Questa è una non-recensione di un libro che non ho ancora letto: tutto normale, direbbero in molti, quanti sono i critici che fanno così.
Ho qui il “librino” davanti a me, di colore bianco e rosso, gentilmente inviatomi da Antonello Ricci; si intitola Bianciardi com’era, di Mario Terrosi, anche se poi come sottotitolo riporta Lettere di Luciano Bianciardi ad un amico grossetano.
Inutile star qui a ricordare chi fosse Bianciardi che, come dice Moretti nel suo Caimano, è inutile cercare di spiegare cosa non va di Berlusconi a chi non vuole capire in che Italia viviamo. E quindi cosa aggiungere sull’intellettuale-scrittore-traduttore-precursore (e chissà cos’altro) grossetano, andatosene troppo presto nel 1971 dopo una vita discretamente maledetta, ma nella quale era arrivato anche fin dentro al successo, quello vero?
Ben poco, direi. Magari a chi non lo conosce diamo il consiglio di leggersi la bella biografia di Pino Corrias, dal titolo La vita agra di un anarchico, dove in copertina campeggia una sua bella foto ritratto di traverso, come quella che in fondo fu sempre la sua vita.
Di Mario Terrosi invece sapevo poco e nulla, solo che era un pittore e scrittore grossetano amico d’infanzia di Bianciardi, di quelli che non si perdono di vista. E a quel tempo due che non avevano voglia di perdersi di vista potevano solo scriversi, se abitavano a centinaia di chilometri di distanza.
Questo, dunque, è un libro di lettere di Bianciardi a Terrosi, con qua e là qualche appunto di Terrosi sull’amico, qualche notarella a margine.
Almeno così credo, sbirciandovi dentro, ma non è poi troppo importante.
Il libro fu pubblicato verso la metà degli anni ‘80 dalla casa editrice Ianua di Roma, che per le alterne vicende delle umane sorti conosco, perché il mitico editore - Antonio Porta - occupa fisicamente da sempre (credo) una delle postazioni fisse librarie nell’atrio del Tribunale di Roma, ed è una specie di Barbablù per molte delle avvocatesse che con delle vocine vanno a chiedergli cose assurde, beccandosi spesso delle sonore pernacchie.
Prima di stampare questo libro, Antonio chiese il consenso a Terrosi di pubblicare le lettere, gli riconobbe le sue provvigioni, e pubblicò.
Mai nulla, in quegli anni, gli venne rinfacciato, da parte di chicchessia.
Vent’anni dopo Marcello Baraghini, di Stampa Alternativa, che per le alterne vicende delle umane sorti conosco tramite gli amici dell’Associazione Il Fondo, ex Fondo Boccardi (e ho detto tutto, e anche qui chi vuol capire ha capito, chi no peggio per lui, magari si informi sulle vicissitudini dell’Associazione in separata sede), trova questa edizione, si ri-appassiona al personaggio Bianciardi, per lui colpevolmente chiuso in una torre d’avorio dalla Fondazione, e decide di ristampare il libro.
Contatta quindi Antonio Porta e gli chiede se gli può cedere i diritti. Porta accetta, per qualche centinaio di euro. Baraghini aspetta che l’affare decanti, tanto che Porta quando mi vede mi chiede sempre cosa aspetti Baraghini a firmare il contratto, poi alla fine si decide, il libro si farà.
Grazie anche alla collaborazione di Corrado Barontini e Antonello Ricci, altra talentuosa vecchia conoscenza dell’Associazione. I due mettono giù un’appendice su Terrosi e Bianciardi, sudando qualche camicia per scrivere cose gradite alla famiglia Terrosi, che pare rompa parecchio.
Il libro alfine si stampa. Non so in quante copie - qualche decina, immagino, almeno, ma si stampa. Ne ho la prova, è qui davanti a me, nel suo bel bianco a rosso.
Nel frattempo la famiglia Bianciardi, e precisamente la figlia, viene a sapere che si sta facendo un libro di lettere del padre, scrive a Baraghini e lo diffida dal pubblicare il libro (o qualcosa del genere), perché lei non dà il consenso necessario ai sensi della normativa sul diritto d’autore, non avendo Bianciardi o chi per lui mai fornito un consenso all’edizione Ianua, che viene definita solo “tollerata”,
Baraghini, che non conosce l’arte della mediazione, credo l’abbia insultata, e temo che vi sia poco da ricucire, forse solo qualche punto di sutura. Il suo braccio destro, peraltro, gli consiglia anche di non azzardarsi ad adire vie legali, non ha senso rischiare beghe e cause su libri così, da 500 copie, 1000 al massimo.
Nel frattempo, però, il libro - che era in uscita - arriva anche a qualche critico, come Abbiati de "Il Giornale", che una decina di giorni fa ci fa sopra una recensione.
Su un libro che, allo stato dei fatti, non uscirà mai, almeno oltre quelle rare copie da collezione che gireranno l’Italia, sperando non finiscano nelle mani di censori come quelli descritti da Bradbury in Fahreneit 451. Forse fra 35 anni verrà anche pubblicato, per carità, quando ci sarà la possibilità di averlo senza consenso.
Questa storia però ha preso corpo, è diventata reale, nella sua follia.
La storia di un libro che non c’è, che poi è anche una storia di altre storie, tutte da raccontare, magari in un altro libro, questo sì da scrivere e pubblicare.
Il libro bianco e rosso che ho qui davanti a me però è maledettamente vero, apro le sue pagine e le trovo scritte, non è una allucinazione proveniente da casa di Antonello. Una delle tante, direbbe qualche malalingua…
E’ solo un’altra storia di Maremma, di quelle che va a finir male per forza, direbbe il Pacini. O un’altra storia di diritti d’autore, di edizioni di diverso genere su cui la famiglia vuole avere ogni controllo, di incomprensioni, di mezze frasi, di incapacità agli accomodamenti, direbbe qualche altro.
Io non lo so che storia sia, forse non mi interessa nemmeno. O forse sì.
E poi il libro lo debbo ancora leggere, per me la vera storia sta là dentro. Tutta là dentro. Quella di un uomo solo come Bianciardi che, a 35 anni dalla morte, oggi sembra ancora più solo. Un uomo che, all’apice del suo successo, nel 1962, scrive da Milano all’amico “che la gente per Natale è impazzita, compra di tutto, compra, compra. Figurati che comprano perfino i libri…”: dispiace pensare che di queste lettere, della sua vita, la gente nemmeno impazzendo potrà leggere mai.
Bianciardi oggi ri-muore e nessuno se ne accorge, come fu del resto la sua prima morte, accompagnato al cimitero da poche persone, quasi di soppiatto.
Trovo in banda bianca in copertina una lettera del 1961 “Ho in mente di buttar giù una grossa pisciata in prima persona sull’avventura milanese, sul miracolo italiano, sulla diseducazione sentimentale che è la sorte nostra d’oggi. Tu non immagini l’aridità della gente che mi sta intorno…”: a questo punto bisogna proprio leggerlo questo libro, diventa troppo interessante.
Ma come si fa a recensire seriamente, come si fa a parlare di un libro che non c’è?
Ho qui il “librino” davanti a me, di colore bianco e rosso, gentilmente inviatomi da Antonello Ricci; si intitola Bianciardi com’era, di Mario Terrosi, anche se poi come sottotitolo riporta Lettere di Luciano Bianciardi ad un amico grossetano.
Inutile star qui a ricordare chi fosse Bianciardi che, come dice Moretti nel suo Caimano, è inutile cercare di spiegare cosa non va di Berlusconi a chi non vuole capire in che Italia viviamo. E quindi cosa aggiungere sull’intellettuale-scrittore-traduttore-precursore (e chissà cos’altro) grossetano, andatosene troppo presto nel 1971 dopo una vita discretamente maledetta, ma nella quale era arrivato anche fin dentro al successo, quello vero?
Ben poco, direi. Magari a chi non lo conosce diamo il consiglio di leggersi la bella biografia di Pino Corrias, dal titolo La vita agra di un anarchico, dove in copertina campeggia una sua bella foto ritratto di traverso, come quella che in fondo fu sempre la sua vita.
Di Mario Terrosi invece sapevo poco e nulla, solo che era un pittore e scrittore grossetano amico d’infanzia di Bianciardi, di quelli che non si perdono di vista. E a quel tempo due che non avevano voglia di perdersi di vista potevano solo scriversi, se abitavano a centinaia di chilometri di distanza.
Questo, dunque, è un libro di lettere di Bianciardi a Terrosi, con qua e là qualche appunto di Terrosi sull’amico, qualche notarella a margine.
Almeno così credo, sbirciandovi dentro, ma non è poi troppo importante.
Il libro fu pubblicato verso la metà degli anni ‘80 dalla casa editrice Ianua di Roma, che per le alterne vicende delle umane sorti conosco, perché il mitico editore - Antonio Porta - occupa fisicamente da sempre (credo) una delle postazioni fisse librarie nell’atrio del Tribunale di Roma, ed è una specie di Barbablù per molte delle avvocatesse che con delle vocine vanno a chiedergli cose assurde, beccandosi spesso delle sonore pernacchie.
Prima di stampare questo libro, Antonio chiese il consenso a Terrosi di pubblicare le lettere, gli riconobbe le sue provvigioni, e pubblicò.
Mai nulla, in quegli anni, gli venne rinfacciato, da parte di chicchessia.
Vent’anni dopo Marcello Baraghini, di Stampa Alternativa, che per le alterne vicende delle umane sorti conosco tramite gli amici dell’Associazione Il Fondo, ex Fondo Boccardi (e ho detto tutto, e anche qui chi vuol capire ha capito, chi no peggio per lui, magari si informi sulle vicissitudini dell’Associazione in separata sede), trova questa edizione, si ri-appassiona al personaggio Bianciardi, per lui colpevolmente chiuso in una torre d’avorio dalla Fondazione, e decide di ristampare il libro.
Contatta quindi Antonio Porta e gli chiede se gli può cedere i diritti. Porta accetta, per qualche centinaio di euro. Baraghini aspetta che l’affare decanti, tanto che Porta quando mi vede mi chiede sempre cosa aspetti Baraghini a firmare il contratto, poi alla fine si decide, il libro si farà.
Grazie anche alla collaborazione di Corrado Barontini e Antonello Ricci, altra talentuosa vecchia conoscenza dell’Associazione. I due mettono giù un’appendice su Terrosi e Bianciardi, sudando qualche camicia per scrivere cose gradite alla famiglia Terrosi, che pare rompa parecchio.
Il libro alfine si stampa. Non so in quante copie - qualche decina, immagino, almeno, ma si stampa. Ne ho la prova, è qui davanti a me, nel suo bel bianco a rosso.
Nel frattempo la famiglia Bianciardi, e precisamente la figlia, viene a sapere che si sta facendo un libro di lettere del padre, scrive a Baraghini e lo diffida dal pubblicare il libro (o qualcosa del genere), perché lei non dà il consenso necessario ai sensi della normativa sul diritto d’autore, non avendo Bianciardi o chi per lui mai fornito un consenso all’edizione Ianua, che viene definita solo “tollerata”,
Baraghini, che non conosce l’arte della mediazione, credo l’abbia insultata, e temo che vi sia poco da ricucire, forse solo qualche punto di sutura. Il suo braccio destro, peraltro, gli consiglia anche di non azzardarsi ad adire vie legali, non ha senso rischiare beghe e cause su libri così, da 500 copie, 1000 al massimo.
Nel frattempo, però, il libro - che era in uscita - arriva anche a qualche critico, come Abbiati de "Il Giornale", che una decina di giorni fa ci fa sopra una recensione.
Su un libro che, allo stato dei fatti, non uscirà mai, almeno oltre quelle rare copie da collezione che gireranno l’Italia, sperando non finiscano nelle mani di censori come quelli descritti da Bradbury in Fahreneit 451. Forse fra 35 anni verrà anche pubblicato, per carità, quando ci sarà la possibilità di averlo senza consenso.
Questa storia però ha preso corpo, è diventata reale, nella sua follia.
La storia di un libro che non c’è, che poi è anche una storia di altre storie, tutte da raccontare, magari in un altro libro, questo sì da scrivere e pubblicare.
Il libro bianco e rosso che ho qui davanti a me però è maledettamente vero, apro le sue pagine e le trovo scritte, non è una allucinazione proveniente da casa di Antonello. Una delle tante, direbbe qualche malalingua…
E’ solo un’altra storia di Maremma, di quelle che va a finir male per forza, direbbe il Pacini. O un’altra storia di diritti d’autore, di edizioni di diverso genere su cui la famiglia vuole avere ogni controllo, di incomprensioni, di mezze frasi, di incapacità agli accomodamenti, direbbe qualche altro.
Io non lo so che storia sia, forse non mi interessa nemmeno. O forse sì.
E poi il libro lo debbo ancora leggere, per me la vera storia sta là dentro. Tutta là dentro. Quella di un uomo solo come Bianciardi che, a 35 anni dalla morte, oggi sembra ancora più solo. Un uomo che, all’apice del suo successo, nel 1962, scrive da Milano all’amico “che la gente per Natale è impazzita, compra di tutto, compra, compra. Figurati che comprano perfino i libri…”: dispiace pensare che di queste lettere, della sua vita, la gente nemmeno impazzendo potrà leggere mai.
Bianciardi oggi ri-muore e nessuno se ne accorge, come fu del resto la sua prima morte, accompagnato al cimitero da poche persone, quasi di soppiatto.
Trovo in banda bianca in copertina una lettera del 1961 “Ho in mente di buttar giù una grossa pisciata in prima persona sull’avventura milanese, sul miracolo italiano, sulla diseducazione sentimentale che è la sorte nostra d’oggi. Tu non immagini l’aridità della gente che mi sta intorno…”: a questo punto bisogna proprio leggerlo questo libro, diventa troppo interessante.
Ma come si fa a recensire seriamente, come si fa a parlare di un libro che non c’è?
Alessandro Tozzi