dritti alla meta. Non c'e' piu' spazio per gli scherzi del destino ne' per le malinconie piu' feconde. Non c'e' piu' il fertile stato d'animo dell'insoddisfazione. Noi, in realta', vogliamo morire. Noi sappiamo che anche le nostre piu' cieche pulsioni fanno parte della vita. Noi sentiamo che, ancora, da qualche parte, esiste qualcosa di inespresso.

Eppure, forse provvidenzialmente, continuiamo a vivere come se solo esistessimo. E sono moltissime le volte in cui mi osservo dall'alto, estaticamente, e mi chiedo: chi sono? E non so se guardare al tutto o alla parte. Se sia meglio accumulare nuove strade o solo approfondire quelle vecchie. Se esistere per ottant'anni sia uguale a vivere per quaranta. Se quello che penso possa fare la differenza. E, soprattutto, che tipo di differenza sia.

Leggo Baudrillard e mi colpisce una frase: una volta aggirata ogni trascendenza, le cose sono soltanto quelle che sono e, cosi' come sono, non si sopportano. Forse la nostra irrequietezza nasce solo da un'ossessione di profondita'. Forse, mi dico. e' quindi la noia che ci fa piu' belli. E' la noia che ci spinge avanti, di perche' in perche', fino alla fine dove non c'e' risposta. Ma e' meglio cosi', lo imparo ogni giorno. Perche' se da subito fossi quella che idealmente dovrei essere non diventerei mai quella che sono.

Non avrebbe piu' senso conoscere parole come obsoleto e sciabordio, ne' sentirsi orgogliosa di conoscere una lingua bella come l'italiano. In inglese tutto e' ottimizzato e piatto. Si usa la stessa parola per coprire le sfumature di dieci nostre parole. Ed e' evidente, senza scomodare Meneghello, che: laddove non esiste una parola non esiste neanche il concetto che la rende necessaria. Ma scegliere una parola tra venti, richiede energia e una certa sensibilita'. Gesti fuori mercato, attitudini poco convenienti. Meglio, allora, spalmare un good su ogni sensazione positiva piuttosto che mettersi li' a distinguere. Meglio far sparire dal linguaggio globale i simboli e le sfumature: non servono, distraggono e fanno perdere tempo. Meglio poche parole e nessuna possibilita' di fraintendimento. Tutto deve essere chiaro, leggibile, orribilmente user friendly: fa' una cosa che anche un idiota possa usare e solo un idiota vorra' usarla. Tutto deve significare solo cio' che significa, senza sforzo. Senza svolazzi poetici, senza concetti complessi, senza letterarie romanticherie.

Il punto e' oscillare tra due estremi ugualmente illusori: il mondo non esiste se io non ci penso o io non esisto se il mondo non mi pensa? Il mondo non esiste solo perche' lo conosciamo, e' un fatto. Anche se, come scrivevo all'inizio, esistere non e' tutto: non e' neanche una minima parte del tutto. Capire che le due illusioni siano in qualche modo collegate e' quanto ho imparato in questi giorni.

Il mondo non ha alcuna predestinazione alla conoscenza, scrive Baudrillard. Ma la conoscenza appartiene al mondo almeno quanto i miei occhi. Appartiene quindi allo stesso sistema di rappresentazioni che ho imparato a temere da qualche tempo. Sistema insolubile che prevede situazioni in cui una piccola parte del mondo, io, pretende di essere lo specchio del mondo stesso. Situazione impossibile perche' lo specchio fa parte del mondo esattamente quanto la conoscenza e la mia voglia di divenire. E' un po' la metafora dello specchio di Nietzsche: Se cerchiamo di considerare lo specchio in se', finiamo per scoprire su di esso nient'altro che le cose. Se vogliamo cogliere le cose, ritorniamo in definitiva a nient'altro che lo specchio. Questa e' la piu' universale storia della conoscenza.

E l'altro giorno, arrivando in macchina da Boston, mi spiavo nello specchietto retrovisore. Mi guardavo negli occhi, senza concedermi il resto. Poi ho cominciato a pensare a me e alla familiarita' che ho con il mio viso. A quanto mi siano estranee le mie espressioni e a quanto, invece, siano completamente intellegibili le mie impressioni. Pensavo: chi sei?, tornando ai miei occhi. Poi ho smesso e ho cominciato a guardare piu' giu' e piu' intorno. Ho cominciato a intuire una superficie altra a sostenere la mia immagine. E, quasi d'improvviso, mi sono accorta di una frase scritta in nero sullo specchietto:

OBJECTS IN MIRROR ARE CLOSER THAN THEY APPEAR!

Touche'.

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1 commento:

Anonimo ha detto...

touchè...